Linee di lettura della Resistenza Italiana
Tutto ciò che è necessario prendere in esame per «leggere» correttamente e senza pregiudizi uno degli eventi che determinarono il nascere della moderna nazione italiana

Da parte del comandante della polizia divisionale di Giaveno, in occasione della marcia di commemorazione dei caduti partigiani, il 5 maggio 1945: «Stamane un gruppo di bandiere dei vari partiti si incolonnò partendo dalla piazza del Municipio per recarsi al Cimitero. Eppure l’unica bandiera avrebbe dovuto essere quella italiana, senza alcun distintivo, portata da un partigiano e fiancheggiata da partigiani armati. Invece per ordine dell’amministrazione comunale tutte le bandiere dei partiti vi hanno preso parte, dando la sensazione che non si trattasse di un corteo di religioso rispetto verso i nostri morti, ma di un corteo politico di propaganda»

Si sente spesso parlare di «Resistenza», ovvero di un variegato movimento di opposizione al fascismo. Eppure, anche coloro che ne tessono le lodi, nella maggior parte dei casi non hanno che una conoscenza parziale o superficiale di quello che fu, in realtà, il «fenomeno resistenziale». Cercheremo, con quest’articolo, di fare un po’ di chiarezza.

Casi di opposizione al fascismo da parte di singoli o gruppi, non necessariamente di matrice violenta, ci sono sempre stati. Ma la «Resistenza» di carattere militare, di cui si intende qui trattare, divenne di pressante attualità solo dopo la destituzione di Mussolini, il 25 luglio 1943, quando il regime fascista era crollato e il Re aveva già predisposto l’arresto e la prigionia del Duce, la ridistribuzione dei poteri tra le persone vicine alla Corona e la scelta di uscire dalla guerra (senza, peraltro, sapere come). Fu proprio il gruppo politico monarchico che prese il potere al posto del fascismo, a dar prova di una totale inettitudine. Il risultato più nefasto fu l’insieme delle modalità con le quali vennero fissate le strategie per l’armistizio dell’8 settembre 1943, che determinò la caduta di ogni legalità e di ogni potere e lasciò la nazione allo sbando.

Di fronte alla disgregazione dello stato, alcuni nuclei della Resistenza si formarono spontaneamente nei giorni e nelle settimane immediatamente seguenti l’armistizio per un senso di orgoglio civile. A queste valutazioni di elevato valore morale, si intrecciarono ben presto anche altre prospettive:

1) la Resistenza come guerra di liberazione contro i Tedeschi (in questo senso sentita da tutti). Per alcuni resistenti o partigiani, il Tedesco era lo straniero invasore, che si imponeva con la forza delle armi; per altri era il tradizionale nemico del Risorgimento e della Grande Guerra del 1915-1918; per altri ancora era l’eterno e brutale «barbaro teutonico»; per altri, infine, era il nazista, violento propagatore di un’ideologia aberrante;

2) la Resistenza come guerra civile contro i fascisti della Repubblica di Salò. La forza militare della Repubblica Sociale Italiana, dal 1944, contava almeno 245.000 uomini (secondo altre stime erano tra i 500.000 e i 600.000) inquadrati nell’esercito regolare e 135.000 nelle varie polizie e formazioni. I numeri non devono però trarre in inganno circa la loro effettiva efficienza in quanto queste forze erano spesso male equipaggiate e poco motivate: testimoni oculari raccontano di aver assistito a combattimenti in cui i fascisti dovevano rispondere con semplici fucili al fuoco delle mitragliatrici (armi che i partigiani ricevevano dagli Anglo-Americani con gli aviolanci);

3) la Resistenza come guerra di classe combattuta dai comunisti contro i Tedeschi ed i fascisti quale passaggio per arrivare al potere del proletariato. Talvolta, il nemico della nazione era identificato con il nemico di classe... eppure ci sono figure «padronali» sinceramente e direttamente coinvolte nella Resistenza, mentre le rivendicazioni operaie spaziavano dal ricordo di antichi torti subiti al mito dell’Unione Sovietica e di Stalin come liberatore degli oppressi;

4) v’erano poi nella Resistenza individui che combattevano per il proprio tornaconto, per avere un «patentino» di resistente da esibire dopo la liberazione al momento opportuno (molti nel dopoguerra ebbero un lavoro solo per aver militato nelle formazioni partigiane), per poter innescare impunemente vendette personali, o perché erano disertori o criminali.

