La Seconda Guerra Mondiale
Il più terribile conflitto che la Storia ricordi, riplasmò in modo profondo l’intero planisfero geopolitico mondiale, provocando il crollo dell’Europa e l’emergere degli Stati Uniti come prima potenza mondiale

Combattuta dal 1939 al 1945, la Seconda Guerra Mondiale non fu solo il più devastante conflitto di tutti i tempi, con 60 milioni di vittime (militari e civili), devastazioni, distruzioni e genocidi in ogni parte del mondo (si combatté in tutti i continenti, e persino nelle regioni polari); fu anche il suicidio dell’Europa, la fine del suo primato nel mondo e l’inizio dell’emergere degli Stati Uniti come prima potenza. Oggi, decine di anni dopo, l’Europa – pur considerata nel suo insieme – non costituisce che una potenza a livello esclusivamente locale, e impossibilitata per le rivalità interne tra i vari Stati che la compongono ad un ruolo più incisivo.

La Seconda Guerra Mondiale viene spesso troppo frettolosamente addebitata ad un deliberato atto di follia di Adolf Hitler, Cancelliere del Terzo Impero Tedesco. In realtà le cause reali sono più profonde e, se la decisione scatenante del conflitto fu effettivamente sua, esse vanno fatte risalire a quegli eventi maturati al termine della Prima Guerra Mondiale (ma si potrebbe risalire ancora più indietro, almeno alle tensioni sorte nell’Ottocento per il primato economico e commerciale tra Germania e Gran Bretagna). È evidente che i trattati di pace del 1918 avevano creato, specialmente in Germania (Nazione duramente punita), un malcontento crescente di anno in anno. Messo in ginocchio dalle potenze avversarie, il Paese era riuscito in pochi anni a rinnovare la propria ricchezza grazie alle grandi industrie che lavoravano a pieno ritmo; una volta saldamente al potere, il dittatore Adolf Hitler mirò a riunire sotto di sé tutti i popoli di lingua e stirpe tedesca. Anche l’Italia era governata da un dittatore, Benito Mussolini: trattata alla stregua di una Nazione perdente, umiliata da un trattato di pace iniquo, abbandonata dalle principali potenze europee (Francia e Gran Bretagna), essa si era avvicinata sempre più alla Germania, fino a vincolarsi ad essa con un trattato di alleanza senza limiti, il Patto d’Acciaio (22 maggio 1939). Più ad Est, gli immensi territori dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) – che propugnava la rivoluzione mondiale per portare al potere il proletariato, in realtà accentrando il potere e le ricchezze ad un pugno di individui e sprofondando la stragrande maggioranza della popolazione nella miseria – incutevano timore in tutto il mondo occidentale. Gli Stati Democratici dell’Europa erano divisi ed incerti sulla politica da seguire: non impedirono ad Hitler di compiere le prime aggressioni, come l’invasione ed annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia. Intanto anche il Giappone, alleato della Germania, era penetrato in Cina. Nel 1939, la volontà di Danzica di volersi riunire alla Germania e l’invasione della Polonia da parte di Hitler (1° settembre) scatenarono una serie di dichiarazioni di guerra che portarono il mondo nel Secondo Conflitto Mondiale.


La Germania e l’Italia all’attacco (1939-1942)

