Il Natale dei nostri nonni
Usanze e tradizioni nella Brianza povera, laboriosa e contadina di un passato non troppo lontano

L’approssimarsi del Natale accompagnerà le prossime settimane con lo spirito di preparativi sempre più febbrili: già dalla fine di ottobre si cominciano a notare le prime pubblicità a tema, e poi le luminarie, le vetrine addobbate, tutto il clima che ci circonda, talvolta con poca sacralità e molto consumismo.

Sembra incredibile pensare che, meno di cent’anni fa, le cose erano totalmente diverse, anzi, proprio l’esatto contrario: i nostri nonni ricordano ancora il tempo in cui il Natale era una festa esclusivamente religiosa e vissuta in maniera più intensa e partecipata di quanto non lo sia oggi. Parlando con loro si può compiere un affascinante viaggio fra usanze e tradizioni che oggi vengono riscoperte e riportate in vita.

Parlerò riferendomi alla mia terra, la Brianza (aggiungendovi anche la zona di Monza, sebbene non sia Brianza), una regione ancora memore del suo passato contadino per esempio nell’architettura, dove in molti paesi gli appartamenti vengono tuttora disposti attorno ad una corte centrale dove un tempo si sarebbero viste razzolar le galline, sotto l’occhio vigile del cane.


L’Avvento

Partiamo dall’Avvento: a Nova Milanese i ragazzi si riunivano nei cortili, nelle famiglie o nelle stalle per tutto il tempo che precedeva il Natale e intonavano «I Cansun dal Bambin» – non canti d’autore, ma canti popolari della tradizione regionale, uno diverso dall’altro ma ciascuno con una sua particolarità, che narravano gli eventi della tradizione legati al Bambin Gesù, dall’annuncio a Maria, al viaggio a Betlemme per il censimento, alla nascita. Si tratta di una di quelle tradizioni che, cadute nell’oblio, vengono ora riproposte ai più giovani, con successo.

Sempre durante l’Avvento si usava preparare una variante del «pan gialt», il pane locale a base di farine integrali, principalmente di segale: con l’aggiunta della farina bianca il pane giallo veniva lavorato e modellato a forma di bambino per creare il «pigutun».


La Vigilia di Natale

Un’usanza molto tipica che avveniva la notte della Vigilia di Natale era quella dell’abbeveramento delle bestie (oggi la Brianza è un’«eccellenza» nel campo dell’arredamento, ma una volta era una terra essenzialmente agricola): i contadini attingevano l’acqua benedetta e la facevano bere agli animali che tenevano nella stalla come rito propiziatorio. Poiché questi erano il mezzo di sussistenza per tutta la famiglia (da essi si potevano avere il latte, la carne, la lana...), il gesto tradizionale di abbeverarli con acqua benedetta significava proteggerli da eventuali malattie.

Fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso non esisteva la Messa di mezzanotte che viene celebrata oggi: la Messa tradizionale di quegli anni era quella delle 6 del mattino, lo stesso orario della sveglia di chi lavorava nei campi o nella stalla; tornate dalla Messa, le donne iniziavano a cucinare il pranzo di Natale. Non essendoci la Santa Messa della Vigilia, si attendeva la mezzanotte in famiglia prima di mangiare la «busecca» (la «trippa»), un piatto tipico della cucina lombarda; a Monza e nei comuni limitrofi la busecca aveva una specialità, veniva cioè preparata con le interiora dei polli e dei galletti di casa, parti che venivano pulite il pomeriggio e messe a bollire fino a sera. La Vigilia era rigorosamente di magro, come i venerdì di Quaresima, tradizione che è stata mantenuta.

Quando venne introdotta la Messa di mezzanotte, in alcuni centri come Monza cominciarono ad arrivare gli zampognari che andavano in giro per la città allietandola con canzoni e sonorità caratteristiche del Natale; erano vestiti in maniera tipica, con maglioni in lana di pecora e non erano improvvisati: erano zampognari veri, di professione, che venivano dalla Bergamasca e dall’Abruzzo. Oggi gli zampognari sono presenti in ogni paese brianzolo, grande o piccolo, coi loro vestiti e i loro strumenti dal suono profondo.


I simboli del Natale

Il presepio non mancava in nessuna famiglia: le statuine erano molto più grandi delle attuali e realizzate in cartapesta, spesso ereditate dai padri e dai nonni; di solito si arricchiva la sacra rappresentazione con del muschio raccolto – rigorosamente dalla parte del fusto orientata a Nord – dalla base degli alberi di gelso che dominavano i campi. La benedizione del presepio, nei paesi di rito ambrosiano, avveniva pochi giorni prima del Natale da parte del sacerdote che veniva direttamente nelle case dei parrocchiani. Tutte queste tradizioni si sono conservate intatte e sono oggi vivissime.

L’albero di Natale venne invece introdotto alla fine degli anni Sessanta: nei primi tempi, al posto delle palline colorate era addobbato con mandarini che non venivano mangiati fino al 25 dicembre e che spandevano il loro profumo per tutta la casa. Anche le luminarie, soprattutto nei paesi più piccoli, furono introdotte dopo gli anni Sessanta.

