La corsa allo spazio: la grande epopea dei nostri tempi
Arrivare coraggiosamente là dove nessun uomo è mai giunto prima

La frase con cui ho voluto «inaugurare» questo mio contributo è stata tratta da Star Trek, serie televisiva «culto» degli anni d’oro della fantascienza in celluloide. Mi è sembrata l’ideale perché sintetizza la volontà dell’uomo di spingersi «oltre» i confini imposti alla nostra natura di esseri viventi inchiodati al suolo. Mentre non sappiamo quali siano i segreti del sottosuolo o che cosa si celi sul fondale degli oceani, inviamo sonde a esplorare lo spazio profondo!

Non c’è da stupirsene, in fondo: gli uomini di tutte le epoche erano usi scrutare il cielo, certo con gli occhi scintillanti di meraviglia, ma anche per scopi pratici – dalla sommità dei loro templi, Sumeri e Babilonesi osservavano il cielo a occhio nudo, indagando le stelle e i movimenti del Sole e della Luna, cercando di capire se fenomeni come il passaggio di una cometa o i mutamenti delle fasi lunari fossero in relazione con ciò che accadeva sulla Terra, per esempio con i periodi di siccità, la crescita delle piante, le epidemie e le inondazioni. Tutte le civiltà agricole, dagli Egizi ai Cinesi ai popoli dell’Italia preromana, hanno cercato di comprendere la natura di eventuali relazioni tra la Terra e il cielo. La più antica mappa stellare è il cosiddetto «disco di Nebra», un disco metallico delle dimensioni di un grande piatto ritrovato in Germania, e risalente a oltre 3.600 anni fa.

Disco di Nebra

Disco di Nebra, Museo Regionale della Preistoria, Halle (Germania)

Dall’osservazione del cielo si passò poi ai progetti per esplorarlo in prima persona e da vicino. Incisioni rupestri preistoriche, racconti dell’antica Grecia, affreschi medievali mostrano esseri umani, a volte con indosso strani abiti o copricapi, che viaggiano su mezzi molto simili ad «astronavi», o comunque su oggetti meccanici volanti. Un testo indiano risalente tra i 6.000 e i 4.000 anni fa narra di un viaggio nello spazio compiuto da una principessa a bordo di un veicolo spaziale; sollevandosi verso il cielo e vedendo apparire le stelle nonostante fosse giorno, la principessa ne chiese la ragione all’astronauta alla guida del mezzo; al che, egli le rispose che da Terra non erano visibili, perché la luce del Sole le copriva, ma lì, nello spazio, potevano rifulgere ai nostri occhi – una descrizione che sembra fatta da chi abbia visto (e non solo immaginato) un tale fenomeno.

Lasciando da parte queste e altre suggestioni, come ad esempio le macchine volanti di Leonardo da Vinci, il razzo per raggiungere la Luna progettato negli anni fra il 1907 e il 1910 da un bambino polacco di 8 anni, il futuro San Massimiliano Kolbe (un razzo che avrebbe potuto funzionare davvero, ma che non fu realizzato per il costo troppo alto che sarebbe stato necessario investire), la tuta per le esplorazioni spaziali inventata dai futuristi italiani e riprodotta identica per gli astronauti che sbarcarono sulla Luna, lasciando da parte tutto questo, dicevo, per raccontare della «corsa allo spazio» che ha caratterizzato un’intera epoca dobbiamo arrivare agli anni Cinquanta del XX secolo, quando il mondo era diviso in due grandi blocchi contrapposti (da una parte gli Stati Uniti d’America e i loro alleati, dall’altra parte l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e i suoi alleati); alimentata dalla propaganda, la conquista dello spazio era connessa alla corsa agli armamenti e alla possibilità di colpire il nemico dall’alto, da una posizione dominante.


Primi passi nello spazio

I primi a lanciare in orbita un satellite artificiale furono i Russi: era il 4 ottobre 1957 quando lo Sputnik (che significa «compagno di viaggio») trasmise il suo famoso BIP. Era stato portato lì da un razzo Semirka partito dalla base sovietica di Baykonur, nel Kazachstan. Era composto da una piccola sfera, 58 centimetri di diametro per 84 chilogrammi di peso; la sua superficie era di alluminio in modo da riflettere la radiazione solare, proteggendo così i circuiti interni; a bordo c’era solo una radio capace di inviare un segnale. 24 ore dopo, la «Pravda» proclamava la superiorità del sistema sovietico, che si era dimostrato in grado di raggiungere per primo lo spazio extraterrestre. Dopo il successo dello Sputnik, fu subito chiaro che sarebbero seguiti lanci di altri satelliti di dimensioni sempre maggiori e, il prima possibile, anche missioni di esseri umani nello spazio.

