Marocchinate: una grande colpa dei liberatori
Storia di un crimine contro l’umanità

La lentissima avanzata delle truppe alleate sul suolo italiano durante la campagna militare del 1943-1945 fu contrassegnata da una serie di iniquità che ormai sono di pubblico dominio, ma di conoscenza non ancora esaustiva, grazie a una serie di contributi oggettivi, idonei a mettere in luce i delitti e le vessazioni di cui si resero colpevoli protagonisti le cosiddette forze «liberatrici»[1].

Uno dei capitoli più amari, e rimasti più a lungo sotto il velo del silenzio, anche per la comprensibile ritrosia delle vittime a evocare autentiche tragedie personali trascinate per tutta la vita, è quello delle cosiddette «marocchinate» con cui vengono sinteticamente definiti gli stupri e le violenze a danno precipuo delle donne, ma anche di adolescenti e persino di bambini, nell’ambito di una prassi delinquenziale quanto meno tollerata se non anche autorizzata dagli alti comandi, e sfociata più volte nella morte, che poneva fine a indicibili sofferenze.

I crimini più diffusi furono quelli perpetrati dai Marocchini del Corpo di Spedizione Francese agli ordini del Generale Alphonse Juin che risalivano la Penisola, spesso con l’incarico militarmente più impegnativo: aprire la strada alle altre formazioni alleate, con priorità per quelle anglo-americane, ma anche polacche, brasiliane, australiane e neozelandesi. Tra l’altro, furono proprio i «goumiers» a dare contributi decisivi nella lotta contro la lunga resistenza tedesca di Cassino, sacrificandosi in combattimenti generalmente ravvicinati e particolarmente sanguinosi, quando l’uso del pugnale integrava con successo quello delle armi da fuoco.

L’armata di Juin, in realtà, era piuttosto eterogenea: infatti, poteva contare su circa 110.000 uomini, tre quinti dei quali costituiti da forze nordafricane provenienti da Algeria, Marocco e Tunisia, mentre la minoranza annoverava reparti autenticamente transalpini, che avevano seguito il Generale Charles De Gaulle nella simbolica ricostituzione di un nuovo esercito francese. Da parte sua, Juin era stato tanto abile da cancellare il suo passato di collaborazionista con i Tedeschi e da assumere il comando del Corpo di Spedizione francofono, destinato prioritariamente al fronte italiano e trasferito in Francia all’indomani dello sbarco in Normandia: il personaggio non aveva molti scrupoli, ed ebbe mano larga nel lasciare impunite le innumerevoli «marocchinate» evitando ogni avallo formale che potesse comprometterne l’operato alla luce del diritto internazionale bellico. Non a caso, nel dopoguerra, dopo avere testimoniato in favore del Generale Philippe Pètain, divenne Comandante della NATO Centro-Europea, Maresciallo di Francia, e infine prestigioso membro dell’Accademia.

La cospicua pubblicistica relativa alle imprese criminali dei «liberatori» ha squarciato una pluridecennale omertà su comportamenti avulsi da qualsiasi motivazione strategica o tattica, e dallo stesso diritto di rappresaglia: si tratta di una lunga serie di violenze indiscriminate, che ebbero inizio in Sicilia dopo lo sbarco del luglio 1943, sia a danno delle popolazioni civili sia dei prigionieri italiani, a opera del Corpo Francese e delle forze americane del Generale George Patton, e che proseguirono senza soluzione di continuità soprattutto nel Lazio e in Toscana, dove l’avanzata degli Alleati fu particolarmente lenta, a causa della resistenza opposta dall’Asse dapprima sul fronte di Cassino e poi sulla Linea Gotica.

Nell’ambito di questa pubblicistica si deve annoverare il nuovo, agile e documentato contributo di Eliane Patriarca (La colpa dei vincitori: viaggio nei crimini dell’esercito di liberazione, traduzione di Maria Moresco, Mondadori per Piemme, Milano 2018, 176 pagine). L’Autrice è una giornalista francese di origine ciociara, che non a caso ha voluto dedicare la maggior parte della sua esegesi alle vicende che sconvolsero i distretti del Frusinate e dell’Agro Pontino (ma non solo) dove le efferatezze marocchine raggiunsero livelli inimmaginabili; ciò, dando voce prioritaria alle vittime superstiti, ormai molto anziane, e riuscendo a rimuoverne sia pure parzialmente il comprensibile blocco psicologico, sempre vivo anche a tanto tempo dai fatti.

