Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana
Alcune vicende dei Cavalieri di Santo Stefano, braccio armato della dinastia Medici a Firenze

Gli Inghirami erano originari della Bassa Sassonia e giunsero in Italia ai tempi di Ottone I.[1] Si stabilirono a Volterra ed annoverarono numerosi personaggi illustri nella loro Casata. La storia di tale famiglia si intrecciò inesorabilmente con le vicende di Volterra al punto da non poter scindere gli avvenimenti della cittadina toscana da quelli della celebre famiglia.[2]

Iacopo Inghirami ivi nacque nel 1565, «tra le colline ed i boschi»,[3] ed entrò a far parte della Milizia stefaniana non ancora sedicenne; frequentò il corso triennale di addestramento che si svolgeva presso il Palazzo della Carovana di Pisa. Il Volterriano iniziò giovanissimo a navigare nelle galere sulle quali sventolava la bandiera con la croce rossa a otto punte, vessillo dell’Ordine, fino ad assumere, nel 1590, il suo primo comando di uno di questi legni, seppur interinalmente.

Molto ambito nella Toscana di quel periodo era entrare a far parte del Sacro Militare Ordine dei cavalieri di Santo Stefano Papa e martire, voluto dall’allora Duca di Firenze e Siena Cosimo I de’ Medici. Scopo dell’Ordine, oltre al voler far emergere lo Stato Granducale sopra gli altri Stati esistenti nella Penisola Italiana, anche dare alla nuova Milizia, come ruolo militare, il contenimento della pressione islamica nel Mediterraneo.

L’Ordine, istituito il 1° ottobre 1561, i cui statuti furono redatti ispirandosi per buona parte a quelli gerosolimitani, dovette il proprio nome al fatto che Santo Stefano era patrono del 2 agosto, giorno nel quale le truppe di Casa Medici avevano battuto, nel 1537, i fuoriusciti fiorentini a Montemurlo e nel 1554 i soldati di Piero Strozzi a Scannagallo.[4]

Iacopo Inghirami, rimasto orfano di entrambi i genitori in tenera età, si dedicò agli studi umanistici e alla musica. Volendo abbracciare la carriera militare, egli decise di entrare a far parte dell’Ordine di Santo Stefano «come precedentemente avevano fatto i suoi due cugini e concittadini Fabrizio e Antonio di Gabriello Incontri». Questi ultimi erano figli di una sorella del padre di Iacopo e avevano vestito l’abito di cavaliere milite a Pisa rispettivamente per mano del conte Clemente Pietra, il 13 maggio 1563, e per mano del conte Piero Campegna, gran contestabile dell’Ordine, il 21 maggio 1578.

Non possiamo non fare qualche osservazione, trattando di questi cavalieri, sulle navi del periodo, che videro il nostro protagonista indiscusso. Tra queste navi annoveriamo il Galeone, di derivazione atlantica, probabilmente dalla Caravella; il Bertone, grossa nave da carico, i cui primi esemplari furono costruiti in Bretagna o in Inghilterra. Gli islamici al posto del Bertone utilizzavano il Camussale, simile al Bertone.

Il Garbo e il Caicco erano viceversa due velieri molto più piccoli dei precedenti, impiegati per la navigazione costiera, particolarmente in Levante e in Africa Settentrionale.

La Marina stefaniana utilizzava però prioritariamente la Galera, un tipo di bastimento che poteva arrivare a una lunghezza di cinquantacinque metri ed una larghezza intorno ai sei, dimensioni che davano allo scafo una forma snella e che ne esaltavano la velocità e la manovrabilità.

Inghirami, come tutti i cavalieri militi, iniziò il tirocinio «nella Religione di Santo Stefano» presso il Palazzo della Carovana o dei Cavalieri a Pisa, attualmente sede della Scuola Normale Superiore che, insieme alla chiesa dei Cavalieri, il Palazzo Conventuale, il Palazzo dei Dodici e a quello dell’Orologio costituiva il convento dell’Ordine.