Hitler non aveva intenzione di scatenare un conflitto di proporzioni mondiali, ma mirava ad instaurare un predominio che garantisse la supremazia tedesca in Europa, italiana nel Mediterraneo e giapponese nel Sud-Est Asiatico; aveva anche tentato invano di accordarsi con gli Inglesi per la spartizione del globo. La «Blitzkrieg» («guerra lampo») tedesca, appoggiata pesantemente alle armi moderne, portò l’esercito germanico ad una rapida avanzata, in totale contrasto con lo stallo che si era verificato nel 1915. I temibili bombardieri tedeschi, gli stukas, quando si gettavano in picchiata emettevano un sibilo assordante, che lacerava le orecchie; poi, le truppe corazzate caricavano i soldati ancora atterriti dai bombardieri; i Polacchi mandarono le loro truppe migliori, montate sui cavalli, direttamente in pasto ai carri armati nemici. Liquidata in un mese la Polonia, nel 1940 i Tedeschi s’impadronirono in rapida successione degli stretti danesi, del litorale norvegese e infine dell’Europa Nord-Occidentale (nel giro di sei settimane vennero sconfitti Paesi Bassi, Belgio e Francia). Nel frattempo l’Unione Sovietica, alleata della Germania (Patto Ribbentrop-Molotov) cominciò ad annettersi territori in Europa Orientale (la parte di Polonia non ancora presa dai Tedeschi, le Repubbliche Baltiche, alcune regioni della Finlandia).

Benito Mussolini non aveva intenzione di entrare in guerra: sapeva che l’Italia era del tutto impreparata, l’esercito male equipaggiato, senza aerei moderni, senza fucili o cannoni moderni, con pochissimi carri armati (durante la campagna contro la Grecia, i nostri soldati andarono sui monti ellenici con scarpe dalle suole di cartone, spesso privi di indumenti invernali, e a migliaia vi lasciarono la vita, o tornarono congelati dal fronte). Era deciso a fare da arbitro tra la Francia, la Gran Bretagna e la Germania, come già aveva fatto a Stresa (aprile 1935) ed a Monaco (29 settembre 1938). Sperava, soprattutto, che la Francia bloccasse l’avanzata della Germania esattamente come nella Prima Guerra Mondiale, permettendogli magari di sganciarsi dall’alleanza con Hitler ed aprire un secondo fronte a Sud, per annientare i Tedeschi. I Francesi crollarono in pochi giorni, e Mussolini si rese conto che, dopo di essi, la Germania sarebbe venuta ai ferri corti con l’Italia, di cui aveva già preparato i piani d’invasione; sapendo di non poter sperare in alcun aiuto dalla Gran Bretagna, il 10 giugno 1940 si risolse ad entrare nel conflitto. Ma, fin dall’inizio, l’Italia si rivelò sottomessa alla Germania, che possedeva materie prime, petrolio, ferro, carri armati, un esercito potente, e i cui soldati non mancheranno in più occasioni di mostrare il loro disprezzo nei confronti dei «camerati» italiani. Con l’entrata in guerra, gli Italiani residenti in Inghilterra divennero tutti sospetti per gli Inglesi; già nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1940, gli Inglesi arrestarono tutti gli Italiani residenti nell’isola (riconosciuti da quelli che fino ad un giorno prima erano amici e vicini di casa) e li portarono in campi di internamento: 4.000 persone dai 16 ai 70 anni finirono dietro il filo spinato; oltre 400, imbarcate sulla nave Andora Star per essere trasferite in prigionia in Canada, perirono tra i flutti perché la nave venne silurata da un sommergibile tedesco non appena uscita dal porto di Liverpool.

Liquidata la Francia, Hitler scatenò la battaglia d’Inghilterra (1940-1941), combattuta interamente nei cieli, che mostrò quanto era cambiato il ruolo degli aerei fra le due guerre. Migliaia e migliaia di aerei furono impiegati per bombardare le postazioni dei soldati e per portare la morte anche all’interno delle città, distruggendo fabbriche, case e ferrovie: interi centri abitati furono rasi al suolo, come mai era avvenuto in passato; i civili che si salvarono furono spesso costretti a sfollare in campagna, perché anche i rifugi antiaerei sotterranei non erano sicuri. Le fabbriche, che non producevano più oggetti di consumo per la popolazione ma erano state trasformate tutte in industrie di guerra che rifornivano solo l’esercito, furono l’obiettivo primario dei bombardamenti: la città industriale inglese di Coventry fu talmente martoriata, che da allora fu coniato un nuovo verbo, «coventrizzare», per indicare una città distrutta in modo totale fin dalle sue fondamenta. Il pesante bombardamento della Germania che seguì al termine della battaglia d’Inghilterra fu reso possibile dall’avvento dei caccia di scorta a lungo raggio, come il P-38; alla fine, sistemi di propulsione completamente nuovi consentirono la produzione del primo aereo a reazione e di missili a lungo raggio.

