I cicisbei, espressione di un’epoca
Analisi del conosciuto costume sociale attraverso la lettura di alcuni documenti

Il cicisbeo nel XVIII secolo divenne il cavalier servente per antonomasia. In Italia l’epistolario dell’Alfieri ma anche dei fratelli Verri è ricco di riferimenti in proposito.

Giovanni Verri fu cicisbeo di Giulia Beccaria; da qui le allusioni ad una presunta sua paternità nei confronti di Alessandro Manzoni. Capolavori come La Certosa di Parma di Stendhal o i dipinti del Tiepolo e di Francisco Goya, viaggiatori come lord Byron e Goethe sono testimonianza di tale abitudine.

Si trattò di un importante fenomeno di costume, ma non solo. Investì il tessuto sociale del ceto nobiliare, dando vita ad un modo diverso di concepire i rapporti familiari che, se non investì direttamente i ceti più umili, rappresentò un importante cambiamento di linea e di stile, cui nessuno potette restare indifferente.

Ritroviamo la figura del gentiluomo che accompagnava una nobildonna sposata in occasioni mondane, feste e ricevimenti, in assenza del marito, nelle opere teatrali di Goldoni, anche perché Venezia fu una delle città italiane più investite dal fenomeno di costume; certamente non la sola. Questo ebbe infatti ampio spessore, svolgendo all’inizio unicamente una precisa funzione di socializzazione, per poi divenire accessorio indispensabile per garantire alla donna non solo libertà di movimento ma anche prestigio sociale e tutela del buon nome.

«Il cavalier servente è figura italiana. Esportato in Spagna entrò nel costume di diversi Paesi Europei, pur con alcuni caratteri autoctoni e maggiori contrasti […]. In Francia le donne nobili sposate erano egualmente libere [rispetto all’Italia], circondate e corteggiate da nobiluomini, non però dei cicisbei ufficiali; ma il modello di vita era il medesimo.

A Parigi i coniugi mai […] si vedevano [insieme], mai li si incontrava nella stessa carrozza, mai si trovavano nella stessa magione e, meno che mai, si accompagnavano in un luogo pubblico»[1]. In una parola conducevano, diremmo noi oggi, vite separate.

Una ragione essenziale che determinò la presenza di tale figura vicino alle donne sposate del ceto nobiliare fu l’uso ricorrente dei matrimoni combinati che garantiva tra i coniugi quasi sempre affetto ma non passione. Del resto il marito agli occhi della società non poteva mostrarsi geloso perché sarebbe in tal caso stato considerato scortese e ristretto di vedute.

«La dama del XVIII secolo è una donna completamente libera, come non lo è mai stata prima. Tutta la società ruota attorno alla sua persona. […] Tutto è uguale in Italia, a Parigi, a Lucca, a Madrid, semplicemente perché è la vita nobiliare che è così fatta ed esiste in quel periodo un potere economico delle donne di quel ceto»[2]. Donne non solo libere di esercitare il loro potere, ma anche capaci di far valere talvolta la loro influenza politica[3].

Come ben ricorda il professor Roberto Bizzocchi in un suo saggio[4], l’inizio del fenomeno va rintracciato nel fidecommesso, ovvero in quella disposizione con cui il primogenito ereditava tutto il patrimonio di famiglia, mentre i figli cadetti sceglievano il Seminario oppure erano destinati a restare celibi.

Il surplus dei maschi non sposati venne così incanalato, grazie a questa istituzione giuridica, già a partire dalla fine del Seicento, nel nuovo ruolo di accompagnatore delle donne sposate. Ben presto si diffuse in tutta la Penisola, con una tale forza da assumere sue proprie norme, divenendo assai più che una moda.

Numerosi diari di signore dell’epoca confermano come il più delle volte si creasse tra dama e cicisbeo un rapporto amoroso che sfociava nel tempo in un legame stanco, come tra due vecchi coniugi un po’ annoiati.

La morale repubblicana che si instaurò a seguito della Rivoluzione Francese, particolarmente austera, fece di fatto scomparire la figura del cicisbeo.

Naturalmente già a partire, nel secolo dei Lumi, dal periodo antecedente le vicende rivoluzionarie, prediche e invettive verso questa figura sociale non mancarono! Diversi gli scrittori che satireggiarono e condannarono questa realtà, a cominciare dagli uomini di Chiesa.

Troppo dirompente, la figura del cicisbeo segnava il tramonto di quei confini relazionali all’interno della famiglia, e scardinava in qualche modo il sistema tradizionale, pur rientrando nel novero di rapporti comunque regolamentati.

L’analisi dell’operetta di uno di tali detrattori, peraltro poco nota, aiuta a comprendere meglio il secolo ed il fenomeno. L’uomo in questione è padre Teofilo Clini e le sue composizioni poetiche, abbondanti per quanto di scarso valore, si conservano manoscritte nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini. Si tratta di diciotto lunghi componimenti, quasi tutti d’argomento religioso o encomiastico o morale, precedute nel primo foglio da alcune frasi: «Andavano sparse di stanza in stanza alcune poesie del P. D. Teofilo Clini, Riminese nostro di Camaldoli. Perché non si perdessero affatto, si sono raccolte e messe insieme quelle che ci sono. Morì settuagenario in Camaldoli l’anno 1741 d’ottobre. Fu sempre molto divoto e amante dell’osservanza del nostro eremitico Istituto»[5].