Sia l’Unione Sovietica sia gli Stati Uniti non avevano all’epoca alcuna esperienza nell’inviare esseri viventi nello spazio e ancor meno sapevano se il corpo di questi potesse sopravvivere per lunghi periodi in situazioni di assenza di gravità; apparve quindi necessario raccogliere informazioni al riguardo del comportamento del corpo nello spazio prima di poter passare al lancio di navicelle con equipaggi umani a bordo. Per questo i Russi decisero di utilizzare un animale, nella fattispecie un cane: secondo la versione ufficiale, la cagnetta Laika era un cane randagio trovato a Mosca, di tre anni, per metà Husky e per metà Terrier. Durante la fase di addestramento, gli animali venivano abituati a spazi angusti e rimanevano anche per 20 giorni consecutivi in gabbie strettissime; poi venivano sottoposti a simulazioni di lancio in centrifughe, all’interno delle quali si riproducevano le vibrazioni e i rumori che avrebbero caratterizzato il lancio. Visto le basse temperature della stagione, la capsula sarebbe stata collegata con un impianto di riscaldamento, che avrebbe mantenuto una temperatura costante all’interno della stessa. Prima del lancio, degli elettrodi sarebbero stati fissati sul corpo dell’animale per trasmettere alla centrale di controllo i segnali vitali, quali polso, pressione e respirazione. L’interno del satellite era foderato e lo spazio era sufficientemente ampio da permettere a Laika di stare sdraiata o in piedi; la temperatura interna era regolata sui 15 gradi e un sistema di refrigeramento doveva proteggere l’animale da sbalzi termici eccessivi; a bordo si trovavano cibo e acqua preparati sotto forma di gel.

Il razzo con a bordo Laika venne lanciato il 3 novembre 1957 alle 2:30 dal Cosmodromo di Bajkonur. Si ricevette per circa 7 ore un segnale, prima di non captare più nessun segnale di vita dalla capsula. Il satellite rientrò in atmosfera 5 mesi più tardi, il 14 aprile 1958, dopo aver compiuto 2.570 giri intorno alla Terra, e durante il rientro andò completamente distrutto. Un eventuale rientro in orbita terrestre non era del resto possibile, dal momento che la capsula non era in grado di rientrare in atmosfera perché sprovvista di uno scudo termico. Laika era sopravvissuta unicamente per un periodo compreso tra le 5 e le 7 ore dopo il decollo o a causa degli sbalzi di temperatura caldo-freddo, o morendo di asfissia a causa di un guasto all’impianto di aerazione. In ogni caso, la sua sorte era già segnata prima ancora della partenza. Dopo di lei altri cani furono lanciati nello spazio a bordo di satelliti, e il 20 agosto 1960 le cagne Belka e Strelka furono le prime a rientrare sane e salve a terra da una missione spaziale a bordo del satellite Sputnik 5.

Il lancio di Laika nello spazio fu un evento shock in Occidente, e non solo per la gratuita – e in parte non giustificabile – crudeltà verso un animale. Ciò che preoccupava era constatare che l’Unione Sovietica aveva dimostrato di essere in notevole vantaggio per quanto riguarda la costruzione di satelliti e quindi anche con la costruzione dei vettori, che vantavano capacità di carico maggiori e pertanto anche maggiori gittate. Questo evento aveva dimostrato all’Occidente che i Russi disponevano sia dei mezzi sia delle tecnologie necessarie per poter portare in orbita testate nucleari, e potevano colpire, indipendentemente dalla portata dei bombardieri, ogni Paese sul globo. Per correre ai ripari, gli Stati Uniti accelerarono immediatamente il loro programma spaziale costruendo un primo satellite, che chiamarono Vanguard TV3. Ma il ritardo accumulato e la mancanza di conoscenze fecero sì che la missione fallisse, causando la perdita del satellite e del vettore nella primissima fase di lancio. Gli Americani sarebbero riusciti solo il 31 gennaio 1958 a mandare in orbita il loro primo satellite, l’Explorer-1: pesava 14 chilogrammi ed era dotato di una strumentazione scientifica allestita dal fisico James Van Allen, che diede il nome alle «fasce» formate dal campo gravitazionale terrestre, scoperte proprio in quell’occasione. In seguito, il 17 marzo 1958, fu lanciato in orbita un secondo satellite artificiale, il Vanguard 1. Dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, toccò all’Italia mandare un satellite nello spazio: il San Marco (detto per inciso, la parola «satellite» è etrusca, e designava lo scudiero di un nobile).