In questo clima si costituirono le «Brigate Garibaldi» (legate ai comunisti ed ai socialisti), le «Brigate Giustizia e Libertà» (legate al Partito d’Azione) e le «Brigate del Popolo» (legate alla Democrazia Cristiana). Nessuna di queste fu però politicamente omogenea fino all’ultimo uomo perché spesso erano costituite quasi spontaneamente da persone affluite in montagna dalle più diverse posizioni.

Accanto a questi uomini in armi, vi erano poi migliaia di Italiani che, dopo l’8 settembre, furono obbligati o scelsero di schierarsi con i Tedeschi che, nella parte della Penisola da loro occupata, sfruttavano le risorse materiali e la manovalanza italiana (disprezzavano gli Italiani come combattenti, ma ne riconoscevano le doti come artigiani ed operai), imponendo una strategia di collaborazione che combinava la creazione oggettiva di posti di lavoro con autentici sequestri di persona, armi in pugno. Si calcola che i lavoratori italiani volontari e/o forzati abbiano toccato – dopo il settembre 1943 – le 140.000 unità, da aggiungere ai 100.000 già presenti sul suolo tedesco; oltre a questi, vanno considerati anche i militari italiani internati in Germania, circa 625.000, usati come forza-lavoro. Dei 3.700.000 uomini sotto le armi, dopo l’8 settembre 1943 ne vennero disarmati 1.000.700; 625.000 lavoravano per il Reich; tutti gli altri furono internati nei Lager e, di questi, circa 180.000 lasciarono i Lager, disposti a collaborare.

Da quanto detto finora si nota come la Resistenza sia stato un movimento complesso, che non può essere interpretato in chiave ideologica e in modo univoco: si deve piuttosto parlare di «più Resistenze» nelle quali la costituzione delle bande ed il loro sviluppo ebbero caratteristiche diverse in relazione al territorio in cui si realizzarono e in rapporto alle comunità in cui si svolgeva la lotta. Nella Resistenza correttamente intesa si incontrano inoltre una molteplicità di figure religiose ed esponenti del mondo cattolico che la successiva lettura ideologica dei fatti ha prima messo in ombra e poi accantonato. Per esempio, nella «rossa» Emilia Romagna il numero delle formazioni legate alla Democrazia Cristiana o autonome, superava quello delle Brigate Garibaldi: su 22 Brigate operanti nel Parmense, 11 erano democristiane e formate in prevalenza da Cattolici (ed erano legate a nomi che poi avranno un certo peso nella storia della Repubblica: come a Ravenna dove Benigno Zaccagnini, con il nome di battaglia «Tommaso Moro», partecipava alla lotta partigiana unitamente a molti suoi «aspiranti» dei circoli giovanili della città; oppure a Genova dove operavano Paolo Emilio Taviani, Giovanni Baget Bozzo, Enzo Martino). I Cattolici erano numerosi anche all’interno delle Brigate Garibaldi: in questo senso, è emblematica la storia della Brigata Garibaldi di Foligno costituita quasi interamente da Cattolici, membri dell’Azione Cattolica, ex alunni dell’Istituto San Carlo; il suo comandante, il maggiore Antero Cantarelli, presidente diocesano della Giac, era salito in montagna perché sollecitato dal Vescovo Corbini; il Collegio San Carlo serviva da luogo per le riunioni del Comitato di Liberazione Nazionale e da punto d’appoggio per l’assistenza ai partigiani; ottenuta la liberazione dell’Umbria, i «sancarlisti» si arruolarono nel gruppo «Cremona» e combatterono in Romagna fino al 25 aprile 1945.

Anche la vicenda del comandante partigiano di Reggio Emilia, Mario Simonazzi, segue lo stesso percorso. Era presidente dell’Azione Cattolica e, nei suoi sogni giovanili, avrebbe voluto fare il missionario; invece divenne partigiano, scegliendo il nome di battaglia «Azor» dalle pagine del «Vittorioso», un giornale a fumetti legato all’Azione Cattolica. Per i comunisti, lui era un comandante scomodo: era contrario alla politicizzazione della lotta e, per questo, rifiutava il commissario politico (una tipica funzione comunista) all’interno delle sue formazioni; si opponeva alle esecuzioni sommarie; proponeva un modello di Resistenza senza gli abusi dell’ideologia e lontano dalle degenerazioni dell’antifascismo; resisté strenuamente agli sconfinamenti nella sua zona dei partigiani di «montagna» (le formazioni comuniste) per contrastare il progetto comunista dell’occupazione di tutti gli spazi. Venne eliminato dai comunisti alla vigilia della liberazione, il 23 marzo 1945. (Le cifre relative ai sacerdoti uccisi per motivi ideologici dalle formazioni comuniste tra il 1944 ed il 1947 è impressionante: nel Nord Italia, vennero uccisi 130 sacerdoti!).

