Gli Osoppo, i partigiani patrioti
Una pagina nera della Resistenza ancora troppo poco conosciuta: la drammatica vicenda di una brigata partigiana massacrata per aver rifiutato di mettersi agli ordini di Tito

Sulla Resistenza Italiana si è scritto molto; troppo, forse, e troppo a detrimento della realtà storica. La Resistenza si è ridotta ad uno schema di comodo, dove i partigiani combattevano contro nazisti e fascisti per la liberazione d’Italia. In realtà, anche tra i gruppi partigiani esistevano forti differenze, c’era chi combatteva per un’Italia indipendente, chi per instaurarvi un Governo sul modello sovietico, chi per svendere una parte della Penisola a Tito ed alla Jugoslavia. Vi furono varie Resistenze in opposizione tra loro, opposizione che a volte sfociò in veri e propri massacri. La vicenda della Brigata Osoppo, che narreremo in queste pagine, ne è un esempio.

Tra i sacerdoti che si erano mobilitati per aiutare i militari italiani rimasti bloccati dall’armistizio dell’8 settembre 1943 nei boschi del Friuli c’erano Don Aldo Maretti, Don Redento Bello e Don Ascanio De Luca. Per tornare a casa, i soldati in grigioverde non potevano prendere il treno perché, una volta intercettati dai Tedeschi, sarebbero stati deportati in Germania: avevano bisogno di aiuto ma, soprattutto, di una organizzazione di protezione. I tre sacerdoti, dopo una consultazione di tutti i parroci, nel seminario di Udine la notte del 7 marzo 1944 avviarono la Resistenza Cattolica fondando la Brigata Osoppo, battezzata col nome del paese friulano che nel Risorgimento si era ribellato all’occupazione austriaca. Essa raccoglieva molti Alpini, come bandiera aveva adottato il Tricolore Sabaudo e divenne punto di riferimento per partigiani – in gran parte Cattolici – di tendenza azionistica e liberale, che non volevano essere succubi di un’Unione Sovietica incombente attraverso l’attività delle Brigate Garibaldi (di ispirazione comunista); il suo scopo era di combattere per la liberazione dell’Italia difendendola nel contempo dalle incursioni delle bande dei partigiani di Tito che miravano ad annettere alla Jugoslavia tutto il Friuli, almeno sino al Tagliamento.

Si apre qui una doverosa digressione dedicata alla storia di Tito, ancora poco conosciuta e in parte avvolta nel mistero; essa è stata raccontata da Don Giuseppe Rippa, ex parroco di Vallarsa, in un suo memoriale, ripreso dal giornale «Alto Adige» il 9 aprile 1993. Nel 1882 una tragica alluvione aveva colpito il Trentino, in particolare la zona di Vallarsa, lasciando dietro di sé gravi danni e miseria. L’Impero Austro-Ungarico (il Trentino era allora territorio austriaco) aveva offerto a circa 200 persone di questa valle di lavorare alla costruzione della ferrovia Vienna-Zagabria-Sarajevo: fra questi c’erano i giovani fratelli Giuseppe e Ferdinando Broz, della frazione Obra di Vallarsa. In seguito Ferdinando rientrerà in Trentino, mentre Giuseppe rimarrà in Bosnia: qui si sposò con una donna slovena da cui ebbe 15 figli; il settimo figlio, Josip, nato nel 1892 a Kumrovec, si farà chiamare «Tito». Tito era dunque di origine italiana! I discendenti di Ferdinando si considerano cugini di Tito: negli anni Sessanta questi inviò un ambasciatore a Vallarsa. Visto che Tito era Trentino, resterebbero da spiegare molte cose, come il suo accanimento contro gli Italiani, le foibe, la volontà di annettersi il Nord-Est dell’Italia.

Ma torniamo alla Brigata Osoppo. Verso la metà di agosto del 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale locale decise di cambiare i capi della Osoppo per metterla agli ordini di Tito. I membri della Brigata si ribellarono, ristabilendo la vecchia gerarchia ma, nonostante questa determinazione, il 5 ottobre 1944 la Osoppo venne posta alle dipendenze del IX Corpo d’Armata Jugoslavo, cui venne ordinato di liquidare tutti i partigiani che rifiutavano di sottoporsi al comando slavo.