Cosimo I, nel creare questa organizzazione, volle che i suoi membri ricevessero una valida istruzione teorica e pratica sia in campo marittimo che terrestre, in modo da discostarsi dal vecchio sistema di gestione della Marina da Guerra Toscana, che aveva visto ai suoi vertici quasi sempre persone poco preparate professionalmente.

Inghirami, dopo aver partecipato all’investitura del nuovo Gran Maestro, nella primavera del 1590 si imbarcò sopra la San Giovanni per compiere una crociera insieme alle altre galere rossocrociate e a quelle genovesi. Rientrate a Livorno, le unità stefaniane ebbero appena il tempo di rifornirsi di viveri ed effettuare alcuni sommari lavori, che dovettero riprendere il mare insieme alle galere maltesi per compiere una lunga crociera in Levante. Tale crociera durò dal 3 aprile al 22 luglio 1590, nel corso della quale vennero catturati quattro caramussali islamici.

Nel frattempo Inghirami era stato nominato comandante di una compagnia di fanteria imbarcata e, dopo aver partecipato ad una crociera svoltasi fra la metà di settembre e la metà di ottobre, il Volterriano ebbe anche il comando interinale della galera San Giovanni.

Egli si distinse nelle operazioni francesi presso l’isola d’If, di fronte a Marsiglia, al punto che il Granduca lo scelse fra i vari comandanti di galera che aveva a disposizione, esonerandolo da altri incarichi che gli sarebbero spettati come capitano di un’unità dell’Ordine di Santo Stefano. La fortezza d’If era stata consegnata nel 1591 dal suo castellano a Ferdinando I, per evitare che cadesse nelle mani dei protestanti, ma con l’intesa che sarebbe stata riconsegnata alla Francia dopo l’abiura di Enrico IV e la conseguente sua ascesa al trono.[5]

Il possesso di quest’isola, che aveva un grosso valore strategico, e l’incarico assunto perciò da Inghirami, conferma la sua progressiva scalata nell’Ordine.

Le operazioni presso l’isola d’If continuarono per diverso tempo e, dopo aspri combattimenti, calò la tensione perché i Francesi non ritennero onorevole servirsi ancora di musulmani (cosa che fecero in altre circostanze) contro i Toscani.

Nel dicembre 1597, poiché alcuni bastimenti corsari continuavano ad incrociare nelle acque di fronte alla Toscana, il Granduca dette ordine al Generale di uscire in mare con la «Capitana» e la Santa Cristina, mentre Inghirami rimase a Livorno perché gravemente ammalato.

Poiché il già celebre capitano volterriano alloggiava in un’osteria, il governatore della città labronica, Martelli, ritenendo che lì non potesse ricevere un’assistenza sanitaria adeguata, lo fece trasferire nel convento di San Giovanni, dove il priore era suo amico e compaesano.

Nonostante le attenzioni ricevute in convento, il nostro non accennò a guarire, cosicché ad assisterlo vennero alcuni suoi parenti da Volterra; dopo alcuni giorni le sue condizioni di salute migliorarono, ma verso il 19 dicembre ebbe una ricaduta, per cui il nostro ottenne dal Granduca l’autorizzazione a recarsi a Pisa per poter ricevere cure più appropriate, rimettendosi presto definitivamente in salute.

Il periodo vide per i Toscani la necessità di non effettuare battaglie campali, cui non erano preparati. Viceversa furono magistrali nell’attaccare cittadine e fortezze, situate lungo le coste dell’Egeo, dell’Africa Settentrionale, della Penisola Anatolica; per queste operazioni dovevano adottare una tattica del tipo «attacca e fuggi».

