Guerra: una costante universale
Riflessioni sulla conflittualità storica e su quella attuale

La storiografia contemporanea ha esteso le sue ricerche anche alla ricorrenza dei conflitti armati, che nell’ultimo mezzo millennio avrebbero raggiunto il numero di 500, con la media di una guerra in ragione annua[1]. È probabile che la cifra sia sottostimata, ma non è questo il punto. Al contrario, ciò che preme porre in evidenza è il continuo ricorso alla forza per risolvere le controversie internazionali, o peggio ancora, per affermare la legge del più forte, con buona pace di tante Costituzioni e prima ancora, della dottrina del diritto naturale promossa in forma sistematica da Ugo Grozio, per non dire dell’affermazione di Emanuele Kant circa la necessità di appellarsi sempre alla ragione per assicurare all’umanità uno sviluppo civile all’insegna della pace[2].

Contare le guerre, tutto sommato, è un esercizio statistico fine a se stesso, che equivarrebbe a quello di contare gli anni. Del resto, nella Roma precristiana il mite poeta Tibullo si chiedeva con angoscia chi fosse stato l’inventore delle «orribili armi» sin dai primordi dell’umanità, condannandola a un destino di ferocia e di angoscia. Dal canto suo, in tempi più recenti Thomas Hobbes avrebbe promosso l’idea di un «homo homini lupus» sia nella vita collettiva che in quella individuale, suffragando a priori l’amarissima conclusione leopardiana riveniente dalla crudeltà della natura, ivi compresa quella umana, per cui «funesto a chi nasce è il dì natale». Per una rivalutazione della guerra come «sola igiene del mondo» si sarebbe dovuto attendere il secolo breve e l’altisonante proclama di Filippo Tommaso Marinetti: quasi una «boutade» non certo avallata da profonde riflessioni filosofiche né tanto meno etiche, ma dal tipico attivismo futurista.

Cicerone aveva sentenziato che «silent leges inter arma». Oggi non è più così, perché esistono le norme del diritto internazionale bellico, preposte a regolare alcuni aspetti essenziali della conflittualità, ma l’esperienza ha dimostrato che mai come in questo caso permane un abisso fra teoria e prassi: nelle ultime guerre mondiali la «pietas» nei confronti del nemico e delle stesse popolazioni civili ha finito per diventare una variabile indipendente, nonostante gli atti di eroismo volti ad attestare la permanenza di alti valori umani e cristiani in alcuni spiriti eletti come Salvo D’Acquisto o Massimiliano Maria Kolbe. Nella realtà, l’assunto ciceroniano induce una riflessione non effimera: in quale misura il ricorso alla guerra può trovare motivazioni sottintese ma realistiche nel silenzio della legge, e quindi, nella possibilità di soluzioni ferine conformi alla teoria di Giambattista Vico secondo cui gli uomini non sarebbero alieni da un ricorrente ritorno alla primitiva realtà di «bestioni tutta ferocia» come accadde nella tragica vicenda delle foibe istriane e carsiche per iniziativa dei partigiani slavi e dei loro collaborazionisti italiani?

La nostra epoca sembra volersi distinguere per una ricerca sempre più forte della pace a ogni costo, ma nello stesso tempo per il carattere velleitario di tale attesa, tanto più amaro perché il carattere sacrale della vita sta diventando un patrimonio sempre più diffuso e condiviso. In realtà, le buone intenzioni sono tante e apparentemente convinte, ma alla resa dei conti finiscono per essere travolte da una competitività che il mondo sempre più piccolo ha finito per enfatizzare, senza dire della copertura che le crescenti antinomie riescono a trarre dalle questioni ideologiche, per non dire da quelle religiose, e dei loro riflessi nell’ambito delle culture popolari. In mancanza di una vera rivoluzione umanitaria come quella proposta da fedi religiose fondate sulla centralità dell’uomo, la meta di un’aurea pace «mondiale» sembra essere oggettivamente lontana.

L’essere umano si distingue da quello animale perché possiede intelletto e ragione, ma l’uso che troppo spesso ne viene fatto apre dubbi non infondati sulla sua origine «a immagine e somiglianza di Dio» e chiama a raccolta nella buona battaglia contro le forze del «male assoluto» sempre a caccia di anime disponibili alla perdizione: in primo luogo, attraverso la guerra che è negazione, non tanto di una fratellanza e di un’uguaglianza universali più che mai utopistiche, né tanto meno di una libertà intesa come arbitrio, quanto di un ordinamento civile condiviso alla luce del diritto naturale, proprio come nell’antico assunto di Grozio, per non dire di quello quasi mitico di Antigone[3].