Il 12 aprile 1961, i Sovietici riuscirono nella gigantesca impresa, per allora, di mandare un uomo in orbita nello spazio: Yuri Gagarin (nato nel 1934). Egli compì un giro intorno alla Terra a bordo della capsula Vostok e, al ritorno, ironizzò di non aver visto in cielo «né angeli né Santi» (morì pochi anni dopo, durante un volo di collaudo: la prima vittima umana di una corsa allo spazio costellata non solo di successi, ma anche di episodi tragici). Pochi mesi dopo, il 6 e 7 agosto dello stesso anno, un’altra capsula spaziale con a bordo il Sovetico German Titov compì 18 orbite intorno al nostro pianeta. Il primato sovietico venne presentato in Occidente come un’affermazione non solo della superiorità scientifica dei Russi, ma anche di quella ideologica.

Non era una cosa da poco: si era nel pieno della Guerra Fredda, con il pianeta diviso in due giganteschi «blocchi» – da un lato il mondo occidentale, imperniato su un sistema liberale capitalistico, dall’altro il mondo comunista che arrivava fino all’Albania. Quando il 20 febbraio 1962 gli Americani mandarono in orbita su una loro capsula John Glenn, facendogli compiere 3 orbite intorno al globo, al ritorno sulla Terra l’astronauta venne salutato come un eroe nazionale. Nel giugno del 1963 i Russi stabilirono un altro primato con il viaggio di Valentina Tereskova. In risposta a questi successi, il Presidente Statunitense Kennedy aveva già annunciato nel 1961 il programma spaziale con l’obiettivo di «far atterrare un uomo sulla Luna e farlo ritornare salvo sulla Terra»; gli Americani cominciarono allora a elaborare un «programma spaziale», anche se la NASA era già stata costituita nel 1958. Anche i Russi si lanciarono nell’impresa, in una vera e propria gara di velocità, assorbendo le migliori energie intellettuali e cifre monetarie stratosferiche (era stato, in fondo, un loro razzo a raggiungere per primo la Luna, il 13 settembre 1959).


Lo sbarco sulla Luna

La corsa allo spazio aveva importanti ricadute non solo tecnologiche, ma anche belliche. Gli Americani erano spaventati dalla capacità dei Russi di spedire razzi in orbita, e quindi della possibilità ch’essi potessero colpire il loro territorio nazionale: lo sbandierato «scudo spaziale» (il progetto SDI, «Strategic Defense Initiative») pubblicizzato negli anni Ottanta, che avrebbe dovuto utilizzare satelliti americani per distruggere i missili intercontinentali russi prima che colpissero gli obiettivi, rimase un progetto irrealizzato, che oggi si ritiene addirittura irrealizzabile anche se all’epoca fu presentato come già in piena fase di esecuzione (e fu una delle ragioni che convinsero i Sovietici a firmare i primi accordi per il disarmo bilaterale).

Gli Americani, comunque, avevano un loro «asso nella manica»: il fisico tedesco Werner von Braun, pioniere della tecnologia e padre dell’astrofisica moderna (fu lui a creare le V1 e le V2 con le quali Hitler colpì Londra sul finire della Seconda Guerra Mondiale). C’era la mente di von Braun dietro i programmi Mercury e Apollo che portarono gli Americani sulla Luna. Il programma lunare era sembrato sul punto di arrestarsi il 27 gennaio del 1967, quando gli astronauti Grissom, White e Chafee morirono in un incendio sviluppatosi nella capsula Apollo 1 durante un addestramento a terra: l’atmosfera interna di ossigeno puro aveva favorito il disastro nato da un cortocircuito. Poi riprese con un nuovo slancio.