Siamo nel periodo delle guerre di religione in Francia e i cavalieri di Santo Stefano non potevano impegnarsi con le loro sole forze in una vera e propria battaglia per lungo tempo, assediando l’abitato o la piazzaforte avversaria, come spesso avveniva di fatto durante queste guerre. L’unica valida tattica che le truppe Granducali poterono impiegare fu quindi quella dell’attacco a sorpresa, da effettuarsi utilizzando, per «penetrare all’interno dei loro obiettivi», i petardi e le scale; strumenti questi non troppo ingombranti e facilmente imbarcabili a bordo delle galere.

In tale tipo di operazioni Inghirami fu maestro. Sapeva, dopo aver preso più prigionieri e più bottino possibile, reimbarcarsi velocemente, per evitare che dalle zone limitrofe ai combattimenti potessero arrivare dei reparti capaci di agganciare ed obbligare i suoi ad una battaglia campale. Infatti da questo tipo di combattimento le truppe del Granduca difficilmente sarebbero potute uscire vincitrici; in ogni caso avrebbero subito un numero di perdite in uomini e materiali tale da rendere le varie operazioni del tutto inopportune sul piano economico.

In uno di questi combattimenti, in Barberia, ad Oriente di Algeri, All Kholl, Iacopo Inghirami fu ferito per la prima volta nel 1599. Egli però non si arrese e, saputo quanto stava accadendo in direzione Capo Bon, nonostante la gravità della ferita subita ad All Kholl, volle salire in coperta per rendersi conto di persona di come veniva condotta l’operazione per la cattura della galeotta avversaria. Già in queste prime sue missioni dimostrò carattere e forza d’animo.

Nel settembre del 1600 a Firenze fervevano i preparativi per lo sposalizio di Maria de’ Medici, figlia del defunto Francesco I, con il Re di Francia Enrico IV, dopo che il Vaticano aveva concesso lo scioglimento del matrimonio del Monarca d’oltralpe con Margherita di Valois, nel 1572. «Questa nuova unione coniugale faceva parte delle manovre in politica estera volute da Ferdinando, zio della sposa, nel quadro dell’avvicinamento del suo Stato alla Francia, matrimonio visto come utile approccio per le future relazioni fra i due Paesi».[6]

Iacopo Inghirami fece parte dell’equipaggio che salpò da Livorno il 4 settembre 1600 con la «Capitana», la Bascià e la Livornina, facendo rotta per la Provenza, per fornire la scorta alla galera francese che avrebbe condotto nel Granducato il cavaliere Bellegarde, grande scudiere di Enrico IV, al quale il Sovrano d’oltralpe aveva concesso la procura per sposare la nipote di Ferdinando I.

Dopo l’uccisione del Generale Calefati nel 1601, il Granduca individuò in Cosimo Angelini, Iacopo Inghirami e Leonardo Pitti i tre migliori capitani di galera al momento in servizio.

Nonostante la carriera in ascesa, il nostro si oppose al Granduca nel 1603 perché questi, dopo avergli affidato una squadra, pensava di sostituirlo con altri. Inghirami tese quindi a difendere con frasi poco opportune la posizione raggiunta, sapendo poi fare ammenda con un atto di sottomissione al Granduca, che gli permise di ottenere una commenda di Grazia.

La sua ascesa dunque non si fermò e, dopo il decesso di Cosimo Angelini, egli fu nominato vice-Ammiraglio dell’Ordine, nel 1604.

Nella opposizione al Granduca ebbe modo, in ogni caso, di dimostrare un carattere fermo e al tempo stesso, per quanto oppositivo, fedele al ruolo ricoperto.

Tale carattere tuttavia gli procurò in seguito, proprio alla fine di quel 1604, un duello col capitano di fanteria Girolamo Pascucci.

Sarà la vittoria di Prèvesa del 1605, a porlo davvero in luce per la nomina ad Ammiraglio della squadra rossocrociata.

Prèvesa fu anche per il Granducato una sorta di trampolino di lancio verso possibili scenari internazionali, che promettevano una crescita del peso politico dello Stato Toscano. Le aspirazioni della famiglia Medici erano infatti, in quel periodo, piuttosto sostenute.

