Stefano Rizzardi: onore a un eroe
Medaglia d’Oro alla Memoria del Bersagliere

All’indomani dell’8 settembre, quando una coltre di piombo si stese sulle infauste sorti dell’Italia e le prime avvisaglie della guerra civile apparvero sul corrusco orizzonte in cui erano scomparsi gli ultimi raggi dello stellone, non furono pochi coloro che, perfettamente consapevoli di quell’ora plumbea, rifiutarono la resa e scelsero di continuare la lotta armata, pur consapevoli, come afferma lo storico Bruno Borlandi a conclusione della sua opera su quegli anni ferrei, di andare a combattere «senza la speranza di vincere».

Un gruppo particolarmente significativo di volontari fu quello dei Bersaglieri che, quando la Repubblica Sociale non era stata ancora costituita, accorsero nella loro caserma di Verona da dove partirono ai primi di ottobre per il fronte dell’Isonzo, fra l’entusiasmo e la commozione di una folla plaudente, nei cui volti, come attesta Alberto Zanettini, un altro attento storico di quella vicenda, «si notava il desiderio di riscatto e di sincero amor patrio». La destinazione non era casuale: da un parte, si trattava di difendere il confine orientale dalla forte offensiva dei partigiani slavi galvanizzati dalla troppo facile vittoria conseguente all’armistizio, e dall’altra di accogliere il grido di dolore lanciato da città italiane care al cuore di tutti, come Trieste e Gorizia, minacciate direttamente da un’invasione proveniente dal fronte alpino.

I Bersaglieri scrissero una pagina degna delle Termopili in una lotta impari condotta senza esclusione di colpi, che si sarebbe protratta per un anno e mezzo sino al termine del conflitto, quando gli Alleati, dopo avere rotto l’ultima resistenza italo-tedesca sulla Linea Gotica, dilagarono nella Pianura Padana, e di qui nel Veneto e nel Friuli. Quella lotta fu la salvezza di Gorizia, e almeno in parte della stessa Trieste, anche se la città di San Giusto avrebbe dovuto subire il martirio dei 40 giorni d’occupazione slavo-comunista continuata fino al giugno del 1945, ma creando il presupposto di un difficile ritorno all’Italia, che proprio i Bersaglieri avrebbero suffragato nove anni più tardi, iterando l’entusiasmo del 3 novembre 1918. In proposito, vale la pena di rammentare che il vincolo di Trieste con il «Grande Ottavo» – il Reggimento dei Volontari «Luciano Manara» – è rimasto vivo sino al terzo millennio, come è stato ribadito col conferimento della cittadinanza onoraria alla Bandiera del Reggimento da parte del Sindaco Roberto Cosolini, avvenuto il 27 ottobre 2014, ricorrendo il 60° anniversario della «seconda liberazione».

Quella pagina, come è facile comprendere, fu scritta a lettere di fuoco assolutamente indelebili dagli 800 uomini del Reggimento, metà dei quali rimasero sul campo, quando non furono immediatamente trucidati dopo la cattura, in spregio delle norme giuridiche, e prima ancora, di una consuetudine improntata alla «pietas» e al senso dell’onore, che vieta di uccidere il nemico ormai disarmato e indifeso.

Si tratta di una pagina troppo spesso dimenticata, fatta di eroismi straordinari, di un eccezionale spirito di sacrificio e di una matura coscienza patriottica che fece scrivere a un Bersagliere, sul muro di una casa diroccata dell’Alto Isonzo, che i Volontari non volevano il cambio, pur essendo impegnati in un confronto davvero terribile, se non altro per la forte sperequazione di effettivi e di mezzi, a tutto loro danno. La storiografia di quelle vicende, sia pure di relativa diffusione, è stata attenta e solerte nell’affidare alla memoria dei posteri le gesta di quegli uomini, che valsero al Reggimento «Luciano Manara» una cinquantina di decorazioni al valore, cui l’Italia ufficiale uscita dalla Resistenza avrebbe negato ogni riconoscimento – al pari di tutte quelle conferite dalla Repubblica Sociale Italiana – in spregio della conclamata politica di riconciliazione nazionale.