Il 16 luglio del 1969, un mercoledì, il razzo Saturno V partì rombando verso il cielo dalla base di Cape Canaveral, in Florida. Era un mezzo potente, alto più di 110 metri, una specie di grattacielo; era composto da diversi stadi, ognuno dei quali, esplodendo, avrebbe impresso un’accelerazione; e sulla sua sommità c’era la capsula Apollo 11, che alla fine si sarebbe staccata dal razzo, per dirigersi verso la Luna. Anche Apollo 11 era formata da tre stadi: nella parte superiore c’era il modulo di comando con l’equipaggio, che era formato da 3 astronauti trentanovenni, Neil Armstrong[1], Edwin Aldrin[2] e Michael Collins[3]; al centro si trovava il modulo di servizio che conteneva combustibili e motori; nella parte inferiore c’era il modulo lunare vero e proprio, quello che si sarebbe posato sul suolo della Luna. Il direttore di lancio, e il capo di tutto il progetto Apollo, era Rocco Petrone, figlio di immigrati di Sasso di Castalda (Basilicata; lui stesso si considerava Italiano e parlava con un marcato accento dialettale la nostra lingua): la sua collaborazione fu fondamentale, perché fu lui a risolvere tutti i problemi e i guasti prima della partenza (aveva dato un nome a ognuna delle 6.000 parti che componevano il razzo, comprese le valvole più piccole, e al momento del lancio dovette bloccare il conto alla rovescia per far allontanare una coppia di aironi che aveva nidificato vicino alla rampa); il suo motto era che «i sogni di oggi potranno essere la realtà di domani»... aveva ragione!

Armstrong, Collins e Aldrin

Da sinistra a destra: Armstrong, Collins e Aldrin, luglio 1969 a Cape Canaveral (Stati Uniti)

Ore 9,32 a Cape Canaveral: i motori del razzo in partenza consumavano ogni secondo 15 tonnellate di combustibile e di ossigeno liquido. 3 minuti dopo, a 61 chilometri di altezza, si staccò il primo stadio, che ricadde sulla Terra. Dopo altri 7 minuti, si accese il secondo stadio che portò il Saturno V fino a un’altitudine di 124 chilometri con una velocità di 24.940 chilometri all’ora; a questo punto si mise in moto il terzo stadio che diede alla navicella la spinta decisiva per uscire dall’atmosfera terrestre, entrare in orbita e inserirsi nella traiettoria della Luna. I due astronauti scelti per scendere, Armstrong e Aldrin, passarono attraverso un tunnel dentro il modulo per l’allunaggio, chiamato Aquila, mentre Collins li avrebbe aspettati in orbita, sulla navicella, nel buio cosmico, per riportarli sulla Terra, un po’ come un papà che aspetta i figli in auto con il motore acceso. I 3 uomini non erano stati scelti a caso, perché erano richiesti particolari requisiti a chi doveva affrontare i viaggi spaziali: età inferiore ai 40 anni, altezza non superiore a 173 centimetri, salute eccellente, laurea in ingegneria, esperienza come pilota di jet; ognuno di loro indossava la tuta lunare che, oltre a fornire l’aria (ricordiamo che la Luna è priva di atmosfera), garantiva la temperatura giusta e proteggeva dalle meteoriti e dalle radiazioni dannose.

Dopo un viaggio di 4 giorni, alle ore 22 circa del 20 luglio 1969 (le 4,56 in Italia), domenica, Aquila si posò sulla superficie della Luna. Armstrong scese per primo i 9 gradini della scaletta e mosse alcuni passi incerti. Era la prima volta che un uomo si muoveva su un corpo celeste al di fuori della Terra! La quasi totale assenza di gravità, 6 volte più debole di quella della Terra (tanto che un uomo che qui pesasse 80 chili, sulla Luna ne peserebbe solo 14), rendeva un po’ goffi i suoi movimenti. Lo seguiva Aldrin. Nella calda sera d’estate, 600 milioni di persone attonite ed entusiaste, commosse e spaventate, assistettero davanti ai teleschermi a un’impresa inimmaginabile fino a pochi anni prima, avendo la sensazione di vivere quell’esperienza in prima persona, accanto agli astronauti: l’immagine sfocata di un omino in tuta bianca che, col suo stivalone imbottito, lasciava la prima impronta dell’uomo sulla Luna, commosse i telespettatori fino alle lacrime.

Aldrin scende sul suolo lunare

Aldrin scende dal modulo sul suolo lunare, 20 luglio 1969

È divenuta famosa la frase pronunciata in diretta da Armstrong, mentre dalla scaletta del modulo spaziale scendeva sul suolo lunare: «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un passo da gigante per l’umanità». Era vero: ciò che innumerevoli generazioni avevano immaginato, sognato, sperato, ora si realizzava, preludio a più alte imprese.