Nel corso di una riunione tenutasi nella capitale del Granducato Ferdinando I informò i suoi collaboratori, subito dopo le vicende di Prèvesa, che aveva intenzione di mandare le galere stefaniane addirittura nel Mediterraneo Orientale, per cercare questa volta di catturare altri bastimenti islamici ma soprattutto per tentare una nuova operazione anfibia.

L’obiettivo terrestre sarebbe stato ancor più lontano della fortezza conquistata dai rossocrociati il 3 maggio precedente, in quanto il Granduca era intenzionato ad attaccare la cittadina di Setalia, oggi Adalia, nell’omonimo golfo, situato nella parte meridionale della Penisola Anatolica.

Il 20 agosto di quell’anno il Sovrano, per garantirsi la fedeltà delle truppe, «forse memore del tentativo di saccheggio effettuato dai soldati e dai marinai della galera pisana comandata da Vanni Aragona Appiano ai danni di un bastimento ellenico», ribadì ulteriormente il divieto per gli uomini imbarcati sulle unità stefaniane di salire a bordo delle navi fermate, che non avessero combattuto.

Egli voleva infatti evitare che costoro potessero arricchirsi alle spalle dei colleghi e della Corte, per poi lasciare il servizio ed allontanarsi da Livorno, obbligando così il Granduca a reclutare nuovo personale che di solito non aveva l’esperienza di quello che se ne era andato.[7]

Questa volta i labronici non ottennero il successo precedente. Tuttavia Inghirami seppe evitare le truppe musulmane che rappresentarono per i cavalieri toscani grande motivo d’apprensione nelle operazioni.

La sera del 23 settembre la sorte tornò benigna ai velieri rossocrociati i quali, dopo aver pattugliato ancora per qualche giorno le acque del Mediterraneo Orientale, rientrarono nel porto labronico. Ciò soprattutto fece l’Inghirami, considerato che il numero dei suoi uomini si era progressivamente ridotto a causa delle perdite subite durante i combattimenti. Ma anche per equipaggiare i legni catturati.

Stiamo parlando sì, con i Cavalieri di Santo Stefano, di un Ordine ufficialmente riconosciuto dal suo Sovrano, ma che di fatto, come accadeva anche per altri Ordini in altri Stati, esercitava una sorta di «pirateria internazionale».

Tale pirateria era ampiamente utilizzata nel Mediterraneo, con una tacita condivisione dei vari Stati, in via «ufficiosa».

Questi velieri solcavano il mare per prevenire conflitti armati; in realtà spesso li provocavano, allo scopo di arricchire il proprio Stato e procurare nel contempo un indebolimento di altri Stati.

Il loro dunque era insieme un ufficio strategico politico ed economico, volto in quest’ultimo caso ad un vero e proprio appropriamento di beni, con pura finalità di arricchimento dello Stato mandatario. Spesso la fedeltà delle truppe era discutibile, da qui il bisogno del Granduca di mettere in chiaro i doveri degli imbarcati.

Lo stesso Inghirami, per quanto fosse fedele servitore del Granduca, voleva essenzialmente mettere se stesso in bella mostra, e, per ottenere ciò, andava oltre i suoi doveri di ufficiale, mettendo magari a repentaglio posizioni acquisite, là dove l’interesse specifico dello Stato avrebbe richiesto qualche volta un passo indietro. Da qui le diatribe col Granduca, che si ripeterono nuovamente in quel 1605, sanate quando il Sovrano Toscano potette verificare che l’Ammiraglio si era mostrato tanto fedele al punto da reimbarcarsi nuovamente, benché malato, e spingersi in Corsica e Sardegna, allo scopo d’intercettare dei legni islamici.

Inghirami rientrò infatti a Livorno solo il 20 novembre di quell’anno. In seguito a tale malattia, fortunatamente poi risoltasi, il nostro redasse il suo primo testamento.

