Breve storia dell’opera lirica
Dal Seicento ad oggi, l’opera lirica ha sottolineato alcune tra le pagine più belle e coinvolgenti della creatività artistica dell’uomo

La musica ed il canto sono state probabilmente le prime arti prodotte dall’uomo: la nostra stessa natura biologica ci fa aborrire il silenzio (cosa di cui ci possiamo rendere conto quando, in assenza di ogni rumore, sentiamo i timpani dolere). I nostri antenati, immersi nei mille e mille suoni delle foreste primordiali (il fischio del vento fra le fronde, lo scroscio di una cascata, il crepitio di un ramo che si spezza…), dovettero imparare ben presto ad imitare il bramito di un cervo innamorato, il grugnito di un cinghiale, il cinguettio degli uccelli; potevano riprodurre questi suoni per attirare l’animale prescelto verso una trappola. Poi si saranno accorti che potevano modulare suoni loro propri, che non erano semplice copia di quelli che udivano dall’ambiente circostante; e che potevano sottolinearli col battito delle mani, dei piedi. Appresero che la corda di un arco o una pelle tesa tra due legni vibra e manda suoni; che altri suoni produce il soffio entro un corno di rinoceronte o una canna di bambù forati (in Slovenia è stato ritrovato quello che pare il primo esempio di flauto della storia, ricavato da un femore d’orso).

Da quel momento, la musica ed il canto hanno sempre accompagnato i momenti più significativi della vita umana: musica squillante e gioiosa quando si nasce, solenne e armoniosa quando ci si sposa, cupa e malinconica quando ci si irrigidisce nel gelo della morte; musica potente e marziale per accompagnare gli eserciti in marcia o gli incontri politici di alto livello. In un tempo non molto remoto era uso cantare per alleviare la fatica del lavoro: lo facevano, ad esempio, le donne che andavano a lavare i panni nei lavatoi pubblici o le mondine che raccoglievano il riso.

Quando la musica classica s’incontra con la poesia, si fonde con lei, allora nasce una forma artistica d’incomparabile bellezza: l’opera lirica!


Claudio Monteverdi e l’opera barocca

L’opera nasce a Firenze nell’ultimo scorcio del Cinquecento, per merito di quegli intellettuali ed artisti che si ritrovano insieme con l’intento di recuperare le tradizioni del mondo classico, com’è tipico della cultura rinascimentale. Si sa che le antiche tragedie greche avevano un supporto musicale, perché ne hanno parlato poeti, filosofi, uomini di cultura, purtroppo ci restano solo ventitre frammenti con annotazioni musicali che coprono un arco di seicento anni! L’unica opera completa è l’Epitaffio di Sicilo, che però è tarda, risalendo ad un periodo compreso tra il II secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo.

Per gli antichi Greci, la musica aveva un ruolo educativo, di crescita dell’individuo e della società. Platone, nella Repubblica, scrive che quando il bambino impara la musica (e la danza, e il canto…), da adulto avrà la capacità di prendere decisioni, di distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. Forse è per questo che ritiene che a far musica debbano essere i filosofi.

Gli uomini del Rinascimento recuperano tutte queste notizie e tentano di ridar vita all’opera di soggetto e tradizione classica: nascono così gli intermezzi, dove la musica è a supporto di scene teatrali.

Con l’Orfeo di Claudio Monteverdi si entra in un nuovo genere di musica. L’opera, una «favola in musica», è un capolavoro assoluto, godibilissima ancor oggi; ancor più importante in quanto è la prima opera ancora in repertorio di cui la partitura ci sia giunta interamente.

La favola di Orfeo è conosciuta da tutti: è la storia del suonatore di cetra, figlio di Apollo, e del suo amore per la bella ninfa Euridice. Un amore infelice, dato che Euridice morirà per il morso d’un serpente. Orfeo, disperato, si recherà nei tenebrosi recessi del regno dei morti, addormenterà col suono della sua cetra il nocchiero Caronte e si presenterà ai reggitori dell’oltretomba, Plutone e Proserpina, per chiedere di riportare in vita la ninfa. Plutone acconsente, ma ad un patto: finché non sarà uscito a riveder le stelle, non dovrà mai volgersi verso Euridice («Ma, pria ch’ei tragga il piè da questi abissi / non mai volga ver lei gli avidi lumi, / ché di perdita eterna / gli fia certa cagione un solo sguardo. / Io così stabilisco»). Purtroppo Orfeo, oppresso dai dubbi, non riesce a resistere («Ma mentre io canto, ohimè chi m’assicura / ch’ella mi segua?»), si volta e, così, la perde per sempre. Tornato sulla terra, verrà dilaniato dalle ninfe, stufe del suo inconsolabile dolore.

