Isole Malvine
Da guerra calda a fredda: una cooperazione difficile ma necessaria

Sono trascorsi 36 anni dallo storico, anacronistico conflitto anglo-argentino del 1982 per la lunga e mai risolta questione delle Isole Malvine (Falkland); e sono passati quasi 10 anni dal «revival» dovuto all’annuncio di un importante programma di prospezioni petrolifere nelle acque atlantiche circostanti, che indusse la ferma presa di posizione di 32 Stati Latino-Americani contro la prepotenza britannica, se non altro in chiave ambientale, con una pronunzia rimasta senza seguito, perché la campagna estrattiva è andata avanti, evidenziando l’esistenza di un nervo scoperto e di una permanente frattura politica nel sistema occidentale.

In questo quadro si è inserita la declaratoria di una Commissione ONU (2016) con cui, pur senza intervenire nel contenzioso «freddo» tuttora presente in tema di sovranità sulle Isole, è stata riconosciuta l’estensione delle acque territoriali argentine in una fascia compresa fra le 200 e le 350 miglia marine, che ingloba le Malvine, con l’acquisizione di una superficie marittima pari a 1,7 milioni di chilometri quadrati.

Alla luce di tale determinazione (per taluni aspetti giuridicamente opinabile in quanto sembra ipotizzare una sorta di «sovrapposizione» tra acque territoriali dell’Argentina e delle stesse Malvine) si è potuto registrare l’avviamento di una politica di cooperazione anglo-argentina sia pure episodica, con particolare riguardo alle ricerche riguardanti i caduti di entrambe le parti, rimasti ignoti se non anche senza tomba, e ad alcune iniziative di sviluppo locale; ma nello stesso tempo, il Governo di Sua Maestà si fece premura di svolgere esercitazioni militari in prossimità delle Isole, a scanso di equivoci e nel chiaro intento di ribadire la propria intransigenza sulla questione della sovranità.

Del resto, già nel 2012, quando l’Argentina aveva richiamato il Regno Unito a rispettare le risoluzioni contro nuovi conati neocolonialisti, parimenti approvate in sede ONU, Londra era scesa sul piede di guerra, sia pure a parole, affermando che avrebbe difeso con ogni mezzo la sovranità sulle «Falkland»: ciò, senza ricordare come 180 anni prima l’appartenenza inglese fosse stata sostanzialmente imposta quando le Isole, già da parecchio tempo, e cioè dal termine della colonizzazione spagnola, erano state oggetto di insediamenti argentini, dapprima ignorati e infine dichiarati ininfluenti da parte britannica.

Si tratta di un’usurpazione storica molto sofferta in Argentina, come dimostrano i cartelli che rivendicano le Malvine, disseminati nell’immenso territorio dal confine brasiliano alla Terra del Fuoco. Tutto ciò, con una credibilità resa più evidente dal fatto incontestabile, come la Presidente Argentina Cristina Kirchner fece notare al suo omologo britannico David Cameron, che la distanza fra la Gran Bretagna e le Isole si ragguaglia a 14.000 chilometri.

Il ricordo del conflitto armato in cui persero tragicamente la vita tanti valorosi soldati, soprattutto argentini, a cominciare dalle centinaia di marinai che si inabissarono con l’incrociatore Belgrano affondato dalle bombe inglesi, costituisce un motivo di forti reminiscenze patriottiche su cui il Governo di Buenos Aires non potrebbe stendere un velo di silenzio che parrebbe certamente colpevole all’opinione pubblica (a differenza – sia consentito ricordarlo – di quanto accade in Italia per il sacrificio dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, sostanzialmente rimosso da buona parte delle coscienze).

D’altro canto, la frequenza con cui da entrambe le parti si continua a porre all’ordine del giorno la questione delle Malvine, e a cui non sono estranei motivi di politica interna se non anche di demagogia populista, la dice lunga sull’importanza degli interessi non soltanto economici che gravitano intorno alle Isole, tanto da affievolire le compassate pronunzie dell’ONU fino a renderle quasi irrilevanti sul piano sostanziale.

