Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti
Qualche riflessione nel novantesimo anniversario dell’assassinio di stato

Nella notte del 23 agosto 1927, un ciabattino ed un pescivendolo, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che erano emigrati dalle Puglie e dal Piemonte per cercare miglior fortuna negli Stati Uniti, lasciarono la vita sulla sedia elettrica del Massachussets, scontando una condanna a morte pronunziata sette anni prima, e chiudendo nel modo più tragico una lunga tortura giudiziaria e psicologica. Mezzo secolo più tardi, nell’occasione del cinquantenario, il Governatore Michael Dukakis riconobbe ufficialmente che il loro processo era stato iniquo, a cominciare dalle prove fasulle circa la responsabilità dei due Italiani nell’uccisione di un contabile e di una guardia: nondimeno, fu una riabilitazione dimezzata, perché si astenne dal dichiarare «tout court» la loro innocenza, cosa non ancora avvenuta, nonostante gli appelli formulati a più riprese in tal senso.

A distanza di 90 anni da quella tragedia davvero emblematica, la ricorrenza è stata giustamente ricordata, ancora una volta, dalla grande stampa italiana e dagli altri media, che non hanno mancato di rammentare alla pubblica opinione le ragioni reali di quell’orribile assassinio di stato.

Sacco e Vanzetti

Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco in manette, 1923, Boston Public Library, Boston (Stati Uniti d'America)

Sacco e Vanzetti erano due anarchici, diventati tali a seguito delle delusioni avute nello sperimentare dal vivo la realtà economica e sociale della Repubblica stellata, e quel che è peggio erano due Italiani sporchi, brutti e cattivi, se non anche «bastardi» come fu impietosamente affermato da chi ebbe il coraggio di condannarli a morte. Negli Stati Uniti degli anni Venti, la paura del comunismo era giunta al diapason, in seguito alla conquista del potere da parte della rivoluzione bolscevica in Russia, e delle efferatezze che l’avevano accompagnata; senza dire che il rifiuto dell’immigrazione aveva trovato terreno fertile nel peggioramento progressivo delle condizioni economiche, da cui sarebbe scaturita la «grande crisi» di due anni dopo. In questa ottica, non è azzardato dire che Sacco e Vanzetti furono vittime di un’autentica caccia alle streghe.

Ebbero la grave colpa di non essere riusciti a fare fortuna, diversamente da quanto era accaduto a qualche emigrato più abile o più spregiudicato, e di condividere il destino della maggioranza di quanti avevano attraversato l’Oceano alla ricerca di una vita accettabile, che la Patria matrigna non sapeva offrire. Soprattutto, ebbero la colpa ancora più grave di coltivare la fede anarchica, con le sue suggestioni rivoluzionarie, e se vogliamo, con le sue illusioni messianiche.

Gli appelli per salvare la vita ai due condannati, come spesso accade in queste circostanze, si susseguirono numerosi fino all’ultimo. Intervenne ufficialmente anche il Governo Italiano e lo stesso Primo Ministro, Benito Mussolini, si attivò attraverso l’Ambasciata di Washington per non lasciare alcunché d’intentato: era in giuoco la vita di due anarchici, la cui fede non era certamente affine a quella fascista, ma il Duce non poteva dimenticare le sue origini di Sinistra, ed aveva fatto della loro salvezza una questione umanitaria, ma nello stesso tempo, di prestigio nazionale. Tutto fu vano.

Secondo tradizioni già sperimentate sin dall’epoca dei tanti martiri risorgimentali, la stampa non mancò di indulgere alla descrizione dei particolari di rito da offrire alla triste curiosità di certi lettori, come il taglio dei pantaloni del condannato per agevolare l’apposizione degli elettrodi, o la composizione dell’ultimo pasto.

Oggi, quelle tradizioni si sono tristemente ripetute, quale corollario di un quadro politico in cui Sacco e Vanzetti costituiscono le icone di una contestazione nei confronti del sistema giudiziario, e prima ancora, del contesto sociale statunitense, con divagazioni gratuite a carico del nuovo Presidente Trump, e con similitudini altrettanto gratuite ed impertinenti come quelle fra la tragedia umana e civile del 1927 ed i flussi migratori contemporanei, che oltre tutto si distinguono per accoglienza e non certo per ostracismo. È sacrosanto ricordare con animo perturbato e commosso, come avrebbe detto Vico, l’ignobile condanna di Nicola e di Bartolomeo, ma non è possibile condividerne la ricorrente tentazione di strumentalizzarla a fini attuali.

Intendiamoci: la proliferazione delle iniziative per ricordare quella tragedia e soprattutto per informarne un’ampia maggioranza inconsapevole, è cosa certamente commendevole, con specifico riguardo agli studi storici ed alle stesse commemorazioni nei luoghi d’origine. È stato detto non senza fondamento che un popolo senza memoria storica è un popolo senza futuro, ma si deve aggiungere che quella memoria, per essere veramente costruttiva, non può prescindere da un’oggettività politica e scientifica tanto più auspicabile a distanza di quasi un secolo dai fatti.

La condanna a morte di Sacco e Vanzetti costituisce un triste capitolo della storia infinita che vede negli errori giudiziari l’argomento decisivo, sebbene non certo unico, contro la pena di morte. Nondimeno, è bene non dimenticare che quella condanna fu di gran lunga peggio di un errore, perché consapevolmente voluta e pervicacemente perseguita: in altri termini, giova ripeterlo, fu un assassinio di stato, tanto più riprovevole perché compiuto in un’antica democrazia, con tanti saluti ai Padri fondatori ed alle loro Dichiarazioni dei diritti.

(settembre 2017)

Tag: Carlo Cesare Montani, Nicola Sacco, Bartolomeo Vanzetti, Stati Uniti, Massachussets, Michael Dukakis, Rivoluzione bolscevica, Benito Mussolini, Donald Trump, Giambattista Vico, condanna a morte di Sacco e Vanzetti, errori giudiziari, pena di morte.