Quale alto simbolo del comune sacrificio offerto dai Volontari, è congruo scegliere l’esempio del Conte Stefano Rizzardi, giovane studente liceale veronese che in considerazione dell’età avrebbe potuto evitare il richiamo, e che invece fu tra i primi ad accorrere nella caserma del «Grande Ottavo»: pronto a partire per il fronte nel dichiarato convincimento di dover «fare qualche cosa per aiutare gli Italiani di lassù».

Stefano Rizzardi

Foto del Conte Stefano Rizzardi

Secondo la puntuale testimonianza di Arturo Salvatore Campoccia, primo storico dell’Ottavo Reggimento Bersaglieri Volontari, e quella successiva di un altro combattente del «Manara», il giornalista Teodoro Francesconi, la partenza dei reparti, avvenuta ai primi di ottobre dopo un brevissimo addestramento, fu salutata dagli applausi e dalle benedizioni della folla assiepata lungo il percorso; cosa che si sarebbe ripetuta durante gli attraversamenti di Vicenza, Treviso, Udine, e infine di Gorizia, dove «il tripudio fu enorme, l’ingresso in città quasi trionfale, l’emozione grande, anche nel vedere sventolare il nostro tricolore».

Al fronte, l’Allievo Ufficiale Stefano Rizzardi, che non aveva ancora compiuto il 18° anno di età, venne posto in linea col grado di Sergente ed ebbe il comando di un plotone del Primo Battaglione: si distinse subito in un aspro battesimo del fuoco, affrontato con la calma dei forti e con la sicurezza di governo della sua mitragliatrice, davvero degna di un veterano, ma nella notte del 26 ottobre un’offensiva soverchiante del nemico, al termine di un lungo combattimento che aveva visto soccombere gran parte dei suoi uomini, decise la sorte del presidio ormai completamente circondato dai partigiani; rimasto solo a sparare con la sua arma, Stefano venne letteralmente strappato dal pezzo e catturato insieme ai pochi superstiti.

Il comandante slavo-comunista parlava abbastanza bene l’italiano e disse ai sopravvissuti che le forze partigiane comprendevano chi era stato costretto «a rispondere alla chiamata dei fascisti» ma non certo le ragioni dei Volontari, forse senza immaginare che quei giovani combattenti dell’onore erano tali senza eccezioni. Ebbene, Stefano non ebbe un attimo di esitazione, facendo un passo avanti e affermando di essere l’unico Volontario, mentre gli altri erano esenti da «colpe». Ciò, nel nobile tentativo di salvare i propri commilitoni dalla «giustizia» di Tito, che aveva ripudiato ogni norma etica e giuridica.

Da parte sua, il capo partigiano rispose di sapere tutto, e anche di essere a conoscenza della sua progenie nobiliare, intimandogli di gridare «Viva Stalin». Per tutta risposta, Rizzardi – da vero Eroe – fece in tempo a urlare «Viva il Duce» e «Viva l’Italia» prima di scivolare a terra senza un lamento, freddato da un colpo alla nuca.

La vicenda ebbe un corollario non meno agghiacciante perché il Caporale Sergio Bragaja, anch’egli veronese, si pose davanti al partigiano guardandolo fisso negli occhi e gridandogli: «Assassino, sono un Volontario anch’io!». Al che, gli venne imposto di gridare «Viva Tito»: estrema offesa a cui l’altrettanto eroico Bersagliere rispose con un netto rifiuto restando ucciso come il suo Sergente, accomunato nello stesso destino di Vittima innocente, o meglio, colpevole del solo «delitto» di essere stato fedele al proprio dovere.