Il Governo di Londra, dopo avere confermato la chiamata dei 3.000 abitanti delle «Falkland» alle urne di un referendum sostanzialmente taroccato, non fu alieno, tra l’altro, dal rincarare la dose promuovendo, con apposita delibera adottata dalla Camera dei Comuni, la denominazione di un ampio territorio antartico come «Terra di Elisabetta»: decisione che in Argentina venne vissuta come un fatto ai limiti della provocazione.

La guerra fredda tra il mondo latino-americano, eccezionalmente unito nella questione delle Malvine in cui l’Argentina riscuote l’adesione di «competitori» tradizionali come il Brasile, il Venezuela e lo stesso Cile (nonostante il vecchio contenzioso sullo Stretto di Beagle), e una Gran Bretagna che appare quasi arroccata nel suo splendido isolamento, non deve essere sottovalutata anche se le condizioni politiche e socio-economiche di entrambi i contendenti sono tali da far escludere ogni ipotesi di un nuovo scontro armato che assumerebbe caratteri surreali e che comporterebbe, per entrambe le parti, costi certamente incompatibili con l’attuale congiuntura finanziaria.

Al contrario, anche alla luce dei tentativi di disgelo recentemente avviati fra mille difficoltà, le permanenti contrapposizioni non debbono trascurare l’esigenza di richiamare l’ordine internazionale a una più matura consapevolezza del proprio ruolo e dei propri poteri nell’ambito di una «opinio juris ac necessitatis» finalmente condivisa da tutte le parti in causa (ivi comprese le Organizzazioni sovranazionali), e capace di rendere davvero subalterni gli interessi economici, le pregiudiziali politiche e le prevaricazioni che possano scaturirne.

Oggi le Malvine sono amministrate in un’ottica di autonomia che non si estende agli affari esteri, alla finanza e alla difesa, rigidamente riservati al Governo di Londra, ma ciò corrisponde alle esigenze di un complesso sistema gestionale frequentemente applicato dalle maggiori Potenze nei territori d’oltremare: nella fattispecie, non certo in grado di soddisfare le attese di parte argentina, suffragate, se non altro, dalla geopolitica e dalla storia.

È passato circa un ventennio dalla Conferenza di Monterrey, quando tutti i maggiori Stati del mondo, a cominciare dagli USA, si trovarono concordi nel destinare alla cooperazione una quota del rispettivo prodotto interno lordo, notevolmente superiore alle precedenti incidenze minime. Quell’intesa è rimasta sulla carta, in primo luogo per esigenze di bilancio diffuse dovunque, ma nello stesso tempo per il mancato adeguamento a una scelta etica ancor prima che civile da parte delle grandi Potenze, oggettivamente miopi nel disconoscimento dei solenni impegni che avevano liberamente assunto. Nondimeno, questa non è una buona ragione per accantonare il richiamo a un’esigenza di equità ragionevolmente inderogabile nell’interesse di tutti: non solo in campo finanziario, ma prima ancora quando intervengano, come nel complesso caso anglo-argentino, problemi di sovranità territoriale.

È vero, per dirla con un grande politologo quale Giovanni Sartori, che «l’unica esperienza che dà l’esperienza è che l’esperienza non dà alcuna esperienza», ma è altrettanto vero che in casi come quello delle Malvine errare è stato umano, mentre perseverare nell’errore sarebbe diabolico, ancor prima che politicamente anacronistico.

(settembre 2018)

Tag: Isole Malvine, Falkland Islands, Argentina, Regno Unito, Cristina Kirchner, David Cameron, Governo di Londra, Governo di Buenos Aires, Organizzazione delle Nazioni Unite, questione delle Isole Malvine, Terra del Fuoco, Terra di Elisabetta, Brasile, Venezuela, Cile, Canale di Beagle, Conferenza di Monterrey, Giovanni Sartori, Islas Malvinas, Carlo Cesare Montani.