Risorgimento lungo – Resistenza breve
Analogie e differenze tra il Risorgimento e la Resistenza nella storiografia e nelle celebrazioni

La tesi secondo cui il Risorgimento ebbe vita notevolmente più lunga rispetto a quella che gli è stata assegnata dalle vulgate prevalenti è diventata sempre più condivisa in sede storiografica, facendolo decorrere dai tempi dell’Illuminismo, per concludersi con il Primo Conflitto Mondiale, interpretato alla stregua di una vera e propria «Quarta Guerra d’Indipendenza». È questo il pensiero dello storico francese Gilles Pécout, che ha proposto la fondata ipotesi di un Risorgimento «lungo» fino al punto di collocarlo nell’ambito di tre diversi secoli; per non dire di Benedetto Croce, quando si chiese se, avuto riguardo al fatto che l’Italia era risorta ad una dignità statuale perduta dai lontanissimi tempi dell’antica Roma, non sia più legittimo parlare di un vero e proprio «Sorgimento». Per qualcuno, non è parso azzardato spingersi ancora più avanti: ad esempio, attribuendo ai sei caduti di Trieste del novembre 1953 la definizione, per taluni aspetti accettabile, di «ultimi martiri del Risorgimento».

Prescindendo dalle dispute semantiche, non c’è dubbio che l’acquisizione di un’idea consapevole della nazionalità italiana, ben oltre i limiti culturali di Dante e del Petrarca, pur consapevoli della comune convergenza su valori dello spirito, preceda di parecchio i primi moti rivoluzionari di cui tanti patrioti si resero protagonisti sin dall’epoca della Restaurazione (si pensi al dramma di Ciro Menotti). Per dirne una, sono del Settecento le importanti intuizioni di Gian Rinaldo Carli, anche a proposito della vocazione italica di Istria e Dalmazia, che avrebbero dovuto attendere la Grande Guerra prima di veder coronato, sia pure parzialmente, il proprio sogno di redenzione politica.

Quanto al cosiddetto «autunno» del Risorgimento, di cui alla suggestiva opera di Giovanni Spadolini, è altrettanto vero che il 1870, con la caduta del potere temporale e l’acquisizione di Roma e del Lazio da parte del giovane Regno d’Italia, non esaurisce il processo di affermazione della nazionalità che, sia pure fra contraddizioni e resipiscenze, avrebbe caratterizzato quasi tutto il cinquantennio successivo: da un lato, con le difficili attese dell’irredentismo democratico di Matteo Renato Imbriani e di Giuseppe Avezzana, e dall’altro, con quelle di un nuovo verbo coloniale che, accanto a talune interpretazioni vagamente imperialiste come nel pensiero e nell’azione di Francesco Crispi, avrebbe avuto connotati di vivo segno umanitario, come in Pasquale Stanislao Mancini, se non anche antesignani di una cooperazione agricola ed economica condotta su basi scientifiche, come nell’opera di Leopoldo Franchetti. Ciò, senza dire che, all’atto dell’impresa di Libia voluta dal Governo Giolitti, vi furono coloro, come Giovanni Pascoli, che applaudirono la «Grande Proletaria» finalmente sottratta ad un sonno troppo lungo.

La «lunghezza» del Risorgimento contribuisce a spiegare le ragioni, anche psicologiche, per cui questa peculiare esperienza storica ha sedimentato nella storiografia e nello stesso inconscio collettivo lasciando una traccia imperitura, anche quando è stata costretta a scorrere nei profondi meandri della memoria, come una sorta di fiume carsico. Del resto, se è vero che il Risorgimento, al pari di tanti movimenti innovatori, ebbe carattere elitario, è non meno vero che le istanze di indipendenza ed unità vennero condivise da quasi tutte le forze in campo, sia moderate che progressiste, e persino dalla componente cattolica più moderna, come attestano, fra gli altri, i nomi di Vincenzo Gioberti e di Antonio Rosmini, il cui ruolo, a ben vedere, non fu inferiore a quello dei tradizionali «Padri della Patria» quali Vittorio Emanuele di Savoia, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Mazzini ed il popolarissimo Garibaldi, mitico «Eroe dei due Mondi». Ne consegue che il Risorgimento ha conservato una reminiscenza molto diffusa, non priva di un alone romantico, che ne ha esaltato gli aspetti politicamente risolutivi (a cominciare dalle guerre d’indipendenza o dalla spedizione dei Mille), oltre che idonei a promuoverne un giudizio spesso e volentieri idealistico, in cui venivano ridimensionati gli aspetti storici meno commendevoli, come la «campagna» contro il cosiddetto brigantaggio, le cannonate di Bava Beccaris ed il disastro epocale di Adua.

In effetti, Gilles Pécout si colloca nel vero e nel giusto quando afferma che il Risorgimento si compie nella sua piena maturità con la Prima Guerra Mondiale, affratellando nelle trincee del Carso, e poi del Monte Grappa e del Piave, i combattenti di un’intera nazione finalmente consapevole della sua essenza; e quando il governo di unità nazionale presieduto da Pietro Boselli riesce ad aggregare attorno alla bandiera italiana quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ivi compresi Cattolici, repubblicani e socialisti democratici. Il viaggio trionfale del Milite Ignoto da Aquileia a Roma, per la gloriosa inumazione nell’Altare della Patria (4 novembre 1921: terzo anniversario della Vittoria), fu il sigillo di una piena consacrazione dell’idea nazionale e del combattentismo, ai valori del migliore Risorgimento.