Parlare della Resistenza come di una «guerra civile» vera e propria, fatta dal popolo contro il nemico occupante e contro quelli che lo sostenevano, non è possibile perché nell’Italia occupata dai Tedeschi non c’erano le condizioni economico-sociali per una «Resistenza» di questo genere. A scegliere se stare da una parte o dall’altra fu un’esigua minoranza della popolazione, diffusa sul territorio a macchia di leopardo: la Resistenza armata contro i Tedeschi rimase un fatto minoritario ed isolato.

La complessità di indirizzi e di obiettivi interni alla Resistenza aiuta a comprendere sia la consistenza numerica degli uomini in armi che la fluttuazione della loro partecipazione: i partigiani ai quali fu riconosciuta ufficialmente questa qualifica furono 336.516, ma si tratta di una cifra globale troppo inflazionata, relativa all’intero periodo della lotta armata, mentre il numero dei partigiani non fu costante. Nell’inverno del 1943-1944 si calcola che gli uomini in armi nella Resistenza fossero circa 9.000, nell’estate successiva quasi 100.000; ma, nell’inverno 1944-1945, fra i 30.000 e i 50.000 abbandonarono. Dal marzo del 1945 si ebbe una rapida crescita fino a toccare, nella primavera del 1945, le 200.000 unità. La scarsezza dell’armamento non permetteva talvolta di accogliere tutti quelli che salivano in montagna, e che oltretutto sarebbero stati d’impaccio in caso di rastrellamenti, ma si preferiva in genere non respingere coloro che, a proprio rischio, avevano rotto i ponti con le autorità naziste e fasciste. Questo andamento ciclico delle adesioni alla Resistenza dipendeva da molti fattori: il corso mutevole degli eventi bellici, la stagione (in inverno gli alberi spogli dei boschi montani non offrivano riparo contro i velivoli da ricognizione nemici, gli Americani bloccavano le loro avanzate ed i Tedeschi approfittavano della stasi del fronte per scatenare violente offensive antipartigiane), l’arruolamento nelle forze della Repubblica di Salò – il tasso di renitenza alla leva nelle classi chiamate fu intorno al 41% e quello della diserzione intorno al 12%, ma nell’aprile del 1944 oltre 40.000 giovani renitenti approfittarono dell’amnistia fascista per rientrare nei ranghi dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana.

La lotta partigiana andava dalle requisizioni di armi, munizioni e viveri nei centri abitati, agli attacchi contro le colonne in marcia (soprattutto contro i reparti che si spostavano sui mezzi corazzati), alle azioni di sabotaggio contro stazioni e caselli ferroviari; a questa mappa va aggiunta l’attività cittadina dei GAP (Gruppi Armati Partigiani, di ispirazione comunista) che uccidevano soldati tedeschi e dirigenti fascisti sia per far nascere in essi insicurezza e timore, sia per provocare rappresaglie contro la popolazione civile che avrebbero esacerbato gli animi provocando lo «scollamento» tra il popolo e le autorità della Repubblica Sociale Italiana.

Per quanto riguarda le perdite, i partigiani caduti o giustiziati furono circa 30.000; ad una cifra più o meno pari si fanno ascendere i caduti, giustiziati, dispersi italiani che combatterono nella Resistenza di altri Paesi; le vittime civili delle rappresaglie nazifasciste sono calcolate intorno alle 10.000 unità, i deportati per ragioni politiche e razziali attorno ai 40.000. I militari italiani deportati in Germania furono 625.000, e di questi 33.000 morirono di fame e di stenti nei Lager.