Per la prima volta, le armi più moderne vennero impiegate anche nel deserto: in Africa Settentrionale si combatterono durissime battaglie, con carri armati appoggiati dall’aviazione. Merita particolare menzione il coraggio di molti soldati italiani, che – abbandonati dai Tedeschi di fronte alle più aspre offensive inglesi – saltavano fuori dai loro ripari e davan fuoco ai mezzi corazzati nemici con bottiglie incendiarie. «Ma quando gli Inglesi saltavano fuori dai carri in fiamme» raccontano i reduci, «noi non sparavamo loro addosso; facevamo segno di scappare e quelli erano ben felici di andarsene». Anche nell’orrore del più crudele conflitto di tutti i tempi, c’era ancora lo spazio per gesti di cavalleria!

I Paesi conquistati dai Tedeschi erano sottomessi ad un regime oppressivo implacabile, trattati in maniera ineguale a seconda delle esigenze belliche (come la Francia di Vichy ed i regimi collaborazionisti della Norvegia e della Croazia) oppure discriminati secondo concezioni razziali (Polonia, Europa Orientale). All’interno dei territori occupati vennero aperti nuovi campi di concentramento e le Nazioni sottomesse furono sottoposte ad uno sfruttamento economico intensivo, più brutale all’Est che all’Ovest. Questo «nuovo ordine» suscitò movimenti clandestini di resistenza, gruppi di uomini e donne che trovarono riparo sui monti e da lì ripresero a combattere con attentati, rapidi attacchi ai soldati e talvolta coordinando le loro azioni con quelle degli eserciti degli Alleati (come venivano chiamate le potenze che si opponevano a Tedeschi ed Italiani). La guerra non coinvolse solo i militari e – loro malgrado – i civili, ma anche gli scienziati, a cui venne richiesto il contributo per inventare nuove armi; la messa a punto del radar, per esempio, fu di grande aiuto agli Inglesi contro i Tedeschi: l’idea era di Marconi, che la propose al Governo Italiano, che però non ne comprese la portata... e se la lasciò «soffiare».

Hitler non volle tentare la conquista terrestre dell’Inghilterra, perché contava di averla accanto a sé per l’invasione dell’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa) ch’era il principale obiettivo di tutta la guerra, e che fu la causa primaria della sua sconfitta. Il fronte russo fu quello dove i soldati patirono le sofferenze più atroci, durante i rigidissimi inverni che facevano gelare persino i motori dei carri armati. Nonostante una rapida avanzata che da maggio a novembre del 1942 portò i Tedeschi fino al Caucaso, all’Ansa del Volga, ai sobborghi di Mosca ed a sette chilometri dal Cremlino, i Russi (riforniti dalle industrie di guerra siberiane, inattaccabili dall’aviazione tedesca) riuscirono a resistere e, poi, contrattaccarono; l’armata italiana spedita in Unione Sovietica a sostegno dei Tedeschi compì prodigi di valore e ricevette gli elogi dello stesso nemico, ma alla fine fu costretta ad una drammatica ritirata: tra il dicembre del 1942 ed il gennaio del 1943 giunse la notizia che più di 100.000 soldati italiani erano morti o sotto il fuoco nemico o per congelamento.