Poiché all’inizio del secolo scorso molte famiglie contadine ed artigiane della Brianza (e non solo) vivevano in condizioni di povertà, non ci si poteva permettere ciò che non era strettamente necessario, compresi i giocattoli. Per non privare i bambini dei doni, i genitori si impegnavano per costruire da sé qualche gioco per i propri figli: le mamme recuperavano pezzi di vecchie lenzuola per dare forma alle bambole di pezza, le «pigotte» (tornate alla ribalta da qualche anno), a cui pitturavano il viso e che poi vestivano anche con abitini ricamati; i papà, a volte aiutati dai falegnami che avevano bottega, costruivano piccoli giocattoli di legno, qualcuno anche intagliato. Il cavalluccio di legno era un classico, ma venivano fatti anche piccoli divanetti o sedioline; per i maschietti venivano anche costruiti arnesi da lavoro adatti alle loro mani, come il «martelet»; il pallone veniva fatto con la vescica del maiale gonfiata. Tutti questi giochi sono tornati in auge, anche se al legno si preferisce la plastica, meno evocativa ma più economica, ed al lavoro in famiglia si è sostituita la produzione in serie. I regali (giocattoli e vestiti) li portava Gesù Bambino durante la notte di Natale e i bambini li trovavano la mattina appena svegli; Babbo Natale arriverà solo dopo i primi anni dell’ultimo dopoguerra, al seguito degli Americani.


Il pranzo di Natale

Il pranzo di Natale era il momento in cui tutta la famiglia si ritrovava riunita insieme. Prima che si iniziasse a mangiare, era tradizione da parte dei bambini far trovare una letterina piena di buoni propositi sotto il piatto di papà: si prometteva maggior impegno a scuola, maggior educazione in famiglia e si assicurava di volersi impegnare nello svolgere un lavoro anche faticoso.

Natale era uno dei pochissimi giorni in cui i contadini facevano festa concedendosi una deroga ai frugali pasti quotidiani. Il menù tipico del Natale era rituale: antipasti con salumi, magari con il salsicciotto conservato appositamente dall’anno prima. Seguiva il classico risotto giallo con il formaggio, qualche volta con la salsiccia, il cappone (chi lo poteva allevare) lesso con cetrioli dell’orto messi a settembre nei vasi di aceto, o con la mostarda. Nella parte Sud della Brianza c’era anche chi preparava il «pulin de Nadal», il «tacchino di Natale». Chi non poteva permettersi cappone o tacchino si limitava al meno costoso pollo arrosto con patate al forno. La frutta secca chiudeva il pranzo.

Il pomeriggio di Natale trascorreva in maniera differente a seconda dei paesi: era tipica la tombolata, con i fagioli secchi usati per coprire i numeri delle caselle.

Fino all’inizio degli anni Sessanta in alcuni paesi dopo il pranzo c’era l’usanza di recarsi al cimitero ad onorare i propri morti.

Durante l’anno si sceglieva un bel ciocco e lo si teneva da parte, per farlo poi ardere nel camino il giorno di Natale e, in questo modo, scaldare Gesù Bambino.


Santo Stefano

Il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, era, come oggi, il giorno in cui si mangiavano i «resti» di Natale ma fino agli anni Sessanta era anche l’unico momento delle feste in cui il fidanzato della figlia poteva entrare in casa: accadeva la sera, dopo cena, quando era tradizione e buona abitudine presentarsi con panettone (quello «buono», di marca) e spumante.


Capodanno

Fino agli anni Sessanta non vi era l’usanza di aspettare svegli lo scoccare della mezzanotte, perché il 31 dicembre era un giorno come tutti gli altri. Dal 1962 nelle grandi città, soprattutto a Monza, si è cominciato a riunirsi in famiglia, facendo qualche giocata a tombola, per aspettare l’anno nuovo, come oggi. E allo scoccare della mezzanotte è tradizione lanciare dalle finestre una scodella o un piatto usurati in segno di cambiamento rispetto al passato.


Epifania

La festa dell’Epifania rappresenta il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme: questi Magi erano sapienti che, guidati da una stella, arrivarono dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù appena nato, offrendogli oro, incenso e mirra; successivamente vennero indicati come «Re» e ne vennero identificati tre, con i nomi Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Nelle case l’arrivo di Magi veniva originariamente vissuto la sera del 5 gennaio con un rito che talvolta viene ripetuto tuttora: sul tavolo veniva lasciato del fieno per il cammello, un mandarino, dell’acqua e del vino per i Magi. Alla mattina, lasciando sul tavolo gli avanzi del cibo o fatti sparire dal padrone di casa, comparivano i regali (di solito, dei dolcetti); ai Magi, la tradizione folkloristica ha affiancato la figura della Befana come distributrice di doni. Per i bambini più monelli viene portato il carbone nero, un dolce che richiama in tutto la forma del carbone ed è composto prevalentemente da zucchero.

Alcune grandi aziende di Milano e della provincia organizzavano per l’Epifania uno spettacolo (generalmente il circo) per i figli dei dipendenti, al termine del quale offrivano un pacchetto regalo, contenente di solito un gioco. Oggi il circo è quello di Montecarlo e lo spettacolo è anticipato alla serata di Capodanno, con diretta su Rai 3... ma senza pacchetto regalo finale!

(dicembre 2016)

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