Uno degli equivoci più grandi della storia recente riguarda il fatto che a liberare l’Italia dai nazisti e dai fascisti siano stati i partigiani. Nulla di più falso: la guerriglia partigiana fu un fatto assolutamente marginale e militarmente quasi irrilevante nel contesto bellico. Basti pensare che i caduti tedeschi nella battaglia di Montefiorino, il più grande e sanguinoso scontro tra la Resistenza e le truppe della Wermacht, furono solo un centinaio. Le perdite inflitte dai partigiani ai Tedeschi durante tutto il corso della guerra, in attentati o in battaglia, ammontano a meno di 1.000 uomini, ovvero ad una percentuale che oscilla tra lo 0,5% e l’1% di tutti i Tedeschi uccisi in Italia durante l’intera guerra (dagli Alleati, dall’esercito del Regno del Sud...). Le perdite fasciste furono molto più alte (dai 70.000 ai 90.000 uomini, comprese le vittime civili dei partigiani titini sul confine orientale d’Italia), però esse avvennero per la maggior parte dopo la guerra, quando iniziò la mattanza dei prigionieri che si erano arresi dietro assicurazione di aver salva la vita ed il Partito Comunista Italiano sguinzagliò in città e paesi i suoi uomini per arrestare e condannare chiunque fosse colpevole di «delitto fascista»: caddero così non solo fascisti, ma anche persone che col fascismo non avevano né avevano mai avuto a che fare, vittime di odi, maldicenze e pettegolezzi di paese (bastava una denuncia verbale, anche senza prove, per spezzare una vita).

La «liberazione», in realtà, fu dovuta agli Alleati che con i loro eserciti risalivano la Penisola: una liberazione non solo dagli occupanti tedeschi ma, principalmente, da una guerra che il popolo aveva entusiasticamente accolto solo fintantoché aveva creduto che dovesse durare poche settimane o al più qualche mese, concludendosi con folgoranti vittorie, e che ora non sentiva più come «sua». Gran parte della popolazione era ostile nei confronti dei Tedeschi invasori e diffidente nei confronti dei militi della Repubblica Sociale Italiana ma, al tempo stesso, era spesso ostile anche nei confronti di certi gruppi di partigiani che, come i Tedeschi ed i militi repubblichini, agivano come feroci aguzzini. Anche in un romanzo come Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (l’opera più «agiografica» sulla Resistenza), per esempio, si narra di contadini che consegnavano alle bande partigiane tutto quello ch’esse chiedevano perché, se non l’avessero fatto, queste se lo sarebbero comunque preso da sole. Su ciò, però, troppo spesso si è preferito tacere, riducendo la Resistenza ad uno schema di comodo, dove pochi combattevano e tanti stavano alla finestra o facevano i delatori. In realtà la stragrande maggioranza degli Italiani, pur aspettando gli Alleati e non di rado sostenendo i partigiani, non si poneva grandi problemi ideologici: voleva solo la fine della guerra e l’avvio di un’era di pace e di progresso; la «neutralità» ideologica era quasi una scelta obbligata per chi doveva già lottare semplicemente per sopravvivere, per mangiare, per andare avanti nella vita quotidiana. Del resto, c’era anche chi accettava il pericolo, il carcere, la tortura, la fucilazione, ma senza uccidere: nascondendo prigionieri e ricercati, dando le proprie case come deposito per armi e documenti. Come ad esempio Giorgio Perlasca, volontario delle guerre d’Abissinia e di Spagna, che nell’Ungheria agonizzante sotto il tallone nazista riuscì – fingendosi console di Spagna – a salvare oltre 5.000 Ebrei nascondendoli nell’ambasciata spagnola e falsificando i loro documenti, ed impedendo l’incendio e la distruzione del ghetto di Budapest in cui ve n’erano altri 60.000; quando, molti anni dopo, gli chiesero se l’aveva fatto perché era un Cattolico, rispose di no, che l’aveva fatto semplicemente perché era un uomo. C’erano poi quelli che accettarono di perdere la propria vita per salvare altri, come il giovane vicebrigadiere dei Carabinieri Salvo d’Acquisto, che si auto accuserà autore di un attentato – da lui mai commesso – contro i soldati tedeschi per salvare dalla fucilazione 22 innocenti (quella stessa sera uno dei militi del plotone d’esecuzione dirà a Wanda Baglioni, una ragazza del posto: «Il vostro brigadiere è morto da eroe. Impassibile anche di fronte alla morte. Si è assunta intera la responsabilità del fatto per salvare la vita ai civili i quali non facevano altro che piangere ed imprecare»). Da questa massa di persone e dal suo bisogno di libertà e di sviluppo sarebbe emersa un’Italia con un’identità lontana dalla dicotomia «fascismo/antifascismo», ma ricca di valori.