Il finale è modificato: l’opera è un regalo per le nozze di Francesco Gonzaga, principe di Mantova e Monferrato, e al termine della partitura Orfeo ascende al cielo, accompagnato da Apollo, pur dolente perché gli viene negata la morte che l’avrebbe portato a rivedere Euridice («Nel sole e ne le stelle / veggherai le sue sembianze belle» tenta di consolarlo Apollo).

L’Orfeo viene rappresentato con questo finale scelto dal committente il 24 febbraio 1607 al teatro di Mantova, ed è un successo.

Quando parliamo di teatro, non dobbiamo però pensare ad un teatro dei nostri giorni: nel Seicento i teatri sono piccolissimi, perché le opere sono limitate alla corte; ci si porta da casa lo sgabello su cui sedersi, il cibo, la voglia di scambiarsi discorsi prima, dopo ed anche durante lo spettacolo. Il primo teatro pubblico aprirà i battenti nel 1637; a Venezia, nel Seicento ve ne saranno almeno venti (con tutto quel che ne consegue: venti orchestre, uno stuolo di cantanti, parolieri…). Dovendo attirare il grande pubblico, l’opera si adeguerà al gusto popolare, con effetti scenografici ridondanti, luci diffuse da numerosissime torce (questo spiega perché i teatri sono gli edifici che in quest’epoca s’incendiano con più frequenza…).

Essendo racchiuso in un ambiente piccolo, il «recitar cantando» prevede un’impostazione vocale «naturale» e un’orchestra ridotta con strumenti dai suoni lievi e delicati: clavicembali, flauti, arciliuti (liuti con lunghi manici per intonare note gravi); i tromboni sono piccoli e dal suono del tutto dissimile da quelli odierni.

L’Orfeo rappresenta la musica con tutto il suo potere: è la Musica stessa che si presenta per prima sulla scena, lei che tocca sensibilità che la parola o l’immagine, da sole, non possono raggiungere – «Io la Musica son, ch’a i dolci accenti / so far tranquillo ogni turbato core, / ed or di nobil ira, ed or d’amore / posso infiammar le più gelate menti. / Io su cetera d’or cantando soglio / mortal orecchio lusingar talora, / e in guisa tal de l’armonia sonora / de le rote del ciel più l’alme invoglio. / Quinci a dirvi d’Orfeo desio mi sprona, / d’Orfeo che trasse al suo cantar le fere, / e servo fe’ l’inferno a sue preghiere, / gloria immortal di Pindo e d’Elicona».

Per Monteverdi, però, la musica non ha la preponderanza che raggiungerà in futuro: la parola determina (il testo è un gioiello di raffinatezza stilistica), la musica ha il compito di «colorare» la parola; la musica evoca, anticipa, sottolinea la situazione. Può essere gioiosa e tonale, stonata, o tacere del tutto in base ad un gusto delicato che ben presto scomparirà.

Alla fine dell’opera, i personaggi del coro (nei loro eleganti abiti seicenteschi), canteranno la morale della favola, in ossequio alla tradizione del coro della tragedia greca:

«Vanne, Orfeo, felice e pieno
a goder celeste onore,
là ’ve ben non vien mai meno,
là ’ve mai non fu dolore,
mentr’altari, incensi e voti
noi t’offriam lieti e devoti.
Così va chi non s’arretra
al chiamar di nume eterno,
così grazia in ciel impetra
chi qua giù provò l’inferno,
e chi semina fra doglie
d’ogni grazia il frutto coglie».

(Per chi volesse ascoltare quest’opera, consiglio la versione diretta da Nikolaus Harnoncourt, con Philippe Huttenlocher e Dietlinde Turban, balletto e coro dell’Opernhauses di Zurigo, edita dalla Deutsche Grammophon).