Conquiste dell'Asse

Le conquiste Italo-Tedesche fino al 1942

Con l’entrata in guerra a fianco dell’Inghilterra (dicembre del 1941), gli Stati Uniti portarono sul campo di battaglia tutto il potenziale delle loro industrie e la forza della loro grande ricchezza: sommata a quella della Gran Bretagna, la loro produzione di armamenti era già nel 1941 due volte maggiore di quella della Germania e del Giappone; due anni dopo risulterà tre volte maggiore. Padroni dei più potenti arsenali mondiali, gli Americani provvedevano agli armamenti non solo per sé, in vista della lotta su più fronti: gli Stati Uniti divennero insomma l’«arsenale delle democrazie», e si trovarono a dover affrontare il problema dei trasporti di uomini e mezzi su grandi distanze; per venire in aiuto della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica, agli Americani servivano innanzitutto porti e basi aeree in Medio Oriente ed in Africa Australe, da dove inoltrare il materiale. Mentre gli uomini di De Gaulle vennero respinti nel loro attacco contro Dakar, nell’Africa Occidentale Francese (fedele al Governo filonazista di Vichy), gli Inglesi riuscirono ad occupare il 6 maggio 1942 Diégo-Suarez (l’attuale Antseranana, in Madagascar, anch’esso fedele a Vichy). Sul mare, la guerra sottomarina imposta dalla «Rudeltaktik» («tattica di branco») dei Tedeschi nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nell’Oceano Artico tenne in scacco gli Alleati fino agli inizi del 1943, mentre in seguito la situazione mutò grazie alle nuove attrezzature ed al continuo varo di navi che integravano le perdite; nel 1944 gli Alleati riuscirono a concludere una serie di azioni anfibie in Europa e, in autunno, a fornire aiuti vitali alle forze impegnate all’interno del continente. Furono gli sbarchi, che sconcertavano le difese degli avversari, uno dei segreti della vittoria degli Americani: 8 novembre 1942 in Algeria, 10 luglio 1943 in Sicilia, 22 gennaio 1944 a Nettuno (Roma), 6 giugno 1944 in Normandia, febbraio 1945 ad Okinawa in Giappone.


Il fronte italiano (1943-1945)

Nella Penisola cominciò a serpeggiare un senso di sconforto: vennero razionati il pane, gli altri generi alimentari, le stoffe. Il 23 gennaio 1943 gli Inglesi entrarono a Tripoli; gli Italiani resistettero in Tunisia fino al 14 maggio, quando il Generale Messe ottenne il permesso di chiedere al nemico la resa: il 10 luglio gli Anglo-Americani sbarcarono in Sicilia ed iniziarono a risalire la Penisola, bombardando Napoli, Torino, Milano; Roma fu colpita per la prima volta il 19 luglio, nonostante le proteste di Pio XII, e le bombe fecero un migliaio di vittime. Allo sconforto subentrò la rassegnazione, e crebbe l’ostilità verso il regime fascista. Anche alcuni tra i maggiori esponenti del fascismo decisero di opporsi al Duce e, nella seduta del Gran Consiglio della notte fra il 24 e il 25 luglio, Mussolini venne messo in minoranza con 19 voti contrari e 7 favorevoli: il giorno dopo, recatosi dal Re Vittorio Emanuele III, fu tratto in arresto. Il Re prese la carica di Presidente del Consiglio e conferì al Maresciallo Badoglio, un vecchio Generale Piemontese, ex fedelissimo del Duce, l’incarico di formare un ministero di «tecnici»: si promisero le elezioni entro quattro mesi dalla fine della guerra e intanto si dichiarò disciolto il partito fascista.

I giorni seguenti furono pieni di ansia, di preoccupazione, di timori. L’Italia cercava di sganciarsi dall’alleanza coi Tedeschi e, allo stesso tempo, di ottenere buone condizioni di pace con gli Anglo-Americani. Badoglio, nell’attesa di concludere la pace coi vincitori, continuava a far combattere l’esercito, anzi, chiamava in Italia truppe tedesche che aiutassero i nostri soldati ad arginare l’invasione.

Finalmente, l’8 settembre la radio diede l’annuncio che l’armistizio era stato firmato, che l’Italia non era più in guerra con gli Anglo-Americani.