La Resistenza del popolo, inoltre, ha potuto sussistere perché ha avuto un grande alleato: la Chiesa, con le sue strutture ed i suoi preti; ovunque la Chiesa aveva steso una «rete» che proteggeva chi era perseguitato senza chiedere nessuna tessera, distribuiva viveri, procurava documenti per chi era in pericolo, facilitava l’espatrio clandestino, forniva denaro a chi doveva vivere nella clandestinità, dava ospitalità ed un rifugio sicuro a chi era perseguitato (il 95% degli Ebrei di Roma e dintorni, per esempio, si salvò trovando alloggio – per volontà di Pio XII – nelle strutture ecclesiastiche della capitale). Soprattutto gli oratori, dove i giovani vivevano il loro tempo libero ed il loro impegno spirituale e sociale, erano «Centri della Resistenza», utilizzati come deposito di viveri, di armi, sedi di riunione del Comitato di Liberazione Nazionale. Sono storie note e che, nell’insieme, danno la percezione di un movimento partigiano cattolico veramente imponente.

Del resto, essere accanto al popolo e proteggere soprattutto i più deboli ed i perseguitati, è una costante nella vita della Chiesa che diviene particolarmente evidente nei periodi più difficili. Basti un esempio: quando nel 1915 venne dichiarata guerra all’Austria, la popolazione trentina di lingua italiana dovette abbandonare tutto entro 24 ore. Circa 75.000 Italiani del Trentino ed alcune decine di migliaia del Friuli, dell’Istria e della Dalmazia, furono internati nei paesi di campagna della Boemia e vi rimasero fino al 1919; 1.754 persone (medici, avvocati, sacerdoti, intellettuali), ritenuti la classe dirigente e sospettati di essere irredentisti, furono internati nel Lager di Katzenau nei pressi di Linz (353 vi morirono). Abbandonati a se stessi, senza conoscere la lingua, guardati con sospetto dai locali, misconosciuti dal Governo Italiano perché sudditi della Monarchia Asburgica, rinnegati dall’Austria perché ritenuti simpatizzanti con il nemico, trovarono sostegno e conforto dai loro parroci che li seguirono: Monsignor Endrici, Vescovo di Trento (a sua volta internato nell’abbazia cistercense di Heiligenkreuz nei pressi di Mayerling perché sospettato di essere filo italiano) aveva chiesto ai suoi preti di non separarsi dalla propria gente e, così, più di 130 parroci condivisero il destino dei 75.000 sfollati trentini.