Gli astronauti si fermarono sulla Luna per 21 ore e 27 minuti: tallonato da Aldrin, Armstrong percorse una sessantina di metri e piantò la bandiera degli Stati Uniti commemorativa, poi i due raccolsero 20 chilogrammi di roccia e di suolo lunare e lasciarono alcuni strumenti, oggi traccia inequivocabile della loro impresa. Terminata la missione, con precisione cronometrica, Armstrong e Aldrin risalirono sul modulo, la cui parte inferiore funzionava da piattaforma di lancio.

Aldrin saluta la bandiera statunitense

Aldrin saluta la bandiera statunitense, 20 luglio 1969

Qui, Armstrong si accorse di aver rotto il piccolo dispositivo che serviva ad azionare la centralina dei razzi propulsori, e quindi a potersi sollevare per tornare su Apollo 11. Ci voleva qualcosa di sottile e appuntito, per agire sui comandi, e allora tirò fuori una comunissima penna biro, che da allora conservò come cimelio: ancora una volta, un lampo d’intuito salvò una situazione che poteva rivelarsi drammatica e allungare il necrologio delle vittime dello spazio.

Lunedì 21 luglio, alle ore 20, raggiunto in orbita Apollo 11, venne abbandonato Aquila e iniziò il viaggio di ritorno. Giovedì 24 luglio, alle 19, la capsula ammarò presso l’isola di Johnston nell’Oceano Pacifico. I 3 astronauti erano tornati con un completo trionfo!

L’impresa del primo viaggio sulla Luna, preceduta da voli di prova nei quali non erano mancati problemi e incidenti anche molto gravi, aprì la strada a una serie di missioni scientifiche che portarono la conoscenza del satellite a un livello mai visto prima: dopo il primo sbarco, altri 9 astronauti toccarono il suolo lunare, fino al 1972, dopodiché le missioni sulla Luna furono via via abbandonate e l’esplorazione spaziale prese in esame altri obiettivi. L’incidente occorso all’Apollo 13 nel 1972 (a 321.860 chilometri dalla Terra, uno dei quattro serbatoi dell’ossigeno del modulo di comando esplose) lasciò tutto il mondo con il fiato sospeso, ma la riuscita del salvataggio dei 3 astronauti trasformò il fallimento in un altro grande successo, dimostrando la capacità dell’uomo di affrontare situazioni di crisi imprevedibili.

I Russi, intanto, pur avendo dovuto rinunciare alla Luna, non si erano fermati: nel 1967 avevano spedito sonde su Venere (Venus 5 e 6), trasmettendo al nostro pianeta importanti informazioni sull’atmosfera venusiana, la sua temperatura e composizione. Mentre la NASA aveva già inviato nel 1965 la sonda Mariner 4 che aveva scattato le prime foto di Marte, il «pianeta rosso»: era la prima volta che l’uomo riceveva dallo spazio le immagini di un altro pianeta.

Una parte molto importante della corsa allo spazio era stata quella puramente scientifica e non solo esplorativa: innanzitutto lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica, poi la costruzione di laboratori spaziali orbitanti, che sono stati alla base della realizzazione della Stazione Spaziale Internazionale. Nel 1970 Venera 7 atterrò su Venere – era la prima volta che un mezzo costruito dall’uomo sbarcava su un altro pianeta (la Luna, infatti, è solo un satellite). Gli Americani misero insieme nel 1973 lo Skylab, l’Unione Sovietica rispose facendo salire in orbita prima la Salyut e poi la celebre MIR.

Il brusco rallentamento dei programmi spaziali negli anni Settanta fu legato ai bilanci economici e alla situazione politica mondiale. Il programma degli Shuttle consentì agli Stati Uniti di continuare l’esplorazione spaziale, tentando di ridurre i costi, dato che il bilancio federale aveva chiuso i rubinetti alla NASA. Le missioni spaziali erano quasi diventate una routine, fino a che il 28 gennaio del 1986 la tragedia della navetta Challenger (esplosa 90 secondi dopo il decollo da Cape Canaveral, uccidendo i 7 membri dell’equipaggio, tra i quali una maestra che era salita col sogno di fare ai suoi alunni una lezione in diretta dallo spazio) non ricordò al mondo la pericolosità dei viaggi nel Cosmo. L’ultimo incidente spaziale su un Challenger risale al 2 febbraio 2003.