Si deve aggiungere che il fratello Rizzardo Rizzardi, anch’egli inquadrato nel Reggimento «Manara», avrebbe combattuto con indomito valore nell’intento di onorare al meglio la memoria del congiunto così tragicamente caduto; e che avrebbe conosciuto il destino di un’allucinante prigionia pluriennale all’insegna di sevizie e di torture, in cui i partigiani slavi, talvolta con l’ausilio di corifei italiani, seppero raggiungere vertici inimmaginabili, come testimoniano in abbondanza le vicende degli infoibamenti, degli annegamenti e dei massacri indiscriminati. Ma questa è un’altra storia.

Diversamente da quanto accadde in tempi largamente successivi per qualche decina di Caduti nella gloriosa epopea dell’Ottavo, le cui Spoglie mortali vennero esumate dal piccolo Cimitero militare di Santa Lucia e traslate nel Sacrario di Bari, quelle di Stefano Rizzardi e di Sergio Bragaja sono rimaste in luogo sconosciuto, nella terra che vide il loro sacrificio: quella stessa terra che, come è stato ricordato con pertinenti parole da Arturo Salvatore Campoccia, aveva visto – assieme al carattere irriducibile della loro fede – «il senso sublime del dovere, la profonda passione, e l’amore sconfinato per la Patria tradita».

L’esempio di Stefano Rizzardi non fu certamente vano: nel breve termine, perché avrebbe corroborato lo spirito di corpo dei Bersaglieri Volontari e il loro convincimento di battersi dalla parte del buono e del giusto, contro un sistema che non faceva mistero del suo programma di conquista basato sull’ateismo di Stato, sul collettivismo forzoso e sulla negazione dei valori umani e civili rivenienti dalla tradizione latina e veneta; a più lungo termine, perché avrebbe lasciato nelle coscienze migliori un buon seme destinato a germogliare, in quanto – come da felice espressione del Vescovo di Trieste Monsignor Antonio Santin – «le vie dell’iniquità non possono essere eterne». Del resto la Medaglia d’Oro al Valore conferita «ad memoriam» deve intendersi riferita alle straordinarie doti militari dimostrate in combattimento, ma prima ancora, al generoso tentativo di salvare i propri uomini e al nobile comportamento davanti al nemico.

Il dramma di questo Eroe per taluni aspetti omerico si è consumato nel breve spazio temporale di due settimane, simile a quello di talune tragedie antiche, dove l’unità di tempo e di luogo aggiunge alla vicenda del protagonista un motivo di ulteriore coinvolgimento umano, anche da parte di chi ne diventi partecipe attento e commosso dopo un lungo scorrere di anni, inducendo riflessioni non effimere sulla «lunga marcia verso il nulla» di cui a certe ideologie del cosiddetto secolo breve, che costarono tanto sangue e tante Vittime incolpevoli; ma nello stesso tempo sul carattere permanente dei valori che furono cari al Bersagliere Rizzardi e ai commilitoni del «Grande Ottavo» e che sono riassumibili in un vero e proprio imperativo categorico di matrice kantiana: amare la Patria.

Il sacrificio di Stefano, distintosi per una straordinaria maturità di giudizio nonostante la giovanissima età, e per la consapevole rinunzia agli agi che avrebbero potuto derivargli dalla sua condizione sociale, deve essere indicato quale modello di riferimento per un’azione governata dall’«ethos» e dalla capacità di coniugare il nobile sentire con il forte agire, davvero eccezionale in chi non abbia ancora raggiunto la maggiore età. Non a caso, il Comandante Supremo Alleato, Generale Dwight Eisenhower, secondo la testimonianza del suo Aiutante per la Marina, avrebbe detto in tempi successivi che l’onore d’Italia era stato salvato proprio dalla Repubblica Sociale, mettendo in ulteriore evidenza il carattere ingiustamente discriminatorio del rifiuto ciellenista di riconoscere le sue Medaglie al Valor Militare.