La vicenda della Brigata Osoppo (i cui membri – quasi tutti Cattolici – furono massacrati a tradimento dai partigiani comunisti per aver rifiutato di mettersi agli ordini di Tito), della Brigata Garibaldi di Foligno, del comandante Azor di Reggio Emilia di cui abbiamo parlato più sopra, di Trieste occupata dai Titini (17.000 persone catturate in soli 42 giorni, delle quali 3.000 furono infoibate), di tutti gli altri luoghi dove operavano le Brigate Garibaldi, mostra come, a partire dal giugno del 1944, il Partito Comunista Italiano abbia accentuato la politicizzazione dei partigiani, non esitando a ricorrere anche alla violenza e all’assassinio. Questa disposizione alla rivoluzione per la conquista del potere e contemporaneamente la finta collaborazione con gli altri partiti antifascisti per giungere al potere attraverso il sistema democratico, viene definita come «doppia strategia» di Togliatti e dei suoi. Tale posizione aveva la sua radice nel pensiero di Gramsci che, su «L’Avanti» dell’11 febbraio 1920, aveva scritto: «I popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Essi creano l’associazionismo, creano la solidarietà dove il socialismo non potrebbe farlo. Il Cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida» (questa attenzione per il partito di Don Sturzo, appena costituito, ricorda da vicino la storia del «gatto selvatico» di Togliatti a proposito della Democrazia Cristiana. Il rifiuto radicale della religione cristiana è sempre stato al centro della visione di Gramsci: ai Cattolici – lui sosteneva – non resta che prendere atto che il socialismo è la nuova religione destinata ad assorbire il Cristianesimo, suicidandolo, oppure accettare di diventare una forza residuale, insignificante, inutile. Gramsci non era l’uomo del dialogo e della mano tesa che per troppo tempo si è voluto far credere: in nessun momento immaginò che tra i Cattolici ed i comunisti ci potesse essere un cammino comune). Riferita a Togliatti, la «doppia strategia» divenne «doppiezza»: la tensione tra l’attesa rivoluzionaria di una larga base comunista che viveva la militanza nel partito aspettando l’ora «X» della presa violenta del potere e la strategia di legalità parlamentare imposta dalla direzione nella prospettiva della «democrazia progressiva» da raggiungersi attraverso la rivoluzione della massa, sul modello sovietico. Nei comunisti era tenuta viva la convinzione che il sistema capitalista fosse giunto alla sua fine e che tutte le masse popolari si sarebbero lasciate convincere alla prospettiva socialista. Per i comunisti la Resistenza doveva portare al controllo su tutto e su tutti, e questo rendeva ragione del ricorso ad ogni mezzo ritenuto utile alla conquista del potere, compresi i delitti più efferati e spiega anche perché vi è sempre stata da parte dei comunisti la negazione del ruolo della Chiesa e dei Cattolici. Il progetto del Partito Comunista Italiano di utilizzare il movimento della Resistenza per giungere al potere, si vede chiaramente nelle vicende dell’attentato di Via Rasella a Roma del 23 marzo 1944, dove furono uccisi 33 anziani militi altoatesini (tutti italiani!), disarmati ed arruolati a forza nella Wehrmacht; tra i morti vi furono anche alcuni civili ed un ragazzo, Piero Zuccheretti, che si trovava lì perché gli piaceva sentire i soldati che cantavano; i responsabili dell’attentato, come testimoniano le intercettazioni telefoniche, non si consegnarono ai Tedeschi perché speravano che la rappresaglia dopo l’attentato scatenasse una rivolta popolare, di cui loro avrebbero preso la direzione occupando la città prima dell’arrivo degli Alleati (che erano ormai alle porte di Roma)... il popolo non si sollevò e 335 innocenti furono uccisi alle vecchie cave di pozzolana sulla Via Ardeatina.

Una volta finita la guerra gli Italiani divennero da tutti – o quasi tutti – fascisti, quali erano realmente stati, in tutti antifascisti, ciò che fece dire a Mino Maccari: «I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». Era un modo per scrollarsi di dosso il peso delle proprie responsabilità, addossando la colpa della guerra (e del disastro che ne seguì) a Mussolini ed a pochi altri. Si trattava oltretutto di un antifascismo senza radici, che non era il contrario del fascismo ma, semplicemente, un fascismo di segno contrario, un antifascismo di maniera e di parata che divenne sempre più intollerante e truculento man mano che ci si allontanava dai fatti e non c’era praticamente nessuno che non potesse inventarsi patenti «resistenziali»: quasi tutti affermavano di essere stati, come minimo, «staffette partigiane»... è incredibile il numero di messaggi che si sarebbero scambiati quei pochi che veramente combatterono in montagna. Quell’antifascismo fazioso e intollerante raggiunse il suo acme col Sessantotto e dintorni («Uccidere un fascista non è un reato», «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero» e via delirando), e viene riesumato ancora di tanto in tanto dai partiti di Sinistra sia per incanalare in una precisa direzione i malumori popolari, sia in chiave di lotta politico-ideologica contro i loro avversari in Parlamento (ogni tanto si agita lo spauracchio del rischio di una «deriva fascista», sebbene nell’Italia di oggi non ci sia nessuna delle condizioni – di carattere politico, sociale, economico, ideologico, culturale – che determinarono la nascita e l’ascesa del fascismo).

Non solo. Terminata la Resistenza ed avviata la fase della ricostruzione economica e politica dell’Italia, il Partito Comunista Italiano ha messo il proprio cappello sulla Resistenza appropriandosene. Quest’operazione è stata poi completata da un contorno culturale (l’antifascismo mitizzato e perpetuato all’infinito, come appena ricordato) che ha reso questa «presa di possesso» come definitiva. Ciò spiega perché sul finire del 1949 il direttore de «L’Unità», Davide Lajolo, abbia accusato il Ministro dell’Interno, Scelba, le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria, di aver organizzato un «processo alla Resistenza»: l’azione di Scelba, scriveva «L’Unità», tendeva a demolire l’immagine del Partito Comunista Italiano come protagonista della lotta di Liberazione, quindi come costruttore di democrazia e difensore della Repubblica... in sostanza, del Partito Comunista Italiano come interprete del «Bene».