Lo stile di vita condotto da questi marinai era certamente spartano, tipico dei «Capitani di Ventura», pronti ad ogni evenienza, sempre a caccia di velieri nemici, come quando l’Inghirami «invece della sola operazione anfibia pianificata contro Avas, si spinse di propria iniziativa ad attaccare anche Anamur e Finike».[8]

Facendo sfoggio di abilità, l’Inghirami seppe valorizzare non solo se stesso ma anche lo Stato Granducale.

Celebre la sua caccia alla «padrona» di Biserta, quando incorse nell’ennesimo ferimento.[9]

Il Granduca aveva pianificato nel 1607 la conquista di Famagosta, nell’isola di Cipro. Per preparare questa grossa operazione Ferdinando I fece arruolare truppe anche in Francia e nei Paesi Bassi, e riuscì ad ottenere dal Re di Spagna Filippo III il permesso, nel caso fosse riuscita la conquista di Famagosta, di assoldare truppe anche nel Regno di Napoli e di Sicilia per poter procedere all’occupazione dell’intera Cipro.

Queste ambizioni militari nascevano da un più generale bisogno di tutelare il Mediterraneo, nonostante ormai ivi la supremazia, dopo il 1571,[10] fosse ufficialmente delle potenze europee. Dobbiamo infatti immaginare quanto risultasse indispensabile per questi Sovrani non perdere mai di vista la possibilità di un rigurgito islamico, anche se non risolutivo, pur tuttavia lesivo degli interessi sul campo dei vari Stati Mediterranei.

Questa volta, come in altre circostanze, le operazioni previste dettero il là ad una completa conquista come quella preventivata, ma non data per scontata. Segno che il pericolo non era del tutto cessato e che le varie divisioni interne al mondo cristiano rischiavano di non perorare la causa delle potenze occidentali.

Iacopo Inghirami, oramai Ammiraglio, venne riconfermato nella carica nel 1608. Quell’anno, il 24 di ottobre, a Firenze il Capitolo Generale si riunì per eleggere le massime cariche dell’Ordine per il successivo triennio e nell’occasione «confluirono nella capitale del Granducato circa trecento cavalieri rossocrociati, anche perché nello stesso periodo si tennero i festeggiamenti per il matrimonio di Cosimo, figlio di Ferdinando I, con l’arciduchessa Maria Maddalena d’Asburgo».[11] Nulla da temere dunque per l’ormai affermato ufficiale volterriano, a riprova della grande stima goduta presso la Casa regnante.

Il 7 febbraio 1609 Ferdinando I morì, lasciando il trono al figlio diciannovenne Cosimo II, «che vestì l’abito di Gran Maestro dell’Ordine di Santo Stefano nel Duomo di Firenze il 15 febbraio successivo».[12]

Inghirami in quel periodo si recò nella capitale per partecipare ai funerali del defunto Monarca dal quale era stato tanto stimato e per assistere all’investitura del suo erede. Approfittò della permanenza in città per ricevere dalla Corte ulteriori disposizioni, al fine di recarsi con due galere in Spagna a ritirare 100.000 scudi. Uno dei ruoli essenziali delle navi labroniche era anche quello di esattori e di fiduciari della Corte.

Con il nuovo Sovrano Inghirami instaurò buoni rapporti. L’Ammiraglio Volterriano, in particolare nel corso del 1612, compilò un registro dal titolo Nota di diverse sorprese da farsi di piazze nemiche della Sacra Religione di Santo Stefano per S. a. S. – 1612. In esso erano riportate le informazioni che l’Ammiraglio aveva raccolto «da piloti, marinai, mercanti, prigionieri circa città, villaggi, porti e fortezze situate lungo le coste musulmane del Mediterraneo, dello Ionio, dell’Adriatico e dell’Egeo».

