Guerre iconoclastiche
Dalle antiche pregiudiziali contro la rappresentazione del divino alle offensive del mondo moderno e contemporaneo nei confronti di monumenti religiosi e simboli civili

L’ossequio alla trascendenza divina, fino al punto di non ammetterne mai qualsivoglia forma di rappresentazione, è vecchia quanto l’umanità: nella stessa filosofia presocratica non mancano affermazioni significative circa l’impossibilità di dare un volto agli dèi, convalidate dal fatto che le loro immagini risultano estremamente mutevoli a seconda dei popoli, dei costumi e dei luoghi. In realtà, nessuno può negare che si tratti di un’astrazione, ma nello stesso tempo, dell’esigenza di dare un apporto visibile alle professioni di fede.

La tendenza all’iconoclastia, che pure aveva avuto qualche premessa ragguardevole anche nelle religioni orientali e nell’Egitto dei Faraoni, divenne più forte con l’avvento del Cristianesimo, attento sin dai primi tempi dell’Era Volgare a distinguere la venerazione delle figure riprodotte nelle icone dall’adorazione di quelli che avrebbero potuto diventare, da semplici oggetti, veri e propri idoli. Poi, fra il VII e l’VIII secolo, la guerra iconoclastica ebbe sviluppi di intensità quasi imprevedibili, a cui diedero un contributo importante i crescenti dissidi tra il mondo orientale e quello occidentale: alla fine, prevalse il buon senso di capire che la rappresentazione del divino non intendeva assumere comportamenti eretici, se non anche blasfemi, ma voleva semplicemente parlare in modo diretto e comprensibile a schiere di fedeli in larga parte umili ed analfabeti. Tuttavia, il confronto era stato lungo ed aveva lasciato una traccia profonda, destinata a produrre effetti notevoli anche a lungo termine.

La guerra si sviluppò nuovamente dopo la Riforma protestante, ed in misura per diversi aspetti più vivace e pervicace. Furono parecchi, a cominciare da Zwingli e Calvino, coloro che contestarono alla Chiesa di Roma l’uso sistematico dell’immagine divina come strumento di culto opinabile, in quanto suscettibile di indurre superstizioni e idolatrie speculando sulla buona fede popolare. Anche in questo caso, come in quello precedente, la lotta fu lunga e diede luogo alla distruzione non certo ragionevole di tante opere d’arte, concludendosi con l’accettazione di un «modus vivendi» che non risolveva l’antica antinomia circa la rappresentazione del divino, diversamente da quanto accadde nel mondo islamico, dove la proibizione di diffondere le immagini di Maometto, ed a più forte ragione di «inventare» quelle di Allah, divenne una costante condivisa da tutti e pervenuta sino ai nostri giorni.

Nell’epoca moderna ed in quella contemporanea le tensioni iconoclastiche sono diventate, paradossalmente, non meno intense di quelle occorse in passato. Stavolta, le pregiudiziali politiche hanno preso il sopravvento sulle motivazioni religiose, pur trovando copertura ideologica, almeno in qualche occasione, nella difesa della sacralità trascendente, ed in quanto tale, inconoscibile dall’occhio umano. Basti pensare all’opera distruttrice di tante opere di altissimo valore perseguita in Cina dalla cosiddetta Rivoluzione Culturale, od alle analoghe spedizioni punitive dei talebani e del sedicente Califfato Islamico, condotte rispettivamente contro monumenti afghani, iracheni e siriani che costituivano Patrimonio dell’Umanità; senza contare, beninteso, la negazione dei diritti umani e l’uccisione indiscriminata degli oppositori, ma, più spesso, di esseri umani che avevano il solo torto di non condividere la «fede» dei loro assassini.

Su tali vicende si sono versati i classici fiumi d’inchiostro che non vale la pena di alimentare ulteriormente, alla stregua dei giudizi definitivi ed irreversibili espressi dal mondo civile. È il caso di sottolineare, invece, che anche in Italia, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, la lotta iconoclastica imperversa, sia pure in sordina, salvo emergere di tanto in tanto come una sorta di fiume carsico. Si tratta di una lotta squisitamente politica, ma non per questo meno aspra.

Le guerre contro le immagini religiose che ebbero luogo nel I e nel II millennio furono combattute senza esclusione di colpi; tuttavia, ciò avvenne all’insegna di forti convincimenti ideali delle forze in campo, difficilmente comprensibili nell’evo contemporaneo ma profondamente radicati nelle coscienze del tempo. Al contrario, quelle odierne si scatenano all’insegna di interessi politici contingenti, o peggio ancora, di vecchie logomachie assai dure a scomparire, soprattutto in Italia.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Per citarne soltanto qualcuno, basti ricordare l’ostracismo manifestato dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, nei confronti dell’obelisco marmoreo della Farnesina, di cui ha ipotizzato l’abbattimento, o quanto meno la scalpellatura onde rimuoverne l’omaggio al Duce (con costi enormi ed effetti orribili); le dispute intorno al Colosso di Brescia, anch’esso in Bianco Carrara, rimosso nel 1945 perché eretto nel Ventennio, riesumato in tempi recenti da un sindaco di Centro-Destra, e riportato in magazzino dal successore di Centro-Sinistra; gli oltraggiosi e vili danneggiamenti ai monumenti in onore dei Martiri delle Foibe sorti in tante città italiane, come quelli avvenuti ripetutamente, fra gli altri, a Trieste, Venezia, Roma e Torino.

In tutti questi casi sono state perdute ottime occasioni per evitare errori a dir poco ridicoli, e prese di posizione antistoriche, oltre che giuridicamente infondate. Come è stato autorevolmente ricordato, le opere pubbliche di rilevanza artistica, trascorso mezzo secolo dall’installazione, non possono essere oggetto di interventi, se non quelli di manutenzione sotto il controllo delle competenti Sovrintendenze; e poi, che senso avrebbe smontare un monumento, come è accaduto al Colosso, per collocarlo in un magazzino del Comune a spese della collettività, quasi per garantirne il possibile ripristino da parte di un futuro sindaco di altro colore politico? Perché non segarlo e ricavarne pavimenti e rivestimenti? E quanto all’obelisco, perché non abbattere anche le adiacenti statue del Foro Italico, dato che appartengono alla medesima matrice storica e culturale?

Considerazioni non meno amare si debbono fare circa le offese alle foibe, dove secondo alcuni graffiti di totale insipienza etica e politica «c’è ancora posto». Anzi, nel caso di specie la guerra iconoclastica è improntata a bassezze e livori inqualificabili visto che quei caduti erano immuni da ogni colpa, salvo il «delitto di italianità»; senza dire che la Legge istitutiva del Ricordo approvata nel 2004 quasi all’unanimità, ha reso giustizia tardiva ma accettata da tutti, anche se sfornita di sanzioni.

In buona sostanza, le lotte iconoclastiche sono di casa anche in Italia e continuano ad esserlo con singolare pervicacia: non già per ragioni ideali, ma in omaggio al verbo di chi, per affermare un egocentrismo degno di migliori cause, non ha trovato di meglio che rovesciare l’assunto di Cartesio: «Distruggo, quindi esisto». Sul piano etico, senza troppa differenza nei confronti delle guerre talebane ed affini contro immagini e monumenti; ma soprattutto, contro la vita.

(gennaio 2016)

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