Partigiani e partigianeria in Italia
Due vocaboli ad effetto oggettivamente descrittivo: la riconciliazione nazionale è sempre più ardua

Molte parole sono generalmente valide allo scopo illustrativo dei rispettivi referenti: in tal senso, quelle che riguardano i movimenti partigiani, confermando la regola, posseggono una forte e palese idoneità. Infatti, evidenziano anche formalmente la loro natura e la loro milizia di «parte» che si pongono in antitesi naturale, oltre che semantica, con il carattere di base dell’unità, in primo luogo etico, ma nello stesso tempo, giuridico-formale.

Le definizioni ufficiali sono chiare. Partigianeria è «spirito partigiano, atteggiamento di chi partecipa faziosamente per un gruppo politico o per movimenti di altra natura. Più genericamente, favoritismo, parzialità». Analogamente, partigiano è «chi parteggia, chi si schiera da una determinata parte, chi aderisce a un partito sostenendone le idee, seguendone le direttive, per lo più con spirito fazioso e settario» (Dizionario Enciclopedico, Istituto Enciclopedia Treccani, volume VIII, Roma 1995, pagina 865). In senso estensivo, nella terminologia militare risponde alla definizione di partigianeria l’appartenenza a «formazioni irregolari armate» con lo scopo di esercitare «azioni di disturbo o di guerriglia» (Vocabolario Treccani, Roma 2003, pagina 1.200). Non ci sono dubbi: i caratteri di faziosità e di irregolarità costituiscono attributi naturali di coloro che, essendo di parte, abbiano ripudiato comportamenti consapevolmente oggettivi, e si potrebbe aggiungere, effettivamente democratici.

In questa ottica, anche nel nuovo millennio non bisogna meravigliarsi se i «partigiani» di casa nostra (ed i loro eredi oggi in numero largamente maggioritario, che – se non altro per cause anagrafiche – non si impegnarono mai nella conclamata lotta per la democrazia e la libertà) continuano ad offendere i Caduti altrui perseverando perversamente nella logica che fu di Palmiro Togliatti e dei suoi complici cominformisti.

Costoro continuano a diffondere la «vulgata» secondo cui la tirannide fascista sarebbe stata sconfitta grazie al loro impegno «partigiano» aprendo nuovi rosei orizzonti di pace e sviluppo. In questo sono molto bravi perché riescono a far credere che il loro contributo sia stato decisivo, mentre tutti sanno, o dovrebbero ben sapere, che l’Italia (e non solo) fu «liberata» dagli eserciti Alleati, senza il cui apporto i bravi «partigiani» sarebbero rimasti nelle catacombe.

Con le sue connotazioni a carattere «settario» la partigianeria è un «virus» duro da estirpare, tanto più che viene lautamente foraggiata dai Governi, rossi, bianchi od azzurri che siano. Non a caso, insiste nel prendere distanze pregiudiziali da ogni ipotesi di vera e reale pacificazione, e quindi di ritrovata unità nazionale. Coltivare le divisioni è suo compito precipuo, con buona pace di chi, ormai da tempo, avrebbe voluto comprendere le ragioni di tutti, con rispetto per tutti, e voltare finalmente pagina nel quadro di una efficace cooperazione, se non altro a livello metodologico e storiografico.

Purtroppo, dovrà passare chissà quanto tempo prima che la partigianeria venga espunta dal modo di ragionare e di sentire del popolo italiano, tuttora prigioniero di antitesi strumentali che richiamano alla memoria quelle tra guelfi e ghibellini, o tra laici e credenti. Del resto, le prove di pacificazione più volte annunciate ed auspicate hanno avuto esiti generalmente infausti, come è accaduto nel novembre 2017, quando il Segretario Regionale dell’ANPI-Friuli Venezia Giulia ha dichiarato senza mezzi termini che si tratta di un obiettivo impossibile da perseguire, con tanti saluti a quanti ritengono che la storia consenta, se non altro, di riflettere e di maturare: evidentemente, anche dalla strage di Porzus (oltretutto compiuta da partigiani «rossi» a danno di altri partigiani) non è scaturita alcuna meditazione costruttiva, sia pure a lungo termine. Ciò, senza dire che quando l’ANPI ha promosso seminari di aggiornamento sulle vicende del confine orientale, come è accaduto recentemente a Milano, non ha riconosciuto il diritto di parola agli Esuli giuliani e dalmati, accolti – bontà sua – quali semplici uditori.