Verso i confini del Sistema Solare... e oltre

La corsa allo spazio propriamente detta tra Stati Uniti e Unione Sovietica si esaurì di fatto negli anni Ottanta, quando il sistema economico russo crollò, trascinato dalla crisi dei consumi interni e dell’industria pesante. L’Unione Sovietica, non più in grado di reggere la corsa agli armamenti imposta dal Presidente Americano Ronald Reagan, con un’economia non competitiva sul mercato globale perché incapace di ristrutturarsi e prostrata dai costi crescenti dell’espansionismo politico e militare perseguito da Mosca nella seconda metà degli anni Settanta, una povertà dilagante e una corruzione diffusa nelle alte sfere del potere, tentò la via delle riforme con Gorbaciov, ma finì per collassare; era comunque in quegli anni che si poté assistere alle prime vere collaborazioni tra NASA e Agenzia Spaziale Sovietica. Nel 1989 Voyager 2, l’unico veicolo spaziale che aveva la missione di studiare i 4 pianeti gassosi del Sistema Solare (Giove, Saturno, Urano e Nettuno, giacché Plutone è ora considerato un satellite per le sue dimensioni ridotte), si avvicinò al Polo Nord di Nettuno, il pianeta più «esterno» di tutti. Ma, con il crollo del Muro di Berlino, l’esplorazione dello spazio ha visto mettere in campo progetti meno ambiziosi che nel passato, più limitati negli obiettivi e quindi dai costi controllati. Oggi molte Nazioni sono attive nel campo della tecnologia spaziale, condividendo progetti di ricerca come la Stazione Spaziale Internazionale, alla quale partecipa anche il nostro Paese attraverso l’ESA: la Stazione Spaziale Internazionale è stata costruita proprio in Italia, a Torino. L’esplorazione è affidata a speciali telescopi spaziali, tra i quali Hubble, che ha aperto una vera e propria finestra sullo spazio, e a «robot» per l’esplorazione dei suoli di pianeti e satelliti sempre più lontani.

Nel 1997 Sojouner su Marte è il primo veicolo su ruote che si muove sul suolo di un altro pianeta: pesa circa 10 chilogrammi e mezzo e possiede molti strumenti scientifici; mentre nel 2012 Curiosity, sempre su Marte, trova condizioni che in passato potevano essere adatte alla vita di esseri semplici: sul pianeta, infatti, c’era l’acqua (abbiamo i famosi «canali» che altro non sono che i letti in secca di antichi fiumi, e addirittura le tracce di laghi e isole un tempo circondate dall’acqua). Dove sia ora quest’acqua, è un mistero: forse è «intrappolata» sotto le due calotte ai Poli del pianeta (calotte di quello che viene chiamato «ghiaccio secco», e che è anidride carbonica congelata), forse ospita ancora delle forme di vita. Ha fatto gran chiasso la fotografia di quella che viene chiamata la «conchiglia» di Marte, e che non si è capito ancora se si tratti di un vero fossile di conchiglia (del tipo «reginetta», quella a forma di ventaglio, tanto per intenderci) o di un sasso dalla strana forma; se fosse giusta la prima ipotesi, si potrebbe concludere che su Marte, in passato, esisteva la vita anche in forme complesse (perché un mollusco con conchiglia non può essere considerato una forma di vita semplice). Solo ulteriori ricerche potranno dare forse una risposta a questo quesito. Gran parte della tecnologia e nanotecnologia necessaria per queste «indagini» è progettata e costruita in Italia, che così si pone in prima linea nella «conquista» dello spazio: per esempio, è a Matera, in Basilicata, che si trova la stazione di telemetria laser più precisa al mondo (intitolata a Rocco Petrone).

Nel 2016, Juno raggiunge Giove e raccoglie dati utili per conoscere meglio la struttura e l’evoluzione del pianeta.

Si parla anche, oggi, di organizzare dei viaggi nello spazio per turisti, anche se i costi ne farebbero giocoforza un «prodotto» di nicchia. Non sembra irrealistico presupporre che l’attuale generazione possa vedere i primi turisti osservare la Terra dal buio cosmico!