Wolfgang Amadeus Mozart e l’Illuminismo

Mozart muore povero, senza denaro, sepolto in una fossa comune; non solo per le spese a cui non è mai riuscito a rinunciare. Le sue ultime opere, le sinfonie viennesi, non vengono capite; d’altronde il pubblico è cambiato, ormai i nobili non richiedono più la presenza dei musicisti nei loro palazzi. Il flauto magico, estrema opera del grande compositore (unitamente all’incompleto Requiem), viene composto per «far cassa», per compiacere al teatro popolare che si è andato affermando; si presenta come una fiaba per bambini, ma la semplicità è solo apparente, in realtà l’opera vuole dare degli insegnamenti, imbevuta com’è dei principi filosofico-politici emersi nel tardo illuminismo europeo e degli ideali massonici (la libertà, l’uguaglianza, la fraternità…).

Il flauto magico, rappresentato per la prima volta a Vienna il 30 settembre 1791, racconta una storia d’amore, anzi, di amori: l’amore alto, nobile, fra il principe Tamino e Pamina, e quello più giocoso e popolaresco fra l’uccellatore Papageno e Papagena. In un paesaggio di sogno, tra piramidi e obelischi che richiamano la simbologia massonica, Tamino e Papageno vengono incaricati dalla Regina della Notte di liberare la figlia Pamina, rapita da Sarastro; per riuscire nell’impresa, dona al principe un flauto d’oro incantato e a Papageno un carillon magico. In realtà, Tamino scoprirà che Sarastro è un uomo saggio che ha sottratto Pamina all’influenza nefasta della madre. Si sottoporrà poi, in un tempio, alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti e di sposare Pamina. Al suono del flauto magico, le prove sono superate con successo. Nella scena conclusiva Monostato, un servitore malvagio di Sarastro, la Regina della Notte e le tre dame ai suoi ordini meditano di uccidere Sarastro e di prendere così il sopravvento sugli iniziati, ma sono subito travolti e vinti. Tutta la scena è invasa dalla luce del sole, mentre Sarastro e i sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre, del bene sul male.

Nell’opera, Mozart riesce a dare ad ogni personaggio dei valori ed uno stile musicale proprio, una sua caratteristica vocale: Tamino, eroe ricco, di un elevato ceto sociale, è un tenore; il saggio Sarastro è un basso; la Regina della Notte è un soprano, come pure la figlia Pamina, ragazza nobile ma molto semplice. La storia viene narrata come in un Singspiel, una forma musicale che alterna brani cantati e brani recitati, tipica del teatro popolare; ma prevale la musica sul testo, è la musica che dà tutta una spinta notevole alla parola.

Il vero protagonista è Papageno, un baritono, che suona il flauto di Pan a cinque canne; è il simbolo dell’uomo semplice e senza grandi ambizioni, come semplici sono i suoi desideri, il cibo, una ragazza da amare: «L’uccellator ecco son io – / sempre allegro, olà, oplà! / Io son noto come uccellatore / a vecchi e giovani in tutto il paese. / Vorrei una rete per ragazze, / ne acchiapperei a dozzine per me. / Poi me le chiuderei in gabbia, / e tutte le ragazze sarebbero mie. / […] / Lei allora mi bacerebbe affettuosa, / sarebbe mia moglie ed io suo marito. / Si addormenterebbe al mio fianco, / e io la cullerei come un bambino». Papageno è un uomo umile, rude, grezzo, facilone, all’inizio pure bugiardo, ma rivela poi una certa saggezza popolare: chiunque, sembra dirci Mozart, può aspirare all’illuminazione. Unisce così il «diletto» al «giovamento», perché chi va a teatro possa imparare comportamenti e valori morali, ed essere sicuro della vittoria della saggezza sull’ignoranza, della luce sulle tenebre. «La fermezza ha vinto» cantano i sacerdoti nell’ultima scena, «e incorona quale premio / la bellezza e la saggezza / con lode eterna!».

(Per chi volesse ascoltare quest’opera, consiglio la versione diretta da Franz Welser-Möst, con Matti Salminen, Malin Hartelius e Anton Scharinger, coro dell’Opernhauses di Zurigo, edita da TDK).


Giuseppe Verdi e l’opera romantica

Giuseppe Verdi nasce nel 1813, lo stesso anno di Wagner; l’Aida, la sua opera più famosa, appartiene invece alla piena maturità: la prima rappresentazione avviene alla Khedival Opera House del Cairo, in Egitto, il 24 dicembre 1871, due anni dopo che è stato aperto il Canale di Suez, evento per la celebrazione del quale l’opera è stata commissionata.

Siamo nel pieno del Romanticismo, e l’Aida contiene tutti gli elementi dell’opera romantica: l’amore verso la Patria, la guerra, l’amore puro ma anche l’amore «di interesse».