Queste relazioni erano corredate da schizzi topografici e trascritte allo scopo di avere notizie dettagliate sulla dislocazione e consistenza delle difese, sulle rotte di accesso e vie di fuga esistenti nelle località considerate, per poter pianificare con successo le incursioni che la squadra dell’Ordine avrebbe potuto compiere.

In quel periodo il Granduca Cosimo II suggerì ad Inghirami di usare una nave appena varata secondo il progetto dell’Inglese Robert Dudley.

Gli Inglesi avevano nel Mediterraneo un ruolo niente affatto marginale e, quale popolo di navigatori, erano all’avanguardia anche nei progetti ingegneristici.

Robert Dudley, che era nato nel 1574 a Shene Richmond in Inghilterra ed era figlio del duca di Leicester, grande favorito della Regina Elisabetta I, fu avviato da giovane allo studio delle arti marittime, delle armi e dell’ingegneria navale. Aveva avuto modo di partecipare a diverse spedizioni nell’America Meridionale dopodiché, intorno al 1605, arrivò in Toscana e si mise al servizio dei Medici. Il singolare personaggio, che aveva nello stesso tempo le caratteristiche di avventuriero, uomo di cultura ed inventore, conquistò la fiducia dei Granduchi, che gli permisero di continuare i suoi studi e di realizzare così nuovi bastimenti da lui progettati.[13] Ciò a conferma delle variegate relazioni cui anche un personaggio come Iacopo Inghirami si trovò a gestire. Del resto il Volterriano riconobbe i meriti delle navi progettate dal Dudley, che gli permisero crociere fortunate nel 1613, in particolare quella culminata con la presa di Agliman.[14]

Dopo una quarta rielezione ad Ammiraglio, nel 1614 avvenne un episodio in Messina, episodio che rientrava nel novero della casistica dell’epoca, di cui anche Inghirami fu protagonista.

Un alfiere spagnolo di una compagnia di fanteria napoletana (in Messina si erano radunate le navi dei diversi membri della coalizione che in quel momento voleva contrastare gli islamici) sfidò a duello il cavaliere di Santo Stefano Ferdinando Suarez.

Quest’ultimo riuscì ad uccidere l’avversario ma, nonostante non fosse stato lui il primo a sguainare la spada, se fosse stato arrestato, avrebbe pagato assai caro il suo gesto. Suarez fu così costretto a rifugiarsi in un convento di frati, dove si cambiò i vestiti per non essere riconosciuto e l’Ammiraglio Volterriano, quando venne informato dell’accaduto, ritenne valido il comportamento del cavaliere rossocrociato; pertanto decise di aiutarlo.

Inghirami mandò quindi la feluca della «Capitana» in gran segreto a prendere a terra Suarez e poi lo fece accompagnare in Calabria, da dove il nobile con i propri mezzi riuscì a rientrare in Toscana.[15]

A seguito della successiva «caccia al Toscano» che si profilò, Inghirami fece reimbarcare tutti i suoi uomini, consegnandoli a bordo dei propri bastimenti. Egli poi, giovandosi degli attriti nati fra il responsabile dell’Armata e il Vicerè di Sicilia, si dette da fare per far rilasciare anche gli altri membri dell’equipaggio della «Padrona» di Santo Stefano che ancora si trovavano in carcere, tanto più che era ben evidente quanto all’interno della formazione navale cattolica venissero usati diversi tipi di giudizio, in base alla nazionalità dei militari inquisiti.

L’unico Spagnolo che fu giustiziato, quasi una settimana dopo l’incidente, fu quello che uccise il soldato tedesco che militava in una compagnia toscana. Inghirami, conducendo trattative con le autorità locali e sborsando parecchio denaro, potette farsi consegnare l’alfiere Arrigo Monticchier e poi gli altri tre Toscani ancora detenuti.

Il 1° ottobre egli ebbe l’ordine di salpare da Messina, facendo rotta per la Toscana. Per l’occasione come prima cosa fece togliere i ferri al comandante ed alla sentinella, mentre neppure per un istante pensò di punire il luogotenente della «Padrona».