Ma non era ancora la pace: Kesselring, per evitare di restare isolato, fece affluire dalla Germania altre divisioni. In pochi giorni i Tedeschi occuparono i punti nevralgici del Paese mentre i comandi italiani, sorpresi dagli avvenimenti (molti Generali d’Armata non avevano neppure saputo in anticipo della firma dell’armistizio), potevano opporre solo una scarsa – anche se spesso eroica e tenace – resistenza (come ad esempio a Cefalonia, dove caddero più di 8.000 soldati che si rifiutarono di arrendersi ai Tedeschi, o come a Roma, occupata solo grazie al tradimento). Allo Stato Maggiore, abbandonato, nessuno rispondeva al telefono.

Il Re, accompagnato da Badoglio, partì per Pescara, lasciando all’improvviso la Nazione senza una guida, senza un comando, senza un punto di riferimento; si mise in salvo nell’Italia Meridionale occupata dagli Anglo-Americani, e a Brindisi ricostituì un Governo, del tutto illegittimo perché l’elezione non fu mai ratificata dal Parlamento. Ciascuno, militare o civile, fu lasciato arbitro del suo destino, ciascuno dovette fare le sue scelte secondo la propria coscienza. La Penisola veniva percorsa da sbandati, soldati che avevano buttato il fucile, si eran tolta la divisa e cercavano di raggiungere le proprie case con viaggi spesso avventurosi, a bordo di camion o di treni-merci. Ovunque si stendeva il velo della paura, cominciavano i lunghi mesi dell’occupazione tedesca che si rivelarono i più tragici di tutta la guerra.

Il fronte italiano

La Seconda Guerra Mondiale in Italia (1943-1945)

L’occupazione tedesca era costellata di stragi, di fucilazioni, di massacri; per le strade, le retate erano quasi all’ordine del giorno: si bloccava un quartiere ed i giovani venivano caricati a forza sui camion e portati a lavorare in Germania. Mussolini, liberato il 12 settembre da paracadutisti tedeschi, fondò la Repubblica Sociale Italiana, con capitale a Salò: uno Stato che doveva essere l’ultimo sogno del Duce, la sua utopia, l’Italia ch’egli avrebbe voluto fondare, ma che ebbe vita breve e travagliata. La violenza tedesca e quella di alcune bande fasciste portarono alla nascita di un movimento di «Resistenza»: gruppi armati, sulle montagne, nei paesi, nelle città, contrastavano l’occupazione, con sabotaggi ed attentati di una violenza talvolta superiore a quella del nemico (vi furono persino aspri combattimenti tra gruppi di partigiani di diverse ispirazioni politiche), anche se il loro apporto alla vittoria finale fu quasi del tutto ininfluente. Come reazione agli attentati, i Tedeschi usarono l’arma delle rappresaglie: 10 partigiani o presunti tali fucilati per ogni Tedesco ucciso: 15 ostaggi vennero fucilati a Piazzale Loreto, 335 alle Fosse Ardeatine, 560 a Sant’Anna di Stazzena, 1.830 a Marzabotto; interi paesi dell’Appennino Emiliano rimasero interamente spopolati. Si calcola che i civili uccisi per rappresaglia siano stati 9.980 e che 33.000 siano stati i caduti nei campi di concentramento tedeschi. Accanto e spesso in antitesi ai partigiani combattenti molte altre persone, tra cui preti, donne, vecchi, accettarono il pericolo, il carcere, la tortura, la fucilazione, ma senza uccidere – nascondendo prigionieri, ricercati, Ebrei, soldati sbandati, dando le loro case perché vi si potessero depositare documenti... più in alto di tutti, vi furono quelli che si immolarono volontariamente per salvare altri, che diedero la loro vita in riscatto di altre vite; persone che avevano intensi legami familiari, affetti, speranze di avvenire, che amavano la vita, che speravano di uscire dal flagello e di riprendere la vita del tempo di pace, ma che quando avevano coscienza che rinunciando alla loro vita potevano salvare altre vite, non resistettero, come Salvo d’Acquisto, il carabiniere che si dichiarò colpevole di un attentato da lui mai commesso per salvare 22 civili altrimenti condannati alla fucilazione: accanto alla tentazione del male, c’era quella del bene, accanto all’abisso al cui termine c’era la perdizione, c’era la fuga verso l’alto, al cui vertice c’era la Santità.

