Vittorio Alfieri, il grande astigiano
Con la sua lirica potente scosse gli Italiani dal torpore, e indicò una via di libertà alla nazione

Vittorio Alfieri

François Xavier Pascal Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri, 1797, Fondazione Centro Studi Alfieriani, Asti (Italia)

Le date essenziali della vita di Vittorio Alfieri non sono molte.

Nacque ad Asti, da nobile e ricca famiglia il 17 gennaio 1749.

Frequentò, con scarsa applicazione, l’Accademia Militare di Torino, dalla quale uscì nel 1766, col primo grado d’ufficiale. Poiché si trattava più che altro di un incarico onorifico, che gli consentiva ogni libertà, prese a viaggiare.

Nel ’66 visitò tutta l’Italia, spingendosi sino a Napoli; nel ’67-’68 fu in Francia, Inghilterra, Olanda e Svizzera; nel ’69-’70 in Germania, Danimarca, Svezia, Russia e di nuovo in Inghilterra, Olanda e Francia; nel ’71 visitò la Spagna ed il Portogallo.

Fece ritorno a Torino, ove mise stabile dimora nel ’72, dandosi alla vita brillante dei nobili di quel tempo. Forte influenza ebbe su di lui la passione per la marchesa Gabriella Turinetti e non fu l’ultima causa della crisi da cui fu colto nel 1775. La vita condotta sin allora gli apparse futile e vergognosa, e, per uscirne, provò a scrivere una tragedia: Cleopatra.

Ben presto si accorse di conoscere troppo poco la lingua italiana e di aver troppo poco beneficiato dai vecchi studi; completò, tuttavia, la tragedia, che fu rappresentata nel giugno del ’75 al teatro Carignano, riscuotendo, per tre sere, gran successo di pubblico. Egli giudicò immeritati gli applausi, e, per mettersi in grado di meritarne davvero, si diede a studiare con quella foga e quell’accanimento che resero proverbiale la sua forza di volontà. Leggenda o realtà che si facesse legare ad una sedia dal suo cameriere, dandogli ordine di non slegarlo per date ore e spesso ripeteva la famosa frase: «Volli, sempre volli, fortissimamente volli».

Tale era il suo desiderio smodato di acquisire una cultura eccezionale.

Nel 1777 si trasferì in Toscana, alla ricerca della buona lingua e a Firenze conobbe Luisa Stolberg, moglie del conte di Albany, pretendente al trono d’Inghilterra. Questa, poco dopo, si separò dall’indegno marito e i due convissero come marito e moglie sino alla morte di Vittorio Alfieri.

Nel ’78 egli donò, per sentirsi più libero, tutta la propria fortuna alla sorella Giulia, contro una rendita vitalizia e, da allora, non risiedé più in Piemonte.

Fra il ’78 e l’ ’85 fu a Firenze, a Roma, a Siena e a Pisa e, per breve tempo in Inghilterra. Fra il 1885 e il 1892 visse a Martinsburg, in Alsazia e a Parigi, dalla quale riuscì a fuggire quando la Rivoluzione degenerò in Terrore. E, dopo un breve soggiorno in Belgio, fissò dimora a Firenze, ove morì a cinquantaquattro anni, l’8 ottobre 1803. Venne sepolto in Santa Croce.

Numeroso è l’elenco delle sue opere.

Teatro: la prima tragedia Cleopatra; la commedia satirica I poeti e le tredici tragedie di argomento greco o romano: Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Ottavia, Timoleone, Merope, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo. Le sei tragedie di altri argomenti: Filippo, Rosmunda, Maria Stuarda, La congiura de’ Pazzi, Don Garcia, Saul; le quattro commedie politiche sulla miglior forma di governo: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto; le due commedie non politiche: La finestrina, Il divorzio; L’Alceste seconda, rifacimento di una tragedia di Euripide; l’Abele, misto di tragedia e di melodramma, da lui stesso battezzato «tramelogedia».

Svariate ed innumerevoli le poesie alfieriane, ma la prosa fa vibrare la sua scrittura, in special modo nei due trattati politici: Della Tirannide, Del Principe e delle lettere, il Giornale, la Vita e le Lettere. Ed infine le traduzioni da Sallustio, Virgilio, Terenzio, Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane.

«O vate nostro, in pravi Secoli nato, eppur creato hai queste Sublimi età. Che profetando andavi». Così Vittorio Alfieri s’immaginava che gli Italiani «redivivi» gli avrebbero detto un giorno, «stando audaci» in campo contro ai Galli. Aveva un presentimento di Roma e Mentana.

«I Galli sono una nazione meno omogenea degli Italiani. V’ha, secondo la trita frase, i figli di Voltaire e i figli dei Crociati». L’Alfieri, nella sua ira, li confondeva, anzi aborriva più fieramente i primi, piacendogli meglio gli eccessi degli Aretini e le forze dei Tedeschi in Toscana. Chiamava i «liberi», «liberti». La libertà era, secondo lui, un privilegio.

Secondo Villemain, Alfieri, sprezzava «la ignuda plebe lurida che spalanca le digiune gole: Giusto è il regno de’ cenci».

A questo lume l’Alfieri non è bello né attraente. Bisogna vederlo in sembiante del Catone dantesco, del quale aveva l’asprezza e l’inflessibilità, sgridante le anime neghittose degli Italiani. Coi suoi versi fieri destava questi novelli lotofagi che mostravano avere dimenticato la patria. Gli smammolati dall’ariette metastasiane erano richiamati alla virile energia degli antichi repubblicani. Egli rigenerandosi insegnò agli Italiani come, volendo fortemente, potessero rigenerarsi. Fece al medesimo tempo gli studi e le opere. La sua passione, disse il Villemain, è storica nelle lettere e fa parte del suo genio e lo paragonò a Byron ed una forza logica imitata da Rousseau, ma naturale.

Stupendo il trattato politico Della Tirannide, scritto nel 1777 e stampato per la prima volta nel 1789. Tirannide, secondo la stessa definizione dell’Alfieri, è «ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità».

E l’Alfieri, che in quasi tutte le sue opere si scagliò contro gli oppressori della libertà, «odiator de’ tiranni», lo definì il Parini, attinse, per dar sistematica giustificazione del suo odio irriducibile, più che alla storia e al diritto, alla propria eccezionale esperienza psicologica, che gli fece tracciare, della vita a cui si è sempre costretti, in regime di non libertà, un quadro non legato solo alla sua epoca, ma vivo, attuale e presente in qualsiasi tempo vengano oppressi i diritti della comunità.

Nel trattato politico Della Tirannide, vecchio di oltre duecentotrenta anni, il lettore potrà credere di veder descritti sistemi e stati d’animo tanto a lui più vicini: nulla è più fatalmente monotono e «scontato» dell’immutabile decorso delle dittature, di tutte le dittature.

(anno 2002)

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