È l’epoca del Grand-Opera (potremmo dire, con un paragone magari un po’ azzardato ma efficace, del «film» ricco di effetti speciali): l’opera, un’opera «d’arte totale» (come la definisce Wagner) deve unire le arti, le «tre sorelle» (la musica, la poesia, la danza), e proporsi come un punto di riferimento culturale. Il consenso popolare di cui gode il Grand-Opera è vastissimo: nascono impresari che sanno guadagnar bene catturando il pubblico con coreografie grandiose ed esotiche (è di moda ispirarsi a tutto ciò che è diverso dalla cultura e dalla storia europea), enormi orchestre, balletti, movimenti scenici corali (la musica corale ha un grande effetto di aggregazione, ed infatti Verdi la usa per rappresentare sempre il popolo).

La trama di Aida è all’apparenza abbastanza semplice, ma con una profondità psicologica rara: Radamès, condottiero egizio, ama Aida, schiava etiope di Amneris, figlia del Faraone. Le sue prime parole mostrano tutta l’esuberanza del giovane: «Se quel guerriero / io fossi! Se il mio sogno / si avverasse!... Un esercito di prodi / da me guidato... e la vittoria... e il plauso / di Menfi tutta! ~ E a te, mia dolce Aida, / tornar di lauri cinto... / dirti: per te ho pugnato e per te ho vinto! / Celeste Aida, forma divina, / mistico serto di luce e fior; / del mio pensiero tu sei regina, / tu di mia vita sei lo splendor. / Il tuo bel cielo vorrei ridarti, / le dolci brezze del patrio suol; / un regal serto sul crin posarti, / ergerti un trono vicino al sol». Aida ama Radamès, ma anche Amneris è innamorata di lui (i momenti in cui i tre personaggi, sui quali si regge quasi tutta l’opera, hanno dialoghi interiori, sono incredibilmente toccanti). Quando Radamès parte con l’esercito per marciare contro gli Etiopi che hanno invaso l’Egitto, Amneris scopre ch’egli è innamorato di Aida; ma è sicura che riuscirà a prevalere sulla rivale (tema dell’unione tra l’amore ed il potere). Radamès torna vincitore; tra i prigionieri etiopi, Aida scorge il padre, Amonasro, il Re d’Etiopia, ma egli fa credere agli Egizi che il vero Re è stato ucciso in battaglia. Il Faraone proclama Radamès suo successore e gli concede la mano di Amneris, poi acconsente alla sua richiesta di rilasciare i prigionieri, tranne Aida e Amonasro che restano come ostaggi per garantire la pace. Ma il Re etiope medita la vendetta, e convince la figlia (facendo leva sull’amore verso la sua Patria) a farsi rivelare da Radamès la posizione dell’esercito egizio. Radamès, fidandosi di Aida con la quale progetta di fuggire per non essere costretto a sposare Amneris (che non ama), le confida le informazioni richieste dal padre; a questo punto compare Amonasro che rivela la sua identità. I tre sono però scoperti da un sacerdote (nell’opera sono i sacerdoti, non il Faraone, a detenere il potere effettivo); Amonasro e Aida fuggono, mentre Radamès, disperato per avere involontariamente tradito il suo Re e la sua Patria, si consegna prigioniero ed è processato. Con un gesto di grande coraggio, il primo che compie in vita sua, rifiuta di parlare a sua discolpa e viene condannato a morte per tradimento: sarà sepolto vivo. Nella cripta dove viene rinchiuso, trova Aida: ella si è nascosta lì per morire insieme a lui. I due amanti accettano il loro terribile destino, dicono addio al mondo e alle sue pene, e aspettano l’alba, mentre Amneris piange e prega sopra la loro tomba durante le cerimonie religiose e la danza di gioia delle sacerdotesse.

Il Grand-Opera ha di solito finali esuberanti, travolgenti; l’Aida invece nasce in pianissimo e termina in pianissimo, mostrando tutta l’abilità di Verdi nell’uso della musica per tratteggiare i caratteri dei vari personaggi. Il finale è tragico, ma la musica diviene simile ad una danza liberatoria: la morte è elemento di unione ed anche di felicità, perché concede ai due amanti di rimanere insieme, anche se per poche ore, ciò che sarebbe stato negato loro dalla vita.

(Per chi volesse ascoltare quest’opera, consiglio la versione diretta da Riccardo Chailly, con Violeta Urmana e Roberto Alagna, orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano, edita dalla Decca).