Gli Anglo-Americani risalivano la Penisola a tappe. La dissoluzione dell’esercito italiano e la furiosa resistenza tedesca, oltre ad un territorio accidentato che si prestava facilmente alla difesa, impedirono l’attraversamento del Paese in «tre giorni», come si era favoleggiato all’inizio. A Cassino, il fronte si arrestò per alcuni mesi. Poi fu la volta di Anzio, dove le esitazioni degli Americani permisero ai Tedeschi di rafforzare il fronte laziale impedendo di allargare la testa di sbarco: altri quattro mesi di stallo prima di poter riprendere l’avanzata. Il 4 giugno 1944 fu liberata Roma. Durante l’inverno, nuovo blocco sulla Linea Gotica, la più resistente barriera difensiva approntata dai Tedeschi in Italia. Poi, anche questa resistenza cessò e le armate germaniche iniziarono la ritirata verso le Alpi, punzecchiate dai partigiani che nel frattempo si erano «miracolosamente» moltiplicati (70.000 prima dello sfondamento della Linea Gotica, 200.000 subito dopo). Gli Americani venivano accolti nelle città come liberatori, erano festeggiati nelle strade, il loro ingresso aveva l’aspetto di un trionfo. Il 25 aprile, in Italia, la guerra era ufficialmente finita (ed iniziava la mattanza di fascisti veri, presunti fascisti e gente che col fascismo non aveva né aveva mai avuto nulla a che fare); il 29, capitolavano le ultime truppe tedesche ancora sul territorio della Penisola. Il giorno prima Benito Mussolini, catturato metre tentava di raggiungere le truppe fasciste che stavano ripiegando verso la Valtellina per l’estrema resistenza, era stato frettolosamente fucilato, in modo ancora non del tutto chiarito. La sua morte lasciava «opportunamente» irrisolti alcuni enigmi, tra i quali la questione del suo tesoro (finito in massima parte nelle casse del Partito Comunista Italiano, sebbene di proprietà dello Stato), il famoso carteggio con Churchill (pubblicato in minima parte prima di essere portato a Londra e qui fatto sparire), il presunto (e possibile) accordo con gli Anglo-Americani per tornare al potere in funzione anti comunista (ricordiamo che l’Ambasciatrice Americana in Italia tentò negli anni Cinquanta di far mettere fuorilegge il Partito Comunista, senza però riuscire nel suo intento).


La fine della guerra (1943-1945)

Disfatta della Germania

La disfatta della Germania (1943-1945)

Tra il novembre del 1942 e il febbraio del 1943, con la vittoria di Montgomery in Egitto e ad El Alamein, lo sbarco anglo-americano in Africa Settentrionale e la resa di Von Paulus a Stalingrado (Unione Sovietica), la situazione volse a tutto favore degli Alleati. Mentre i Sovietici costringevano i propri avversari ad una «ritirata strategica» sulla quasi totalità del territorio russo, lo sbarco alleato in Sicilia provocò la caduta del fascismo e l’armistizio dell’Italia con gli Anglo-Americani. Coordinati con le operazioni dell’Armata Rossa, gli sbarchi in Normandia ed in Provenza (6 giugno e 15 agosto 1944) consentiranno la liberazione di gran parte della «fortezza Europa», costringendo i Paesi satelliti della Germania ad una rapida serie di capitolazioni (autunno del 1944).