Uno studio dello storico Luigi Piccioni[6] ricorda che su Teofilo Clini si sono potute raccogliere scarse notizie. Morto in Camaldoli il 25 ottobre 1741, originario di Montescudo, diocesi di Rimini, dove era nato il 17 marzo 1672; niente di più dettagliato è infatti rintracciabile nel manoscritto gambalunghiano.

Luigi Piccioni annota che traccia dello stesso Clini non ha rinvenuto nemmeno nella Biblioteca Vaticana, dove egli pensava potesse esservi una copia del suo manoscritto, che fu offerto a suo tempo a Papa Benedetto XIII, a cui il Canto era dedicato. Per quanto il valore letterario del poemetto del Clini sia scarso, è interessante la sua matrice storica che precede, nell’ispirazione, il Parini e nei fatti l’avversione che il costume dei cicisbeismo destò nella compagine cattolica del periodo, citata dallo stesso Carducci molto tempo dopo nel ricordare come la Chiesa levasse voce con la stampa contro il cicisbeismo[7].

Pare che il Clini avesse notizia di una ulteriore operetta, scritta da Costantino Roncaglia, apparsa in luce per la prima volta nel 1720, ed a questa in qualche modo si fosse ispirato[8].

Curiosa la stesura del suo poema a chi oggi si appresta a leggerlo: con l’Onestà che gli compare in sogno con in grembo un Amorino, rappresentante il matrimonio; il quale si corruccia alla vista di molti uomini; con il Matrimonio che si rifugia sotto il manto dell’Onestà, apparendo ferito, con in mano la fiaccola dell’Amore quasi spenta.

Se il tutto è piuttosto artefatto e manieristico, gustosa la descrizione quasi bucolica che l’Autore ci lascia dei rapporti primaverili tra il cicisbeo e la sua dama.

Egli riferisce che «escono insieme dalla città a godere la verzura e i canti dei pastori, vanno in giro a far visite; ed il cicisbeo sostiene che ammirando la bellezza non può peccare». Ci fu «nel massimo svolgersi del galante cicisbeismo, la universale tendenza di far credere puro e senza macchia questo legame fra la dama e il cavaliere»[9].

Il poemetto del Clini va visto come anello di congiunzione di una catena di opuscoli ed operette con cui il sentimento religioso e morale del XVIII secolo tentò di contrastare quella manifestazione di galanteria settecentesca. Tale tentativo della Chiesa si riallaccia in qualche modo al Romanticismo successivo, che contribuì a rompere con la precedente tradizione illuminista. Ma il Clini in piccolo andò oltre la semplice condanna del fenomeno di costume: fotografò un’epoca che non poteva avvalersi di immagini fotografiche, espressione di un mondo che sapeva strutturare ed insieme destrutturare percorsi sociopolitici complessi. E lo fece con semplicità, anticipando quei valori romantici, che tanto spazio offrirono poi ad un modello di famiglia solo in apparenza più coeso rispetto a quello settecentesco.

Nel corso del XX secolo non solo la storiografia, ma anche le arti figurative, prima fra tutte la cinematografia, hanno affrontato il tema dei rapporti familiari, rivolgendosi al Settecento con stupore ed interesse. Fra questi sicuramente il grande regista Stanley Kubrick che, attraverso un percorso psicanalitico, ricostruì l’epoca dei Lumi con una trasposizione temporale volta a cogliere nella nostra epoca uomini e donne colti nel tentativo di rivalutare i rapporti umani, andati deteriorandosi in una società dei consumi, questa sì povera di valori e contenuti.

Il senso di libertà che promanava dall’istituzione del cicisbeismo ci obbliga oggi a riflettere su modelli sociali affatto scontati. Anche se circoscritto alle famiglie patrizie, il ruolo sui generis del cicisbeo metteva in luce una regolamentazione dei rapporti uomo/donna di fatto favorevole alla compagine femminile. Certamente, si trattò di dinamiche sociali circoscritte ed obbligate, che dettavano comunque forti condizionamenti. Uomini e donne tuttavia interagirono in quel frangente in un’ottica prima di allora non praticata. In quel periodo infatti non sussistettero sostanziali differenze di genere, a livello valoriale.


Note

1 Valmaggi, 1927 (da Taine, 1899, I, 20).

2 Remigio Coli e Maria Giovanna Tonelli, Dame e cicisbei a Lucca nel tardo Settecento, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, pagina 102.

3 È il caso della marchesa Eleonora Bernardini di Lucca, citata da Remigio Coli, che nei carteggi privati presenti all’Archivio di Stato di Lucca dimostra un particolare ruolo svolto con alcuni patrioti del nostro Risorgimento. Vedere Archivio di Stato di Lucca, Carte Mansi, filza numero 4, riferimento 206.

4 Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale, Bari, Laterza, 2008.

5 Da Miscellanea di Studi Storici in onore di Giovanni Sforza, Torino, Fratelli Bocca editori, 1920, Luigi Piccioni, pagina 63.

6 Luigi Piccioni (Brescia 1870-Torino 1955), critico letterario e storico.

7 Giosuè Carducci, Storia del Giorno di Giuseppe Parini, Bologna, Zanichelli, 1892, pagina 47. Ed ancora Opere, volume XIV, Bologna, Zanichelli, 1907, pagina 44.

8 Lucca, Venturini, 1720. Fu stampata con aggiunte sedici anni dopo.

9 A. Neri, Costumanze e sollazzi, Genova, Tipografia Sordomuti, 1883. Vedere il capitolo su I cicisbei a Genova.

(ottobre 2012)

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