La vicenda del Reggimento «Luciano Manara» e quella individuale del suo Bersagliere Stefano Rizzardi, a tre quarti di secolo dal loro olocausto, consentono una riflessione conclusiva ormai inoppugnabile: quella che riguarda il carattere effimero delle vulgate concernenti il «male assoluto» e le amenità storiografiche conseguenti. In tutta sintesi, la comprensione della falsità e delle ingiustizie che ne scaturiscono è necessaria a rimuoverne cause ed effetti, in un’ottica di oggettività e quindi, di matura consapevolezza critica e civile.


Bibliografia

Campoccia Arturo Salvatore, Na Juris! Quando la storia sa di leggenda, Edizioni del Centro Editoriale Nazionale (CEN), Roma 1963, 164 pagine. L’episodio che vide l’estremo sacrificio di Stefano Rizzardi vi trova illustrazione alle pagine 27-28, con particolare riguardo alla «fermezza di carattere» e all’esemplare «ardore di fede» del Caduto, senza dire della sua fede, del suo «freddo coraggio» e della sua «intelligenza bellica» tanto da meritare con significativa immediatezza la «promozione a Sergente per merito di guerra». L’Autore, in base alle testimonianze probanti dei superstiti, aggiunge che Stefano ebbe un riconoscimento postumo del suo valore persino dal capo partigiano che lo aveva vilmente massacrato.

Borlandi Bruno, Boia chi molla (1943-1945), Edizioni del Borghese, Milano 1969, 194 pagine. Il volume, che appartiene a una storiografia prevalentemente divulgativa, destinata a un’informazione di ampio respiro e di forte contenuto patriottico, dedica – al pari delle fonti specialistiche – un’attenzione mirata anche al sacrificio di Stefano Rizzardi (pagine 54-56) con qualche discrasia sostanzialmente ininfluente, come quella di averlo definito studente universitario anziché liceale.

Roggiani Fermo, Bersaglieri d’Italia: dal ponte di Goito a Beirut, Cavallotti Editori, Milano 1983, 466 pagine. Si tratta di un ampio inquadramento storico, con prefazione di Claudio Cesare Secchi, che parte dalla costituzione del Corpo per iniziativa di Alessandro La Marmora (1836) e giunge sino ai nostri giorni, con riguardo alle missioni di pace in territori esteri. Nell’opera trova spazio una sintesi dell’impegno nell’Alta Valle dell’Isonzo fra il 1943 e il 1945; in proposito, Stefano Rizzardi viene citato assieme ad altri 13 commilitoni, tra cui il Cappellano Don Guerrino Fabbri, la Medaglia d’Argento Paride Mori e il concittadino Carlo Giusti del Giardino (pagina 390) nell’auspicio di una «ricostruzione» lontana dalle divisioni dell’epoca, e finalizzata a «nobili ideali di dignità, di fraternità, di amore» (pagina 393). È un invito alla concordia certamente da condividere, che peraltro non può prescindere dall’esigenza di restituire analoga dignità alle decorazioni della Repubblica Sociale Italiana, non evidenziate nell’apposito elenco nominativo in appendice (con specifico riguardo alle 164 Medaglie d’Oro individuali conferite nella lunga storia del Corpo).

Pisanò Giorgio, Storia della Guerra Civile in Italia (1943-1945), Edizioni Pubblicità Editoriale (EPE), 3 volumi, Milano 1971, 1.860 pagine. Per l’estrema difesa del confine orientale nell’Alta Valle dell’Isonzo e nella foresta di Tarnova, si vedano le pagine 1.320-1.340; ivi compresa un’ampia documentazione fotografica e iconografica, tra cui la copertina a colori pubblicata dalla «Domenica del Corriere» il 4 marzo 1945.

Francesconi Teodoro, Battaglione Bersaglieri Volontari: combattere per l’onore d’Italia, Edizioni Ritter, Milano 2003, 320 pagine. L’opera, di notevole respiro storico e successivamente ristampata per i tipi di Marvia (Voghera 2004) dedica un ricordo specifico alle tragedie personali di Stefano Rizzardi e di Sergio Bragaja (pagina 54) aggiungendo alcuni ragguagli sui superiori che avevano «reclamizzato» l’arruolamento di chi – come il giovanissimo conte – «apparteneva a una famiglia gentilizia veronese» e precisando che i due Bersaglieri, prima di essere massacrati, vennero «interrogati e denudati» (dettaglio mancante nelle altre fonti: in realtà, la spoliazione degli effetti personali era prassi partigiana ricorrente).