A poco più di 60 anni dai primi, timidi lanci in orbita dei satelliti, siamo addirittura in grado di mandare sonde negli strati più esterni del Sistema Solare. A Capodanno del 2019 (questa non è più Storia, è cronaca dei nostri giorni) la navicella statunitense New Horizon, dopo aver sorvolato Plutone nel 2015, ha realizzato «l’incontro» con l’oggetto più distante dalla Terra mai compiuto, l’asteroide 2014 MU69, conosciuto dai più come Ultima Thule (nome che si riferisce al mito, descritto fra gli altri anche da Virgilio nelle Georgiche, di un’isola remota situata ai confini delle terre esplorate e difficilmente raggiungibile): questo minuscolo corpo celeste (lungo approssimativamente 32 chilometri e largo 16, simile a un’arachide, formato da due lobi congiunti insieme da una regione più stretta), piccolo, freddo, scarsamente illuminato, orbita a circa 4 miliardi di chilometri da noi (il Sole dista «solo» 150 milioni di chilometri dal nostro pianeta) e risiede in una misteriosa regione dell’Universo, scura e gelida, conosciuta come la fascia di Kuiper, ai confini del Sistema Solare – è la regione che si estende oltre l’orbita di Nettuno, popolata da una grande quantità di asteroidi e da cui provengono le comete a medio periodo, come la Halley, per esempio. Il punto più vicino di sorvolo che New Horizon ha effettuato su Ultima Thule è avvenuto alle 6,33 (ora italiana). L’evento, trasmesso in diretta, è stato accompagnato dalle note di un inno registrato dal chitarrista dei Queen Brian May, un musicista con laurea specialistica in astrofisica. Ultima Thule può rivelarsi un’occasione preziosa per svelare nuovi misteri sulle condizioni che hanno consentito al nostro Sistema Solare di formarsi, circa 4,6 miliardi e mezzo di anni fa.

New Horizon e Ultima Thule

Interpretazione artistica dell'arrivo di New Horizon a Ultima Thule

Appena poche ore prima del sorvolo di Ultima Thule, la sonda statunitense OSIRIS-REx era entrata in orbita attorno a Bennu, rendendo questo asteroide il più piccolo oggetto mai orbitato da una sonda. La missione finale della sonda è quella di riportare nel 2023 sulla Terra un campione di regolite raccolta dalla superficie dell’asteroide.

Il 3 gennaio 2019 è atterrata sulla faccia nascosta della Luna, nei pressi del cratere Von Kármán, la missione cinese Chang’e 4. La Cina si inserisce così, a pieno diritto, tra le Nazioni che bramano colonizzare lo spazio. Lo scopo della missione cinese è quello di esplorare suolo e sottosuolo del satellite e di provare un esperimento di coltivazione. Riusciremo a costruire, prima o poi, delle intere colonie su altri pianeti? Solo il futuro ce ne darà la certezza o la smentita.

L’ultima di una – speriamo – ancor lunga serie di scoperte astronomiche è la prima immagine di un oggetto invisibile, messa a punto grazie a un progetto a guida europea: è quella di un buco nero, presente nel centro della galassia Messier 87, a una distanza di 55 milioni di anni-luce dalla Terra; questi oggetti, forse i più misteriosi dell’Universo, e certo tra i più affascinanti, erano stati ipotizzati già da Albert Einstein, per la sua Teoria della Relatività Generale, ma nessuno era ancora riuscito a darne un’immagine visiva. Il buco nero, che possiamo immaginare come un vortice, appare come un’ombra scura, in quanto la sua forza di attrazione è tale che nulla di quanto vi entra può uscirne, neppure la luce; l’ombra generata dal buco nero è circondata da un anello luminoso, determinato dall’emissione di radiazione elettromagnetica da parte del gas che orbita vorticosamente attorno a esso, prima di essere risucchiato al suo interno. Per riuscire nell’impresa ci sono voluti anni di studi, un gruppo di più di 200 astronomi e l’utilizzo di 8 grandi radiotelescopi sincronizzati tra loro e distribuiti sull’intero globo terrestre, in modo da formare una sorta di super radiotelescopio grande quanto il pianeta. Anche scienziati italiani hanno partecipato a questo progetto. Sorprende la capacità della mente umana di immaginare e costruire un quadro razionale dell’Universo, andando oltre i limiti di quanto già conosciuto e assodato. È uno stimolo a sforzarci insieme con fiducia per immaginare e provare a realizzare un mondo in cui possiamo sentirci più pienamente uomini!