Giacomo Puccini e l’esotico fantastico

Tra le molteplici opere liriche che hanno segnato il secolo appena trascorso, nessuna raggiunge i livelli di Turandot; in essa riecheggia l’impressionismo di Debussy, vibra l’orchestrazione della Sagra della primavera di Stravinsky: molte le masse corali, soprattutto nella prima parte, che la rendono un vero e proprio «kolossal» lirico. Puccini giostra magistralmente, cambia di colpo scene e atmosfere, tronca una melodia per ripartire con un’altra. Nonostante l’opera lirica goda d’ottima salute, dato che non solo viene riproposta al grande pubblico ma vi è una continua fioritura di nuovi autori, Turandot rimane come la montagna del Purgatorio di dantesca memoria circondata dall’oceano.

L’opera, tratta da una fiaba settecentesca, si ambienta a Pechino in un tempo astorico, quasi mitico. Si apre senza ouverture, ponendoci subito al centro di una città ricca di personaggi, ma scurita dalla notte e dalla mancanza d’amore. Entra in scena un Mandarino, che ci annuncia quale sarà il fulcro della vicenda narrata:

«Popolo di Pekino!
La legge è questa: Turandot la Pura
sposa sarà di chi, di sangue regio,
spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà.
Ma chi affronta il cimento
e vinto resta porga alla scure la superba testa!».

Calaf, figlio di Timur (Re barbaro spodestato), vede Turandot «bianca al pari della giada / fredda come quella spada» e se ne innamora all’istante. Decide quindi di provare a risolvere gli enigmi, senza ascoltare né le preghiere della serva Liù (segretamente innamorata di lui da quando, in passato, le aveva rivolto un sorriso) né delle ammonizioni di Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno (vere e proprie «macchiette»), che si lamentano di come siano costretti ad assistere alle esecuzioni delle vittime di Turandot, mentre preferirebbero vivere tranquillamente nei loro possedimenti in campagna.

Calaf riesce a risolvere gli enigmi e propone a Turandot una nuova sfida: se lei riuscirà prima dell’alba a scoprire il suo nome, egli si dichiarerà vinto e potrà essere ucciso.

Ed ecco, vengono portati prigionieri Timur e Liù: qualcuno ricorda di averli visti parlare con Calaf quella sera, sicuramente lo conoscono. Liù dichiara di essere l’unica a sapere il suo nome; subisce molte torture, ma continua a tacere. Turandot le chiede che cosa le dia tanta forza di sopportare il dolore, e Liù risponde che è l’amore; poi strappa di sorpresa un pugnale ad una guardia e si trafigge a morte, cadendo esanime ai piedi di Calaf.

Il corpo senza vita di Liù viene portato via, seguito dalla folla. Turandot e Calaf restano soli, e lui la bacia. Quindi le fa il dono della vita rivelandole il proprio nome: Calaf, figlio di Timur. Ma Turandot è ormai vinta. All’alba, davanti al trono imperiale, dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero: «Il suo nome è… Amore». E si abbandona tra le braccia di Calaf, mentre la folla acclama:

«O sole!
Vita!
Eternità!
Luce del mondo è Amore...
È Amor!
Il tuo nome, o Principessa, è Luce
È Primavera...
Principessa!
Gloria!
Amor!».

Com’è noto, l’opera è incompiuta: Puccini ha composto tutta la partitura fino alla morte di Liù, colei che con il suo sacrificio trasferisce a Turandot l’amore che prova per Calaf; è Liù, l’ancella innamorata, e non l’altera principessa Turandot, la vera eroina pucciniana. Probabilmente, il Maestro non è riuscito a trovare l’ispirazione per interpretare il trionfo d’amore conclusivo, così estraneo alla sua sensibilità. L’ultima parte dell’opera, basata su scarni appunti di Puccini, è di Franco Alfano.

La prima rappresentazione ha luogo, dopo la morte di Puccini, al Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini. Egli arresta la rappresentazione alla morte di Liù, ovvero dopo l’ultima pagina completata dall’autore, rivolgendosi così al pubblico: «Qui termina la rappresentazione, perché a questo punto il Maestro è morto!».

(Per chi volesse ascoltare quest’opera, consiglio la versione diretta da James Levine, con Eva Marton e Plácido Domingo, orchestra e coro del Metropolitan Opera di New York, edita dalla Deutsche Grammophon).

(luglio 2012)

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