Vecchiato Francesco, Tra guerra e guerra fredda. La rinascita di Verona dalle macerie del conflitto mondiale (1945-1959) a cura di Maristella Vecchiato, Edizioni Rotary Club Est, Verona 2006, 120 pagine. Il volume contiene alcune imprecisioni: a esempio, quella secondo cui Stefano Rizzardi «fu a lungo torturato perché passasse dalla parte titina» (pagina 104) mentre ciò avvenne per il fratello Rizzardo che conobbe per anni l’orrore e le sevizie dei campi di prigionia jugoslavi con un’esperienza angosciosa che lo avrebbe segnato per tutta la vita. In effetti, si tratta di un contributo non sempre conforme all’oggettività di una corretta storiografia – a più forte ragione d’obbligo a tanta distanza dai fatti – come quando si afferma, non senza un’anacronistica «vis» polemica, che i Volontari avevano sacrificato la propria vita «per una causa ormai perduta» e che sarebbero stati oggetto di una «ricompensa con vuote medaglie» (pagina 8).

Tomasich Bruno, L’altra storia: il confronto, Edizioni del Gruppo Albatros, Roma 2011, 2 volumi, 586 pagine. Il grande affresco di storia contemporanea dalle origini del fascismo alla fine della Repubblica Sociale Italiana, con cui l’Autore ha dato un’efficace interpretazione «controcorrente» del secolo breve, non poteva ignorare l’epopea dell’Ottavo Reggimento Bersaglieri: al riguardo, è significativo che, pur nella necessaria sintesi del riferimento, l’unica citazione individuale sia stata riservata al «giovane diciottenne Stefano Rizzardi decorato di Medaglia d’Oro» (pagina 507).

Zanettini Alberto, Paride Mori – Gli eroici Bersaglieri sacrificatisi per la Patria e ignorati dalle Istituzioni, Edizione Donati, Parma 2013, 328 pagine. L’episodio riguardante l’olocausto di Stefano Rizzardi e di Sergio Bragaja è riportato con ulteriori dettagli alle pagine 118-120: tra gli altri, quello secondo cui il Sergente rimase «solo a sparare con la sua mitragliatrice» in quanto il reparto era stato ridotto allo stremo da forze nemiche soverchianti, e venne catturato con l’arma in pugno resa «rovente» dai tantissimi colpi in rapida successione. L’Autore fornisce nuovi particolari anche circa il conferimento della Medaglia d’Oro al Valore di cui Rizzardi venne insignito «ad memoriam» il 13 febbraio 1945, mai consegnata alla famiglia (pagina 298) e circa la commemorazione in zona di guerra nel primo anniversario della scomparsa, presente la madre del Caduto (pagina 299).

(febbraio 2019)

Tag: Laura Brussi Montani, Carlo Cesare Montani, Seconda Guerra Mondiale, Repubblica Sociale Italiana, Ottavo Reggimento Bersaglieri Volontari, Stefano Rizzardi, Bruno Borlandi, Alberto Zanettini, Luciano Manara, Roberto Cosolini, Arturo Salvatore Campoccia, Teodoro Francesconi, Josip Broz detto Tito, Sergio Bragaja, Rizzardo Rizzardi, Giseppe Stalin, guerra partigiana, Monsignor Antonio Santin, Dwight «Ike» Eisenhower, Fermo Roggiani, Alfonso La Marmora, Don Guerrino Fabbri, Paride Mori, Carlo Giusti del Giardino, Francesco Vecchiato, Maristella Vecchiato, Bruno Tomasich, partigiani slavi, VIII Reggimento Bersaglieri.