Buco nero

Buco nero al centro della galassia Messier 87

Note

1 Neil Armstrong, il primo uomo a mettere fisicamente piede sulla Luna, vide la luce a Wapakoneta, nello Stato Americano dell’Ohio. Dopo la missione sulla Luna restò alla NASA, l’Ente aerospaziale americano, fino all’agosto del 1971, poi ottenne una cattedra all’Università di Cincinnati, unico ateneo a disporre di un piccolo dipartimento di scienze aerospaziali. Qui insegnò per 8 anni, durante i quali i corsi sulla storia delle missioni Apollo, con tanto di dimostrazioni pratiche su un simulatore di volo in formato ridotto, entusiasmarono migliaia di ragazzi; fra questi Janet, che divenne la sua prima moglie dopo pochi mesi di fidanzamento. Nel 1992, giocando a golf, Armstrong conobbe Carol Held Knight, che il 12 giugno di due anni dopo divenne la sua seconda moglie. Due episodi ci mostrano il suo carattere. Una mattina, salendo su un trattore nella sua tenuta agricola di Lebanon, in Ohio, restò con la fede impigliata in una ruota, il trattore si mosse e il dito venne via di netto; in ospedale i medici si videro arrivare l’ex astronauta che, come se niente fosse, chiese loro di riattaccargli l’anulare, che aveva accuratamente congelato e impacchettato. È nota anche la sua proverbiale antipatia nei confronti di coloro che lucravano sul suo nome, tanto da rifiutare di rilasciare autografi dopo aver saputo che, spesso e volentieri, i fogli firmati venivano venduti su Internet a prezzi da capogiro: fece causa persino a Marx Sizemore, il suo barbiere, perché lo aveva scovato a vendere una ciocca dei suoi capelli a un ammiratore per 3.000 dollari, senza interpellarlo; per espiare la colpa, il pover’uomo avrebbe dovuto o recuperarla, o devolvere una somma a favore di un’associazione benefica scelta dallo stesso Armstrong – il barbiere decise per la seconda opzione, e fu fatta la pace.

2 Edwin Eugene Aldrin, detto Buzz (perché la sorellina lo chiamava «buzzer», storpiatura di «brother», cioè «fratello»), nacque a Montclair, nel New Jersey. Aveva un caratteraccio bizzoso, che mal sopportava le regole e il protocollo. Quando seppe che sarebbe sceso sulla Luna alle spalle di Armstrong, passando alla Storia solo come il «secondo» a compiere l’impresa, decise di vendicarsi: aveva l’ordine di filmare e fotografare il suo diretto superiore che lo precedeva, ma non lo fece; per questo suo gesto di insubordinazione rischiò la corte marziale, che in seguito gli fu risparmiata per non guastare l’eco mediatica dell’avvenimento. Mentre, essendo di fede presbiteriana, si fece dare prima della partenza per lo spazio un’ostia benedetta, non concependo di violare un corpo celeste (tale è la Luna) senza l’Eucarestia. Dopo lo sbarco sulla Luna rimase due anni alla NASA, poi passò al servizio dell’Aeronautica Militare Americana. Cadde in un profondo stato di depressione, cercando conforto nell’alcool, da cui riuscì a uscire scrivendo, progettando e soprattutto amando: prima sposò Joan Archer, che gli diede 3 figli (James, Janice e Andrew), poi sposò Beverly Zile, infine sposò Lois Driggs, che aveva l’avventura nel sangue, come lui. Nel 1996, a 66 anni, Aldrin passò a fare il palombaro, prendendo parte alla missione di ricognizione sul relitto del Titanic, e con la moglie effettuò tantissime altre immersioni. Rimase però sempre un tipo borioso, tanto che – all’età di 75 anni – a un giornalista, che metteva in dubbio che lui fosse un «super-uomo», tirò un pugno sul naso!

3 Michael Collins, nato sotto il cielo di Roma perché il padre lavorava all’Ambasciata Statunitense, dopo l’impresa della Luna (sulla quale non scese) ebbe una vita «ritirata», anche se con incarichi di notevole importanza: dal 1971 al 1979 fu a capo del prestigioso National Space and Air Museum, poi, fino al 1985, ebbe la poltrona di sottosegretario alla Smithsonian Institution di Washington. In seguito si dedicò alla scrittura (tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta pubblicò la sua autobiografia Il viaggio di un astronauta, alcuni saggi e un racconto per bambini) per ritirarsi infine a vivere con la moglie Pat a Marco Island, in Florida: qui si alzava ogni mattina per mettersi a dipingere le sue verdi colline, ma senza firmare i quadri per non farne lievitare il prezzo solo per il suo nome. È il più sognatore, il più umile e – mi sia permesso dirlo – il più «simpatico» dei tre uomini che conquistarono la Luna!

(maggio 2019)

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