Le Organizzazioni internazionali dell’epoca contemporanea si sono poste il problema della guerra con matura consapevolezza critica, tanto da avere statuito principi generali d’intervento nei casi in cui gli equilibri siano compromessi dalla politica di potenza, tuttora presente nelle opzioni di parecchi Stati, ma anche in questi casi la teoria non risulta sempre allineata alla prassi: da un lato, per la possibilità di aggirare le eventuali sanzioni, dall’altro per la difficoltà di sceverare ragioni e torti col necessario equilibrio, ma soprattutto per il calmiere esercitato da opposti interessi e quindi da una tolleranza che generalmente non coincide con la giustizia.

Che fare? Bisogna rassegnarsi a contare le guerre che si susseguono nel mondo confidando almeno nella conservazione della quota annua di cui si diceva in premessa? Pensando alla crisi della cooperazione, ben dimostrata dal fatto che nel nuovo millennio la sua incidenza sul prodotto lordo dei maggiori Stati si è andata progressivamente elidendo nonostante l’impegno a riservarle almeno un punto percentuale in ragione annua[4], si sarebbe tentati da una risposta motivatamente pessimista, tanto più attendibile alla luce dell’emergenza sanitaria indotta dalla pandemia del Covid-19. Eppure, il mondo ha conosciuto crisi tremende da cui è riuscito a sollevarsi sia pure con un forte impegno, a volte etico e religioso, a volte economico e produttivo, a volte solidale o rivoluzionario: la soluzione peggiore sarebbe indulgere all’individualismo se non anche al nichilismo, ma se è vero che il genere umano ha dalla sua parte l’intelletto e la volontà, si può confidare nell’avvenire, a patto che di questo patrimonio esclusivo si sappia e si voglia fare buon uso. Anzitutto, cominciando a considerare la guerra come una «extrema ratio» da cui prescindere sin dove possibile, perché una pace contrattata in termini costruttivi è sempre da preferire a un conflitto dagli esiti talvolta imprevedibili, come attestano i difformi ma sempre rovinosi destini di tanti celebri condottieri, da Alessandro Magno a Giulio Cesare o Napoleone.

Eppure, l’antica saggezza si riassume in un aforisma che non può essere definito la quintessenza dell’ottimismo: «Si vis pacem, para bellum». Ciò significa che, almeno sino a quando non si potrà contare sull’esistenza di una Repubblica Universale oggi più che mai utopistica, tanto da apparire ultraterrena, sarebbe utile salvaguardare la pace essendo pronti a una sana e per quanto possibile competizione «fredda»: in effetti, l’esistenza di un deterrente può essere più garantista della buona volontà. Prima ancora, è necessario che il momento politico assuma una maggiore consapevolezza del suo vagheggiato ruolo maieutico, e proponga una strategia di governo fondata non già sul perseguimento del «particulare» di guicciardiniana memoria, quanto sulla volontà di operare attivamente per il bene comune, come da antica definizione di una politica in cui «jus superat vires». Sarà mai possibile? Ai posteri l’ardua sentenza, con tutto quel che segue.


Note

1 Il riferimento storico alla frequenza delle guerre nel numero di una per anno, dal XVI secolo in poi, è reperibile in George C. Kohn, Dizionario delle guerre, Armenia Editrice, Milano 1986. Per una sintetica storia del fenomeno bellico dalle origini ai giorni nostri, confronta Enciclopedia del Novecento, voce «Guerra», a cura di Alastair Buchan, Edizioni Treccani, Milano 1975.

2 Discepolo di Erasmo, il pensatore olandese Ugo Grozio (1583-1645) è considerato il fondatore del giusnaturalismo moderno, con particolare riguardo alla sua formulazione nell’opera De jure belli ac pacis uscita nel 1625, dove propone la «superiorità» di tale dottrina nei confronti del diritto positivo, anche come fondamento della politica internazionale e dei rapporti fra gli Stati. Dal canto suo, Emanuele Kant (1724-1804) nella sua qualità di fondatore del criticismo e precursore dell’idealismo, ha sviluppato il concetto nel suo scritto Per la pace perpetua dove sottolinea la necessità imprescindibile di appellarsi alla ragione in ogni vicenda di rapporti internazionali: ciò, in un’ottica immanente rispetto a quella sostanzialmente fideistica che era stata di Grozio.

3 Le «alte non scritte e inconcusse leggi» a cui l’eroina di Sofocle si richiama nella celebre disputa con Creonte sono, a loro modo, un’antica anticipazione del giusnaturalismo moderno e un atto d’accusa nei confronti del diritto positivo e delle sue possibili applicazioni e interpretazioni, in difformità da una diversa e più alta coscienza umana e civile.

4 Nella Conferenza Internazionale di Monterrey (Messico) del 2002, i maggiori Stati decisero di destinare alla cooperazione internazionale e alle sue iniziative di sviluppo almeno un punto del proprio Prodotto Interno Lordo: una decisione storica, ma che in molti casi è rimasta sulla carta, con forti deroghe anche maggioritarie nei confronti dell’impegno assunto.

(ottobre 2020)

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