Nemmeno il ricorso tedesco ai missili V1 e V2 (prima contro l’Inghilterra, poi su Anversa) e le controffensive nelle Ardenne e davanti a Budapest, costituirono una seria minaccia all’avanzata degli Alleati: nel marzo del 1945 le truppe anglo-americane varcarono il Reno; la resistenza ostinata dei dirigenti germanici non impedì l’invasione del Paese e l’esodo delle popolazioni tedesche. Non avendo potuto opporsi alla riunificazione degli eserciti anglo-americano e russo (26 aprile) né all’entrata dei Sovietici a Berlino, Hitler si suicidò nel proprio bunker il 30 aprile, lasciando al successore designato, l’Ammiraglio Dönitz, il compito di intraprendere negoziati coi vincitori. Firmata il 7 maggio a Reims, la resa incondizionata delle forze tedesche venne ratificata il giorno dopo a Berlino: la Germania «anno zero» venne così abbandonata nelle mani dei comandanti in capo delle forze alleate (Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia).

Un discorso a parte deve esser fatto per il fronte del Pacifico: qui la guerra fu particolarmente insidiosa, i soldati si nascondevano nelle fittissime foreste tropicali, dove il nemico era spesso invisibile.

L’attacco a sorpresa alla base statunitense di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, aveva testimoniato da una parte la volontà dei militari giapponesi di sfidare gli Stati Uniti (ostili alla penetrazione giapponese in Cina), dall’altra il loro intento di impadronirsi delle risorse dell’Indocina e delle Indie Olandesi, dopo che le loro madrepatrie erano state prese dai Tedeschi. L’occupazione militare dell’Indocina nell’estate del 1941, che mirava a Singapore ed ai mari del Sud, aveva provocato misure di ritorsione economica da parte sia degli Stati Uniti che della Gran Bretagna, misure che avevano spinto all’azione i militari oltranzisti favorevoli alla guerra, dei quali il massimo esponente era Tojo.

Guerra in Estremo Oriente

La Seconda Guerra Mondiale in Estremo Oriente e nel Pacifico

Nel giro di pochi mesi, con una guerra lampo i Giapponesi occuparono le basi americane ad Est del Pacifico e le fonti di materie prime a Sud, giungendo a minacciare persino l’India e l’Australia (dove Darwin subì un pesante bombardamento aereo). Se i Giapponesi si erano illusi di venire a patti con gli Americani, si dovettero presto ricredere: nella primavera del 1942 con il primo bombardamento di Tokyo e – tra maggio e giugno – con le battaglie aeronavali del Mar dei Coralli e delle Isole Midway, l’espansione dell’Impero del Sol Levante fu bloccata. Privata delle sue unità più importanti, la marina giapponese non riuscì ad evitare, in agosto, uno sbarco alleato a Guadalcanal, nelle Isole Salomone. Da quel momento, l’iniziativa venne presa dai sommergibili americani, che attaccarono la flotta mercantile giapponese impreparata a questa forma di combattimento. I nuovi modelli di navi da battaglia e di sottomarini furono affiancati dalle portaerei, che dimostrarono il loro potere d’attacco a Midway e in altre battaglie; le sofisticate navi da guerra anti-sottomarino pattugliarono attivamente le acque attorno a queste imbarcazioni più grandi e più vulnerabili. Le cifre delle perdite subite dal Giappone superavano quelle del varo di nuove imbarcazioni: nei primi mesi del 1945 la marina nipponica aveva ormai solo il 10% delle unità che possedeva prima del conflitto, ed erano oltretutto le più piccole; l’arcipelago era inoltre minacciato di asfissia economica.