Il terreno per l’eccidio fu preparato dai partigiani «rossi» con tre infamanti accuse: la prima era di vigliaccheria (perché i Cattolici si opponevano alle azioni troppo sanguinose che, tra l’altro, avrebbero esposto la popolazione civile a feroci rappresaglie tedesche); la seconda era di furto (si diceva che la Osoppo e le altre formazioni cattoliche si appropriassero di tutto il materiale lanciato dagli Alleati, mentre era vero il contrario); la terza, la più grave, era di tradimento: è vero che i partigiani della Osoppo avevano avuto contatti con reparti repubblichini, ed avevano organizzato addirittura attacchi in collaborazione con loro, ma questo solo in funzione anti slava e contro bande di partigiani titini che scorrazzavano nel Nord-Est d’Italia trucidando la popolazione locale.

Il comandante Francesco De Gregori (zio del famoso cantautore che ha preso il suo stesso nome), il cui nome di battaglia era «Bolla», spiegò ai suoi le pressioni comuniste affinché lasciasse la Brigata nelle loro mani: la Osoppo doveva abbandonare la zona oppure mettersi sotto il comando delle formazioni slave; per parte sua, lasciava i suoi uomini liberi di andarsene oppure restare e resistere con lui.

Dopo alcuni mesi, ai comunisti giunse l’ordine di agire contro i «Fazzoletti Verdi» della Osoppo. Cento partigiani rossi, in apparenza disarmati, salirono alle malghe di Porzus in provincia di Udine: Francesco De Gregori fu ucciso il 7 marzo 1945 insieme ad altri tre partigiani della sua Brigata, ma si tentò di far ricadere la responsabilità sui nazisti ed i repubblichini[1].

Tra gli altri 14 partigiani fatti prigionieri vi era anche un giovane di 19 anni, Guidalberto Pasolini, fratello del celebre Pier Paolo Pasolini; Guidalberto era lui pure Cattolico, come Francesco De Gregori e, durante la clandestinità, si era iscritto al Partito d’Azione. Avrebbe potuto salvarsi perché era più in basso, ma volle accorrere in aiuto dei compagni e venne arrestato. Sarà ucciso cinque giorni più tardi, dopo aver tentato la fuga: l’avevano ripreso, ferito, in un casolare, l’avevano steso nella fossa già preparata per lui e l’avevano finito a colpi di pistola. Sono significative le parole di Pier Paolo Pasolini che, scrivendo al «Mattino del Popolo» circa dieci anni dopo l’uccisione del fratello, suonano come un severo giudizio della Storia: «Quante volte ho pensato all’inaccettabilità dell’ingiustizia che pesa sulla morte del partigiano Ermes, mio fratello, a quanto sia inconciliabile la sua persona con la sua morte. Non passò giorno che egli non dedicasse, con la purezza e la bontà del diciottenne, tutto se stesso alla causa della Resistenza. […] I miei compagni comunisti farebbero bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera».

Analogo era il progetto comunista su Trieste: dare la città ed il territorio nelle mani dei «fratelli» comunisti di Tito, con l’inganno e la violenza nei confronti della popolazione e delle formazioni partigiane non comuniste. Tra il 25 aprile ed il 1° maggio 1945, i partigiani di Tito entrarono in città e ne mantennero il controllo per 42 giorni (riconosciuti oggi come i peggiori giorni di tutta la guerra). I partigiani anticomunisti della Osoppo, vista la gravità della situazione, favorirono l’arrivo degli Alleati Neozelandesi che poterono passare l’Isonzo solo il 2 maggio, accolti con ostilità dagli Jugoslavi. Il 9 giugno, dopo una trattativa molto difficile, gli Alleati ottennero lo sgombero della città. Nei 42 giorni di occupazione, risultano catturati 17.000 Triestini, dei quali 6.000 internati e 3.000 infoibati! (Al magazzino 18 del vecchio porto di Trieste sono conservati parte dei beni lasciati dagli Italiani che furono costretti a lasciare le loro case nei territori istriani, fiumani e dalmati occupati dagli Jugoslavi per non essere vittime della de-italianizzazione forzata di quelle regioni).

Sono fatti, questi ed altri, ben documentati ma ancora poco divulgati perché mettono in cattiva luce le azioni di una parte di coloro che dopo la guerra si arrogarono il merito di aver «liberato» l’Italia: fatti su cui si preferisce, spesso, calare un bianco sudario di silenzio.


Nota

1 Queste false notizie vennero poi fatte entrare, senza alcuna attenzione critica per la veridicità dei fatti, nel patrimonio culturale degli Italiani anche attraverso libri e canzoni. È il caso della canzone Bella ciao che non è un canto della Resistenza e neppure un canto dedicato ai partigiani massacrati dai nazisti, ma un’antica filastrocca napoletana per bambini; sono stati i comunisti italiani a cambiare le parole a quella canzoncina e ad intonarla in pubblico: essa venne cantata per la prima volta al Festival della Gioventù di Berlino nel 1948.

(aprile 2016)

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