Ciò posto, sarebbe bene che l’informazione sulle efferatezze dei partigiani – e su quelle dei loro compagni di viaggio – venga opportunamente sviluppata, con riguardo prioritario agli eccidi perpetrati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e quindi in tempo di pace, molto spesso in totale dispregio degli accordi stipulati in ambito militare per la resa degli avversari: come è facile comprendere, andando ben oltre le semplici «parzialità e faziosità» di cui alle definizioni sopra richiamate.

Ad esempio, sarebbero da illustrare in maniera più esauriente, e meno episodica, le vicende occorse nelle regioni dell’Italia Centro-Settentrionale ed in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, dove si toccarono livelli estremi, anche sul piano quantitativo, e dove le stragi coinvolsero anche i civili, donne e bambini compresi.

Bisogna tenere alte le nobili bandiere del patriottismo e dell’unità contro ogni forma di deviazione «partigiana» e continuare a mettere all’indice, o meglio alla gogna, chi ebbe la spudoratezza – per dirne una – di paragonare gli Esuli giuliani al famoso bandito Salvatore Giuliano: sembra incredibile, ma accadde davvero durante la campagna per le elezioni politiche del 18 aprile 1948 ad iniziativa di un candidato del Fronte Popolare (Eros De Franceschini) nel corso di un comizio in Liguria.

Del resto, non è forse vero che le Vittime delle foibe, al pari di quelle del «triangolo rosso» emiliano, per non dire delle altre regioni italiane – nel numero complessivo di almeno 45.000 – sono state attribuite alla rivalsa per le cosiddette stragi fasciste, pur essendo generalmente immuni da qualsiasi colpa, salvo quella di avere amato e servito la Patria? Non è forse vero che i «partigiani» continuano a protestare la legittimità delle esecuzioni sommarie, persino di minorenni, se non anche di ragazzine «colpevoli» di essere figlie di un fascista, come è ultimamente accaduto, sempre in Liguria, per il terribile caso della tredicenne Giuseppina Ghersi a cui è stato negato persino il Ricordo, espungendo dal suo memoriale qualsiasi accenno al delitto partigiano di cui fu vittima?

In proposito, si deve ribadire un’annotazione non dappoco: nella grande maggioranza dei casi quelle Vittime furono «liquidate» a conflitto concluso, in palese spregio di ogni motivazione etica e di ogni norma giuridica, a cominciare da quelle del diritto naturale: ciò, con l’aggravante di allucinanti sevizie, e persino dell’oltraggio postumo alle spoglie mortali dei Caduti. Ciò non significa che la conclamata conciliazione non sarebbe stata possibile, a patto che fosse supportata da un comune atto volitivo escluso proprio dall’ANPI.

Come è facile constatare dalle date in riferimento e dalla virulenza con cui i «partigiani» continuano a ribadire le antiche pregiudiziali, dopo 70 anni la situazione risulta cristallizzata, o meglio, notevolmente peggiorata visto il sostanziale, pervicace rifiuto del confronto: a differenza di quanto è accaduto per altre grandi antitesi storiche la partigianeria continua ad imperversare nonostante lo scorrere degli anni e dei decenni. Non c’è che dire: come recita un vecchio adagio, certe madri sono sempre incinte.

(marzo 2018)

Tag: Carlo Cesare Montani, partigiani e partigianeria in Italia, Seconda Guerra Mondiale, riconciliazione nazionale, ANPI, formazioni irregolari armate, Palmiro Togliatti, vittime delle foibe, Resistenza, guerra partigiana.