La lettura delle testimonianze è davvero allucinante, sia per quanto riguarda la violenza sulle donne, sia per tutte le altre iniquità e uccisioni conformi alla legge del più forte, e non certo all’ordinamento giuridico di guerra. Vi furono stupri di massa ai danni di singole persone, anche di sesso maschile, distruzioni, incendi, sevizie: il tutto, con orribili effetti a lungo termine, quali le gravidanze «nascoste» di molte vittime, i figli non voluti e i casi di pazzia, e senza che siano mai intervenute scuse ufficiali da parte francese, salvo quella informale presentata soltanto nel 2004 per singola iniziativa marocchina[2].

C’è di peggio. A livello di interpretazione storica dei fatti, non sono mancate versioni francesi improntate a un negazionismo degno di miglior causa[3] con surreale colpevolizzazione delle donne oggetto di violenza: prima fra tutte, se non altro per l’altezza della cattedra di provenienza, quella del Cardinale Eugéne Tisserant secondo cui al fenomeno delle «marocchinate» non sarebbe stato estraneo un «desiderio morboso di esperienze sessuali a carattere esotico»[4]. Ciò, senza la benché minima consapevolezza di come fossero andate realmente le cose, e nemmeno di alcune cifre essenziali: le donne stuprate non furono meno di 12.000[5] cui si aggiunse persino un sacerdote, Don Alberto Terilli parroco di Esperia, sodomizzato senza pietà per essere sceso in difesa delle sue compaesane, violentate nel numero di 900, e scomparso nel 1946 a seguito delle ferite riportate e delle malattie contratte nella circostanza.

Le storie individuali sono tante, o meglio troppe, ma vale la pena di ricordare qualche esempio. A Castro dei Volsci venne stuprata e quindi fucilata la diciassettenne Veglia Molinari, mentre la cinquantenne Elisabetta Rossi, che aveva tentato di difendere le figlie, fu sgozzata, e il piccolo Remo Scarpiglia di cinque anni venne lanciato in aria e lasciato morire sul selciato. A Lenola, dove gli stupri continuarono per tre giorni ai danni di almeno 50 donne, i Marocchini si comportarono in guisa da far dire ai superstiti che quelle poche giornate erano state di gran lunga peggiori dei nove mesi di occupazione tedesca. A Siena, 24 adolescenti di età comprese fra 12 e 14 anni furono stuprati e ricoverati in ospedale il 27 luglio 1944, poco prima del ritiro dei «goumiers» dal fronte italiano. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo e costituire una vera e propria enciclopedia dei dolori.

Sia pure a distanza di tanto tempo, alcune vittime e i loro discendenti si sono organizzati nell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, presieduta da Emilio Ciotti, che non ha lasciato alcunché d’intentato sul fronte della memoria e di pur tardivi riconoscimenti delle offese subite. I risultati sono stati contenuti, ma assai importanti sul piano simbolico ed etico-politico, anche se qualche tardivo risarcimento è stato corrisposto a taluni sopravvissuti come la signora Rosa, sia pure alla veneranda età di 98 anni. Nulla, invece, per la maggior parte delle vittime ormai scomparse, per quelle che si suicidarono per la disperazione e la vergogna, che emigrarono in Paesi lontani e subirono, oltre al resto, anche l’amarezza dell’esilio.

La vicenda delle «marocchinate» – al pari di quelle delle foibe e delle violenze partigiane a guerra finita – è stata oggetto di rimozione per tanto tempo, alla luce di esigenze politiche connesse alla necessità di ristabilire rapporti di buon vicinato con la Francia, compromessi dal «colpo alla schiena» del 1940. Nondimeno, costituisce una pagina agghiacciante su cui è opportuno riflettere quale attestazione degli eccessi criminali a cui la guerra finisce quasi sempre per dare luogo, in specie quando siano enfatizzati, come nel caso di specie, dal desiderio di rivalsa dei popoli coloniali, reso tanto più forte dalla consapevolezza di essere sacrificati dai Comandi per i compiti più «sporchi» e sanguinosi.