Nel 1616, volendo premiare in maniera tangibile Inghirami, Cosimo II decise di nominarlo marchese di Montegiovi, un luogo a Nord-Ovest del Monte Amiata, e priore di Borgo San Sepolcro.

Compiuti in fretta i preparativi per intercettare il complesso navale bisertino, la mattina del 16 giugno 1616 il nostro salpò da Livorno facendo rotta per le Bocche di Bonifacio, dove furono intercettati dei legni islamici. Era diverso tempo che ciò più non accadeva. La spedizione ebbe esito positivo però, viste le condizioni meteorologiche peggiorate, le unità navali labroniche furono costrette a rifugiarsi dapprima all’Isola Rossa, poi a Bonifacio.

Le condizioni meteorologiche, i venti, le stagioni, molto condizionavano la navigazione; ed anche in quel caso non si fece eccezione.

Durante la permanenza a Volterra, ed anche dopo il suo ritorno a Livorno, il 16 marzo 1617, l’Ammiraglio si dette da fare affinché il nipote Cesio, figlio di Giovanni di Agostino, fratello di Iacopo, entrasse a far parte dei Cavalieri di Malta, avendo saputo di una contestazione che era stata fatta alla sua famiglia sui quarti di nobiltà necessari per l’accesso a quell’Ordine. Anche in questo caso egli dimostrò il suo solito carattere deciso e battagliero.

Nello stesso mese di marzo il comandante ebbe contatti con Galileo Galilei, che suggeriva l’uso del cannocchiale sulle navi da guerra. Nel trattare con il celebre Pisano Inghirami si mostrò favorevole ai vantaggi che lo strumento avrebbe offerto durante la navigazione.

Inghirami comprese la grandezza del mezzo, che avrebbe consentito in anticipo di conoscere la nazionalità, il tipo e lo schieramento dei legni incontrati, nonché la possibilità di decidere cosa fosse più conveniente per ingaggiare una battaglia.

Galilei già nell’agosto del 1609 aveva scritto a Leonardo Donato, all’epoca Doge di Venezia, una lettera nella quale indicava come fosse opportuno servirsi del cannocchiale a bordo di navi.[16] L’apparecchio costruito da Galilei, e da lui chiamato «celata», «celatone» o «tastiera», sembra che fosse formato da un elmo, probabilmente in ottone, al quale era applicato un cannocchiale e l’intero congegno era costruito in modo da essere aggiustato in base alla testa e agli occhi dell’utilizzatore. Costui avrebbe dovuto scrutare l’orizzonte con l’occhio libero e al momento in cui avesse creduto di scorgere qualcosa si sarebbe servito dell’occhio che si trovava contro il telescopio per identificare l’oggetto avvistato. Cosimo II, ritenendo conveniente dare il celatone in dotazione alle vedette delle galere stefaniane, permise a Galilei di condurre una serie di esperimenti nel porto di Livorno.

Il momento culminante della carriera di Iacopo Inghirami fu la sua nomina a governatore di giustizia del presidio della città e del porto labronico, il 2 novembre 1618. Le istruzioni consegnate al Volterriano per il suo nuovo incarico, oltre al preambolo, si componevano di ventitré commi, il primo dei quali riguardava la continua vigilanza che occorreva fare per evitare che nella città portuale prendessero piede le sette protestanti, a causa della presenza di numerosi marinai e mercanti dell’Europa Settentrionale. Anzi, era auspicabile che, se ci fosse stata qualche persona di fede non cattolica, qui si cercasse di convertirla alla religione della Chiesa Romana.[17]

In via ufficiale il 3 febbraio 1618 il nostro a Pisa fu nominato governatore di Livorno dal segretario del Granduca, Andrea Cioli.