I Giapponesi, che disponevano di linee di comunicazione sviluppate su distanze troppo lunghe e di forze troppo disperse (anche se potevano contare sul momentaneo appoggio delle popolazioni «liberate»), non riuscirono ad impedire il proseguimento di una manovra «a tenaglia». Condotta a Sud dal Generale MacArthur, essa procedette di isola in isola con un percorso spezzato, per evitare quelle troppo affollate di contingenti nemici (che, accerchiate, si sarebbero arrese più tardi), e raggiunse infine le Filippine. Con le sue «Task Forces» (gruppi di portaerei, unità di scorta e mezzi da sbarco), l’Ammiraglio Nimitz avanzò nel Pacifico Centrale, in direzione del Giappone, dalle Isole Gilbert fino alle Ryukyu. Come gli Inglesi in Birmania, anche gli Americani dovettero scontrarsi con l’ostinata resistenza nipponica e con le squadriglie suicide dei «kamikaze», i piloti che si gettavano con l’aereo direttamente contro le navi nemiche, per avere la certezza di colpirle, e che divennero ben presto l’incubo dei militari statunitensi (l’unico modo per fermarli era abbattere i loro aerei in picchiata, una cosa maledettamente difficile). Agli inizi del 1945, comunque, contemporaneamente ad un’offensiva cinese, le forze statunitensi si impadronirono delle posizioni di approccio all’arcipelago nipponico, come le isole di Iwo Jima e di Okinawa. Da là, le superfortezze volanti potevano bombardare i centri vitali del Giappone e le navi di rifornimento provenienti dalla Penisola Indiana.

Malgrado queste minacce, i dirigenti giapponesi non erano disposti alla resa: conservavano ancora l’Indocina, le Indie Olandesi e le coste cinesi; d’altra parte, l’alto comando americano prevedeva l’assalto finale non prima del 1946 ed a prezzo di perdite molto elevate, almeno un milione di uomini. Gli eventi precipitarono con la decisione del Presidente Truman di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto) e l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica, che penetrò in Manciuria ed in Corea. L’Imperatore Hirohito in persona decise di intervenire ed ottenne dai Ministri e dai capi militari la resa del Paese, a condizione di non essere messo sotto processo (non comparve infatti nel processo di Norimberga). L’atto di capitolazione, firmato il 2 settembre nella baia di Tokyo a bordo della corazzata Missouri, decretò la fine del bellicista giappone ma lasciò in sospeso una serie di problemi: l’occupazione giapponese aveva infatti inferto un colpo decisivo al dominio europeo nel Sud-Est Asiatico, mentre in Cina la vittoria avrebbe determinato il conflitto tra i nazionalisti di Jiang Jeshih e i comunisti di Mao Zedong (che avrebbero finito per prevalere).

La guerra era costata un numero di vittime impressionante: solo in Italia c’erano stati 444.523 morti (di cui più della metà, 284.566, erano civili), gli Stati Uniti avevano avuto 248.161 morti e 47.222 dispersi, la Francia 260.000 morti, l’Inghilterra 336.772 morti e 98.113 dispersi (i civili morti a causa dei bombardamenti aerei furono 60.585), la Germania circa 7.000.000 di morti e l’Unione Sovietica dai 12 ai 15 milioni di vittime.

Sebbene si dica spesso che fu la bomba atomica lanciata sul Giappone a determinare il termine del Secondo Conflitto Mondiale, in realtà nessuna tecnologia od arma individuale può esser ritenuta responsabile di aver posto fine alla guerra. Piuttosto, fu la tecnologia nel suo complesso, sia sul campo di battaglia che lontano da esso, a decidere l’esito del conflitto. In questo senso, fece presagire il futuro del combattimento.

(giugno 2018)

Tag: Simone Valtorta, Seconda Guerra Mondiale, Adolf Hitler, Benito Mussolini, Patto d’Acciaio, Blitzkrieg, guerra lampo, stukas, panzer, Andora Star, Coventry, guerra partigiana, Italia nella Seconda Guerra Mondiale, campagna d’Africa, partigiani, campagna di Russia, bomba atomica, Germania anno zero, carteggio Churchill-Mussolini, 25 aprile 1945, Missuori, Liberazione, campi di concentramento.