Diverso è il caso della Resistenza, che è stata oggettivamente «breve» anche perché il Ventennio fascista (1922-1943) era stato caratterizzato da un consenso crescente, divenuto plebiscitario nel corso degli anni Trenta, quando le opposizioni si erano ridotte ad espressioni marginali, soprattutto nel fuoriuscitismo, salvo trovare un momento di ritrovata ma effimera coesione nell’infausta esperienza della guerra civile di Spagna, e poi nella promulgazione delle leggi razziali. La Resistenza, in effetti, diventa fenomeno concretamente tangibile soltanto con il Secondo Conflitto Mondiale, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre, l’avvento della Repubblica Sociale Italiana e la prosecuzione delle operazioni militari in un campo di battaglia che vide la dura contrapposizione tra le forze armate degli Alleati e della Wehrmacht, e quella ancor più profonda tra le formazioni repubblicane e partigiane, destinata a concludersi soltanto nella primavera del 1945, con una lunga scia di sangue protrattasi lungamente anche a guerra finita, come è stato riconosciuto dalla storiografia più obiettiva.

In questo senso, è facile cogliere una discrasia fondamentale tra gli esiti del Risorgimento e quelli della Resistenza. Dopo la conclusione del processo unitario, le persecuzioni a danno di chi si era impegnato a favore del vecchio regime furono sostanzialmente marginali (con la sola apprezzabile eccezione del Mezzogiorno), mentre nel 1945 quanti si erano battuti per la cosiddetta «parte sbagliata» – talvolta per una scelta meramente ideale pur nella consapevolezza che la guerra fosse ormai perduta per l’Asse – furono oggetto di una resa dei conti che in parecchi casi assunse caratteri tanto indiscriminati quanto sommari, come attestano le stragi del cosiddetto «triangolo rosso», il genocidio delle foibe, i tanti eccidi compiuti in Piemonte e nel Lombardo-Veneto, ormai senza alcuna parvenza di giustificazione militare e senza alcun apprezzabile correttivo da parte della giustizia ordinaria. Quindi, non deve sorprendere che la Resistenza, pur nell’ambito di un consenso contestuale ad un attendismo sostanzialmente maggioritario, abbia finito per compiere una parabola «breve».

Diversamente da quanto è accaduto per quelle risorgimentali, alle maggiori figure della Resistenza non corrisponde un’immagine altrettanto diffusa: tra le più note ed apprezzate, caso mai, è d’uso citare Salvo d’Acquisto, l’eroico carabiniere che fece dono della vita per salvare gli ostaggi destinati ad essere fucilati a fronte della rappresaglia tedesca, accusandosi di un attentato altrui, e che per tale straordinario comportamento è stato oggetto di beatificazione. Non è azzardato aggiungere che, rispetto a quelle dei «Padri» risorgimentali prima citati, le figure di spicco del CVL, quali il Presidente Raffaele Cadorna ed i Vice Presidenti Ferruccio Parri e Luigi Longo, sono meno popolari, nonostante i tempi più recenti; e di minore impatto nella storiografia.

Intendiamoci: le celebrazioni della Resistenza continuano a tenersi regolarmente in occasione degli anniversari più significativi, a cominciare da quello del 25 aprile, ma come è stato rilevato dallo stesso movimento partigiano, ciò accade nell’ambito di una ritualità che ha finito per diventare ripetitiva, senza una partecipazione spontanea e tendenzialmente totalitaria, paragonabile a quella di cui si diceva per il trasporto del Milite Ignoto. Del resto, la Resistenza non si era limitata ad essere «breve» ma fu geograficamente circoscritta, avendo coinvolto il Mezzogiorno e le Isole in misura necessariamente riduttiva (con l’eccezione delle Quattro Giornate di Napoli); senza dire che taluni episodi come quello romano di Via Rasella, culminato nell’attacco partigiano ad una colonna di anziani territoriali altoatesini, erano apparsi militarmente insignificanti ma idonei a provocare, come in effetti accadde, la terribile rappresaglia dell’occupatore.

Oggi, pur dovendosi dare atto del valore che venne dimostrato da parecchi guerriglieri, in specie sui fronti appenninici ed alpini (ma non certo dai gappisti che si macchiarono di delitti come l’uccisione di Giovanni Gentile), la storiografia è sostanzialmente concorde nel ritenere che, senza l’apporto determinante degli eserciti alleati, ed in primo luogo della loro aviazione, che peraltro si sarebbe protratto per un anno e mezzo di guerra, sarebbe stato oltremodo arduo pervenire al successo. In qualche misura, ne è scaturito un giudizio popolare, approssimativo quanto si vuole, ma sostanzialmente non infondato, circa il ruolo complementare della Resistenza, accanto a quello fondamentale delle forze armate anglo-americane.

Sebbene il Risorgimento, diversamente dall’esperienza resistenziale, sia stato «lungo» ed abbia improntato un secolo e mezzo di storia nazionale, ha finito per essere a sua volta coinvolto nella medesima opera di relativizzazione, se non anche di revisione: cosa che non fa gridare allo scandalo perché la storia non può e non deve essere aliena da costanti approfondimenti delle matrici ideali che hanno dato luogo a fenomeni di ampia portata innovatrice, ed in taluni casi, anche rivoluzionaria, ma che rende necessario, all’inizio del nuovo millennio, una rivisitazione per quanto possibile oggettiva dell’accaduto, senza commistioni analogiche non sempre condivisibili.

È giusto onorare i valori della nazione e dello stato, ma è doveroso farlo in un quadro scientifico, ed in quanto tale – secondo l’insegnamento di Tacito – lungi da ogni partigianeria e da ogni anacronismo oleografico.

(settembre 2016)

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