Una grave malattia lo colse poi, nel 1621, quando egli decise di redigere un nuovo testamento. Una volta guarito, pose delle condizioni precise per ritornare a guidare le galere rossocrociate, fra le quali l’aumento di grado. Fu così che venne nominato Generale della squadra.

Le successive campagne del 1622, contrassegnate dalla peste che si era diffusa in varie località dell’Egeo e del Mediterraneo Orientale, non furono meno ardimentose delle precedenti, a conferma della professionalità ormai acquisita dal Volterriano.

L’ultima crociata del Generale avvenne nel 1623 nell’Egeo. Egli infatti si ammalò l’anno successivo e, una volta diagnosticategli le febbri terzane, la sua salute peggiorò, a tal punto da spirare, nella sua città, il 3 gennaio 1625.

La sua vita è segnata, sul piano militare, dall’epoca in cui egli operò. L’autore di un libro[18] che si ispira alla vicenda umana del Volterriano, lo storico Marco Gemignani, bene illustra le sue imprese ed evidenzia come potrebbe essere opportuno, per la nostra Marina, ricordare un personaggio che fece epoca, al pari di altri celebrati e non altrettanto famosi in vita. Questa volontà, perseguita negli anni Venti del XX secolo[19] senza successo, potrebbe nuovamente venir suggerita e ripresa.


Note

1 C. Inghirami, Ethruscarum antiquitatum fragmenta, Francofurti, WW, 1637, p.n.n. Ottone I di Sassonia fu incoronato Imperatore il 2 febbraio 962.

2 Annoveriamo alcuni tra gli illustri predecessori di Iacopo Inghirami: Giovanni, che visse nella prima metà del XIII secolo e partecipò ad una spedizione di Federico II, il 3 maggio 1241, per intercettare i legni liguri di Papa Gregorio IX, e riuscì ad avvistare la flotta genovese nelle vicinanze dell’isola del Giglio.
Paolo Inghirami, fu deputato nel 1368 a riformare le leggi volterriane, Iacopo, suo diretto discendente, fu gonfaloniere di Volterra nel 1396 e podestà di Pomarance nel 1425, altro celebre Paolo fu sostenuto da Lorenzo il Magnifico che aveva mire espansionistiche su Volterra; ed ancora un Iacopo e Tommaso Inghirami furono alla fine del Quattrocento canonici del Duomo di Volterra.

3 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996.

4 Cosimo I, riguardo alla compilazione degli statuti stefaniani, si limitò a scrivere una «nota et summario de Capitoli per fondamento della Religione» spedita a Francesco Vinta da Livorno il 6 novembre 1561, confronta ivi, Miscellanea Medicea 347, ins. 18.

5 F. Diaz, Il Granducato di Toscana, I Medici, pagina 286.

6 F. Diaz, Il Granducato di Toscana, I Medici, pagine 288-289.

7 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 126.

8 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 139.

9 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 139.

10 Battaglia di Lepanto.

11 Archivio di Stato di Pisa, Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano 137, ins. 38, cc.n.nn.

12 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 187.

13 W. Martigli, Sir Robert Dudley e l’arsenale di Livorno, in «Quaderni Stefaniani», III (1984), pagine 91-98.

14 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 234.

15 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 255.

16 Le opere di Galileo Galilei, a cura di I. Del Lungo – A. Favaro, X, Firenze, Barbera, 1905, pagina 250.

17 Solamente agli Ebrei era permesso di vivere secondo la propria confessione, confronta L. Cantini, Legislazione toscana, XIV, Firenze, Albizzini, 1804, pagine 10-22.

18 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996.

19 Marco Gemignani, Il cavaliere Iacopo Inghirami al servizio dei Granduchi di Toscana, Pisa, edizioni ETS 1996, pagina 329, nota numero 3.

(dicembre 2012)

Tag: Elena Pierotti, Granducato di Toscana, Iacopo Inghirami, Seicento, Italia, Cosimo I, Cavalieri di Santo Stefano, dinastia Medici, Firenze.