L’Inquisizione in alcuni territori estensi, con particolare riferimento alla Garfagnana
Documenti tratti dall’Archivio Modenese della Santa Inquisizione che, con quello Veneziano, costituisce l’unico esempio in Italia di non appartenenza ad Istituti religiosi

Dopo aver letto il libro Ursolina la Rossa ed altre storie, con protagonista l’Inquisitore Modenese, cui ho dedicato recentemente un breve articolo, ho voluto esaminare alcuni documenti che sul piano giuridico approfondiscono i temi presenti nel testo.

Il materiale documentario prodotto dall’Ufficio dell’Inquisizione di Modena, cui faccio riferimento, e conservato oggi presso tale Archivio Statale[1], è unico nel suo genere con quello Veneziano per la sua relativa integrità, tra quelli esistenti in Italia presso Istituti non religiosi[2]. È perciò possibile tentare, grazie a questi documenti, un quadro d’insieme di quelle che furono le dinamiche inquisitoriali tra il 1600 ed il 1650, in contesti all’epoca dei fatti particolarmente monitorati, vista la loro esclusiva conformazione politica,[3] poi pressoché dimenticati.

La storia minuta, quotidiana, talvolta trascurata, viene messa in luce dalle più recenti tendenze storiografiche ai fini del riconoscimento della «grande» storia. È in questa prospettiva che viene riconosciuta alle stesse risultanti degli atti processuali medesimi grandissimo valore di testimonianza diretta: mi propongo, in modo sintetico, di connotare il quadro giuridico di riferimento, allo scopo di entrare, quasi in punta di piedi, in situazioni complesse e decisive per il periodo.

L’attività inquisitoriale a Modena non ha praticamente se non una limitatissima eco documentaria fino all’inizio del Cinquecento, per il quale secolo il materiale non è ancora copiosissimo perché è solo nei due secoli successivi che la produzione di atti processuali aumenta notevolmente.

L’ufficio di Modena, al pari di altri analoghi, svolgeva, in conformità delle proprie funzioni – di salvaguardia dell’integrità della Fede – un duplice ordine di attività, vale a dire quella giudiziaria, del tribunale vero e proprio, e quelle censorie, relative al controllo della stampa, in particolare dei libri. I due ordini si fondevano quando si verificava una violazione in materia e si identificavano i responsabili. Ciò perché nel 1598, con la Devoluzione di Ferrara alla Santa Sede, Modena diventò Capitale degli Stati Estensi[4] e sede, di conseguenza, di un proprio Inquisitore Generale. È una nota del 1665, in calce all’Inventario delle robbe del Sant’Ufficio dell’Inquisizione di Modona del 1600 che delinea la nuova situazione venutasi a creare col passaggio della Sede principale del Sant’uffizio da Ferrara a Modena, conseguenza dell’Atto di Devoluzione citato.

«Con occasione che dalla felice memoria di Clemente VIII furono presi il possesso della città di Ferrara e fatte tre Inquisizioni: quella di Ferrara, quella di Reggio e quella di Modana. A Modana furono sottoposte l’insigne Abbazia di Nonantola, la città di Carpi e quella parte della Garfagnana che in temporale è soggetta alli Signori duchi di Modana et in spirituale parte al Vescovato di Lucha et parte a quello di Sarzana».[5]

Due eccezioni queste, Carpi[6] e Garfagnana,[7] con peculiari specificità; la loro disamina, della Garfagnana in specifico, rappresenta valido supporto nello studio della procedura inquisitoriale e per la comprensione dell’organizzazione territoriale del Sant’Uffizio.

La nuova sistemazione di tali territori in merito alla Santa Inquisizione non si concretizzò così prontamente e pacificamente; molti furono i ritardi e le reazioni di rigetto.

In Garfagnana Cesare d’Este aveva in quel tempo conti aperti con i Lucchesi, che sfociarono in una guerra nel 1602 e poi, di nuovo, nel 1613. In una lettera del 29 settembre 1601 l’Inquisitore Generale in carica a Modena fece presente alla Sacra Congregazione di Roma che, a dispetto dell’avvenuta tripartizione, la Provincia della Garfagnana non fu consegnata né a questa né a quella Inquisizione, «per il che al presente non riconosce Inquisizione alcuna». Il riferimento è rivolto ad indicare il periodo di transizione che anticipò gli eventi di seguito descritti.

Una volta che ci fu effettivo riconoscimento della nuova giurisdizione, ogni processo inquisitoriale iniziò ad aprirsi, di norma, a Modena, davanti all’Inquisitore Generale o, in caso d’assenza o vacanza, al suo Vicario, a sua volta vicario dell’Organo di Vertice, vale a dire la Sacra Congregazione Romana Cardinalizia del Sant’Uffizio.

Con questa l’Inquisitore e/o Vicario si manteneva in costante rapporto di consultazione con il territorio. Ogni denuncia poteva appartenere ad una terza persona venuta a conoscenza del fatto delittuoso o su spontanea comparizione. In quest’ultimo caso si trattava di procedimenti per autodenuncia.