Era accaduto che Scelba, dopo la definitiva scelta di campo dell’elettorato italiano nelle elezioni del 18 aprile 1948 ed il successivo voto a favore dell’entrata nell’Alleanza Atlantica, aveva promesso la riapertura di tante indagini di polizia, con l’intento di individuare gli autori di molti efferati delitti rimasti impuniti. Molti degli arrestati erano risultati o si erano dichiarati militanti del Partito Comunista Italiano: trascorsa ormai la fase dell’impunità totale (1945-1947), il riferimento alla militanza di partito era dovuta sembrar loro una possibile «ancora di salvezza».

Il Partito Comunista Italiano non rimase fermo: Lajolo lanciava la sua campagna di denuncia («Dalle prigioni di Mussolini alle prigioni di De Gasperi») sulle «persecuzioni contro la Resistenza»: nelle carceri della provincia di Modena, scriveva «L’Unità», erano rinchiusi 506 partigiani che, al momento dell’arresto, erano stati torturati, bastonati e schiaffeggiati. A propria volta, la Questura di Modena denunciò Lajolo che fu costretto a precisare che l’elenco dei 506 incarcerati riguardava persone arrestate dal 1945 al 1949, la gran parte delle quali già scarcerate o in attesa di processo.

Lajolo, Ingrao e gli altri dirigenti comunisti avevano organizzato una simile campagna di stampa, proprio allora (e pur sapendo che molti «compagni» erano personaggi indifendibili) per appropriarsi della Resistenza, ma probabilmente anche perché era in atto un’indagine sull’apparato paramilitare del Partito Comunista Italiano, basata su un ampio e dettagliato studio nel quale il Servizio Segreto documentava la presenza di strutture paramilitari del partito (l’ormai famosa Gladio Rossa) funzionali non solo a strategie insurrezionali ma anche a situazioni di conflitto europeo fra i blocchi. Queste formazioni paramilitari segrete erano diffuse soprattutto nel Centro-Nord della Penisola e rispondevano agli ordini dei segretari di Federazione.

Giulio Seniga, esponente del Partito Comunista Italiano e segretario di Pietro Secchia, aveva affermato davanti al magistrato inquirente che le formazioni paramilitari avevano compiti di supporto all’Unione Sovietica, sia in caso di guerra internazionale, sia in caso di guerra civile interna (il loro compito era appoggiare ed affiancare le truppe dell’Unione Sovietica che – speravano i membri del Partito Comunista Italiano – avrebbero invaso l’Europa Occidentale per «strapparla» alla protezione americana). La storiografia di partito voleva avallare l’ipotesi che queste fossero «schegge impazzite», regolarmente sconfessate dal Partito Comunista Italiano, mentre invece stava emergendo il dato fino ad allora negato od occultato: il Partito Comunista Italiano fu coinvolto in quella tragica stagione di delitti e la sua struttura paramilitare agì come «zona franca», zona di copertura, zona d’ombra per le gesta efferate di numerosi militanti comunisti. Quegli eccidi non furono, per gran parte, frutto del caso, ma preordinati, «scientificamente» preparati ed eseguiti per realizzare un chiaro progetto politico. Su questo, le Commissioni Parlamentari delle ultime legislature hanno prodotto fiumi di documenti, mai pubblicati, dando adito al sospetto che nel nostro Paese vi siano molti scheletri da rimuovere nell’armadio della Repubblica.

Negli anni della difficoltà del sistema occidentale provocata dalla crisi del petrolio del 1973, dallo scandalo Watergate dell’anno successivo e dalla guerra in Vietnam sino al ritiro delle truppe americane nel 1975, le tensioni fra Est ed Ovest crebbero notevolmente: in quegli anni, i dirigenti comunisti sovietici avevano preparato piani d’invasione dell’Europa Settentrionale e Centrale fino all’Atlantico. Per attuare questo progetto, avevano bisogno di un lavoro di preparazione e di sostegno da parte dei Paesi comunisti «fratelli». E qui diventava centrale il ruolo del Partito Comunista Italiano e dei suoi uomini.

Caduto il comunismo sovietico e quello dei Paesi dell’Est, a sconfessione di ciò che ha sempre sostenuto il Partito Comunista Italiano, molte carte di piani d’invasione sono state pubblicate e sono a disposizione degli studiosi.

(aprile 2017)

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