In agro di Venafro, nel Cassinate, esiste un piccolo cimitero militare in cui sono sepolti i resti mortali di 175 Marocchini caduti sul fronte locale, mentre tanti altri scomparvero in zone diverse. In passato, quel cimitero è stato oggetto di qualche attentato scarsamente rilevante sul piano degli effetti concreti, ma non avulso dal ricordo dei crimini contro l’umanità perpetrati dal Corpo del Generale Juin. Oggi, spento il clamore delle battaglie, e cessato il pianto di tante vittime per la legge inesorabile del tempo, anche quel cimitero è diventato oggetto delle comuni «pietas» e segno di civiltà, ma nello stesso tempo, ricordo imprescrittibile di una tragedia immensa, troppo spesso abbandonata nell’oblio.


Note

1 Nell’ambito della recente storiografia italiana, l’argomento è stato trattato in maniera esaustiva, anche alla luce di testimonianze dettagliate, da Gigi Di Fiore, Controstoria della liberazione: le stragi e i crimini dimenticati degli Alleati, Rizzoli Editore, Milano 2012, 355 pagine; e da Antonio Riccio, Le violenze dei goumiers: la memoria della Seconda Guerra Mondiale nei Monti Aurunci, Aracne Editrice, Roma 2015, 292 pagine. Si tratta di contributi importanti per avere gettato una nuova luce, dopo decenni di appiattimento sulle vulgate, circa i reali contenuti della guerra di liberazione nell’ambito di un aspetto particolarmente significativo come quello dei crimini contro l’umanità perpetrati anche dagli Alleati.

2 Le scuse marocchine vennero presentate in un Convegno tenutosi a Cassino nel sessantesimo anniversario dei fatti, per bocca del Professor Hamid Benrahhalate, nativo di Meknés, nipote di un «goumier» e insegnante in una scuola di Nizza. Nella sostanza, fu un’iniziativa di carattere personale che non ebbe alcuna condivisione francese, a livello sia politico che militare.

3 La storiografia francese è stata piuttosto avara circa le gesta del Corpo di Spedizione in Italia, e in genere si è adeguata a criteri meramente agiografici, con un occhio di riguardo per il valore dei suoi combattenti, reale o presunto che fosse, e con sostanziale disinteresse per le «marocchinate». In tal senso, si vedano soprattutto: Pierre Lyautey, La campagne d’Italie (1944): souvenir d’un goumier, Plon Editeurs, Paris 1945; e Jean Claude Notin, La Campagne d’Italie, Perrin, Paris 2007. Di segno opposto, Julie Le Gac, Vaincre sans gloire: le corps expéditionnaire francais en Italie (novembre 1942-juillet 1944), Les Belles Lettres / Ministère de la Dèfense, Paris 2014.

4 Consacrato Cardinale da Papa Pio XI nel 1936, Eugéne Tisserant (1884-1972) è stato autorevole membro del Sacro Collegio partecipando all’elezione di tre Pontefici, assurgendo al vertice dell’Ordine del Santo Sepolcro e ricevendo, al pari del Generale Juin, l’alto onore di essere nominato membro dell’Accademia, quale successore del duca Maurice de Broglie.

5 La cifra, peraltro riduttiva, venne formulata in occasione del convegno organizzato a Pontecorvo per iniziativa dell’Onorevole Maria Maddalena Rossi (1906-1995) che nel dopoguerra si fece paladina, anche in Parlamento, del dramma patito dalle donne italiane, sollecitando l’intervento del Governo in favore delle vittime (1952) ma raccogliendo il disinteresse del Sottosegretario al Tesoro, secondo cui il problema era già stato risolto con indennizzi peraltro minimi sia nelle fruizioni che negli importi; e con «armadi di farmaci» messi a disposizione nei Comuni interessati per la cura di malattie comunque inguaribili, perché quelle donne, come ebbe ad affermare l’Onorevole Rossi a Montecitorio, avevano sofferto «qualcosa di peggio della morte» vedendosi costrette a rinunciare alla speranza, alla famiglia e alla normalità di una tranquilla vita affettiva, stante l’ostracismo alla loro condizione di «disonore» particolarmente vivo in ambienti ancora dominati da un pervicace e miope conservatorismo.

(settembre 2018)

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