In ogni caso spesso, il tutto avveniva dietro sollecitazione del confessore o, d’ufficio, in seguito a trasmissione di atti da parte di vicari foranei. Oppure a voci o a istanze pervenute per diverse vie al Tribunale. Il processo si svolgeva in una o più sedute, in varie fasi, ciascuna delle quali eventualmente conclusiva, con l’interrogatorio dei testi e dell’imputato.

La verbalizzazione portava quasi sempre il segno di croce anziché una vera e propria firma, visto che quasi esclusivamente persone del popolo cadevano sotto la scure dell’Inquisizione. Seguiva l’eventuale carcerazione e/o applicazione all’inquisito stesso, sentito «parere medico», dello strumento giudiziale della tortura, talora anche solo minacciata.

Tale tortura consisteva spesso in tratti di corda alle braccia, o di legnetti – sibioli – stretti alle mani o al piede, o al tallone. In genere la tortura veniva decisa verso la fine del processo, che si chiudeva in ogni caso o con decreto di non luogo a procedere, o di condanna lieve, con semplici penitenze. La sentenza formale di condanna o di assoluzione veniva emessa congiuntamente dall’Inquisitore Generale e dal Vescovo territorialmente competente. Alla Congregazione Romana si rimetteva in ogni caso – quale giudice di appello ed in ultima istanza – ogni definitiva pronuncia sulla qualità e l’entità delle pene inflitte.

Entrando nel dettaglio, queste potevano andare, se prescindiamo dalla pena capitale, dalla assegnazione di oneri spirituali di diverso peso e durata, ad ammende pecuniarie. Tali ammende venivano impartite soprattutto agli Ebrei, in sostituzione di quelle spirituali di difficile applicazione, a causa della diversità di religione.

Non si disdegnavano però fra le pene inflitte l’esilio, con bando temporaneo o perpetuo, la pubblica fustigazione, il carcere secolare o addirittura la condanna «ai remi» per alcuni anni sulle galere.

Attraverso i capi di imputazione nei processi possiamo risalire alla natura dei responsabili. E qui troviamo un’interessante gamma di figure, tutte popolane, con un’eccezione che, da sola, merita di venir approfondita. Ma andiamo per gradi.

In quello specifico territorio estense, montuoso e liminare, i capi di imputazione, nel periodo che va dal 1600 al 1650 furono 109 per bestemmie ereticali; uno per bigamia; cinque per sollecitazione erotica «ad turpia» in confessione; due per illeciti di ecclesiastici; sedici per offese ed intralci al Sant’Uffizio; undici per inosservanza dei precetti della Chiesa; undici per possesso e lettura di libri proibiti, alcuni in relazione a pratiche magiche.[8] La lunga serie dei capi di imputazione previde anche 43 condanne per magia e stregoneria. Come possiamo ben riscontrare da altre numerose pubblicazioni su tale argomento, si trattò di un nutrito numero di sentenze, evidentemente di facile presa sull’opinione pubblica del periodo, tali da incidere profondamente nel tessuto sociale. Sulla stessa lunghezza d’onda furono le 56 sentenze per proposizioni ereticali e le 15 per atti sacrileghi.

In Garfagnana non si sono riscontrate imputazioni per pratiche astrologiche, per rapporti illeciti di o con Ebrei, oppure di questua non autorizzata. Il territorio forse, lo supponiamo, aveva pochi membri appartenenti alla comunità ebraica e un non diffuso legame con le pratiche in oggetto.

Dal dottor Giuseppe Trenti[9] furono presi in esame in specifico quattro processi, conclusisi con sentenza. Tra questi fu applicata la tortura solo a venticinque inquisiti.

Tra le molte figure anonime, e tuttavia assolutamente significative, un personaggio di particolare rilievo domina su tutti: si tratta di un’eccezione, dal momento che davvero esigui erano gli inquisiti provenienti dai ceti abbienti.

Il personaggio in oggetto è il Governatore della Garfagnana Fulvio Testi, succeduto nell’incarico al celebre Ludovico Ariosto. In quel periodo il Testi fu vicino anche a Casa Savoia e ciò venne ricordato due secoli dopo, dal patriota risorgimentale Antonio Panizzi, in una sua opera letteraria. Il Governatore Fulvio Testi rimase in Garfagnana dal 1640 al 1642 ed incorse nell’accusa di proposizioni ereticali, con trasmissione della medesima accusa nel marzo del 1641 dal Vicario Sanzio Corsi all’Inquisitore Modenese, allora il Padre Giacomo Tinti da Lodi.

Ciò tramite lettera in cui si riporta una confidenza fatta dal Capitano di Camporgiano di Garfagnana, secondo il quale il Testi avrebbe affermato «che sia lecito» – sono le esatte parole del testo – «a un principe o altro signore di Governo far ammazzare Chierici di qualsivoglia sorte senza peccato per buon governo, e che così gli aveva detto un teologo».

Questa singolare vicenda non finì con un processo. Lo storico Trenti infatti mette in rilievo che l’accusa nel fascicolo non figura aver avuto conseguenze di sorta.

La lettera, in cui è formulato il particolare caso, partì nondimeno per la sua destinazione con qualcosa di più concreto e di maggiormente gradito, senza dubbio, al destinatario: vale a dire il dono di «un quartuccio di Cappari minuti», specialità del verziere del rettore; piccolo espediente forse anche questo, diretto a mitigare – prendendolo per la gola – la severità degli interventi dell’Inquisitore in quella terra.

Ma chi fu davvero Fulvio Testi per venir sottoposto in ogni caso a simile trattamento? Certamente un patriota della Penisola ante litteram, come Antonio Panizzi due secoli dopo volle sottolineare con una pubblicazione.[10] Personaggio scomodo che, più del precedente Governatore di Castelnuovo,[11] l’altrettanto celebre e scomodo letterato Ludovico Ariosto, fu lì destinato per occupare una posizione ritenuta marginale, cercando così, con l’imbrigliarne l’eclettismo artistico, di mitigare eventuali discordanze con lo stesso che avrebbero potuto nuocere agli interessi della Casata. Entrambi i letterati e uomini di governo, vengono oggi annoverati come due dei principali esponenti della letteratura italiana. Entrambi Spiriti liberi per quei tempi erano finiti in Garfagnana, si suppone per un più agevole controllo della loro attività politica.

Fulvio Testi fu comunque accusato in seguito per tradimento e condannato in via definitiva nel 1642.[12]

La sua produzione poetica, che affrontò temi civili ed ebbe toni solenni, mostrò la passione politica di un uomo fortemente antispagnolo e, quindi, favorevole ai Savoia. Nonostante ciò, nel frangente descritto, l’accusa inquisitoria non ebbe luogo a procedere, segno evidente di come l’Inquisizione fosse un Istituto quasi esclusivamente appannaggio del popolo minuto.

Altre erano infatti le armi con cui i governi e la Chiesa potevano isolare e condannare un personaggio scomodo. Il processo che relegò il Testi in carcere, dove finì i suoi giorni, a Modena, fu giudiziario ma non con sentenza inquisitoriale.


Note

1 Il Fondo – con documentazione dal 1282 al 1785 – si compone di 303 pezzi archivistici, tra cui una busta iniziale di carteggio diverso [1329-1601] , 242 di processi [1489-1784], 8 di cause eccetera. Vedere nota 1 pagina 33 del saggio di Giuseppe Trenti L’Inquisitore in Garfagnana – saggio di una prima ricognizione analitica dei processi dal 1600 al 1699 in La Garfagnana da Modena capitale all’arrivo di Napoleone – Atti del convegno tenuto a Castelnuovo Garfagnana – rocca Ariostesca, 8-9 settembre 2001 – Aedes Muratoriana Modena 2002, pagina 33.

2 Vedere la relazione di Paolo Prodi Foro esterno e Foro interno del diritto canonico e Adriano Prosperi Tribunali della coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi 1996, con particolare riferimento al capitolo XXIII (pagine 476-484).

3 Rimando in questo senso ad un precedente articolo pubblicato su questo sito dal titolo Ursolina la Rossa ed altre storie.

4 L. Chiappini, Gli Estensi (mille anni di storia), Ferrara, Corbo 2001.

5 Archivio di Stato di Modena, Inquisizione ib. 295, f. III, numero 2.

6 Carpi non era compresa nella diocesi di Modena, essendo la città di Carpi retta da Collegiata nella persona di un Arciprete e solo più tardi (1530) inglobata nei domini estensi.

7 La Garfagnana, pur facendo parte «ab antiquo» della diocesi modenese, apparteneva a diocesi che in quel momento storico si trovava soggetta a governo ostile, come la Repubblica di Lucca, vedi C. De Stefani, Storia del comune di Garfagnana, 1925.

8 Si tratta di libri all’Indice e di libri che contengono idee o principi condannabili, talvolta anche di manoscritti.

9 Vedi nota 1.

10 Antonio Panizzi, Le prime vittime di Francesco IV, duca di Modena, notizie di Antonio Panizzi ripubblicate da Giosuè Carducci, Roma, Società editrice Dante Alighieri 1897. La prima edizione del Panizzi risale al 1823.

11 Si tratta di Castelnuovo Garfagnana, il capoluogo.

12 Fulvio Testi è annoverato fra i principali esponenti della letteratura barocca del Seicento. Fu al servizio del duca d’Este a Modena, ricoprendo anche altri incarichi, tra i quali quello di Governatore della Garfagnana. La sua produzione poetica affronta temi civili. Fu antispagnolo, favorevole dunque a Casa Savoia. Accusato di tradimento per aver tentato di stringere relazioni con la corte di Francia, fu rinchiuso in carcere a Modena, dove morì il medesimo anno della condanna.

(agosto 2013)

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