Poesie di Natale
Alcuni tra i più bei componimenti dedicati alla festa più famosa del mondo

Natività

Gerard van Honthorst, L'Adorazione dei Pastori, 1622, Wallraf-Richartz-Museum, Colonia (Germania)

Tra le varie feste che popolano il calendario, la più sentita è sicuramente il Natale. Il Natale non lo si vive, semplicemente: lo si respira! Le luminarie variopinte, le vetrine dei negozi vestite a festa, gli alberi di Natale che occhieggiano dai giardini, e poi gli zampognari che spargono le loro note per le strade, i presepi allestiti nelle chiese, quel senso di un qualcosa di misterioso e magnifico che si avvicina... Uno dei miei più bei ricordi del Natale riguarda la Messa di mezzanotte celebrata in una chiesa piccola piccola: la penombra soffusa nella quale le fiammelle delle candele brillavano come sciami di lucciole, le volute d’incenso che si spandevano a profumare l’aria, il tepore della preghiera, l’oro del canto di lode elevato mentre all’esterno la neve turbinava tra gli sbuffi del vento...

Il Natale ha poi questo di incredibile: che, davvero, si direbbe che ci renda più buoni, almeno per un giorno. Conosco persone che stanno a sproloquiare contro la religione per 364 giorni all’anno, ma che alla fatidica data del 25 dicembre non rinunciano a farti gli auguri con un sorriso a trentadue denti – e sono pure sinceri! Conosco persone che ritengono che andare a Messa sia una perdita di tempo, ma che per nulla al mondo rinuncerebbero a quella di Natale a mezzanotte.

Il Natale è anche questo, un amalgama di suggestioni e riflessioni che ci sorprendono, ci commuovono, forse ci fanno persino migliori.

E il Natale è poesia, certo: dall’antichità ai giorni nostri, esso è stato – ed è tuttora – ispirazione per una folta schiera di poeti. È pacifico che il lirismo dei Vangeli sia inarrivabile, eppure non si riesce a rinunciare a fissare nell’inchiostro le proprie emozioni, sensazioni, impressioni. Perché il Natale è parte della vita di tutti, credenti e scettici.

La più famosa poesia sul Natale è forse la Canzoncina a Gesù Bambino di Alfonso Maria de’ Liguori (di cui tutti conosciamo la dolcissima melodia) scritta in pieno Settecento, il secolo della razionalità, dei «lumi» della ragione, della scienza che tutto brama spiegare. Non ci si può non stupire dinanzi all’amore immenso di un Dio che accetta la sofferenza più grande per ricevere in cambio, dall’uomo, un ben misero amore:

«Tu scendi dalle stelle, oh Re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo, al gelo;
oh Bambino mio divino,
io ti vedo qui a tremar.
Oh Dio beato,
ah, quanto ti costò l’avermi amato!

A Te che sei del mondo il Creatore
mancano panni e fuoco, oh mio Signore.
Caro eletto pargoletto,
quanto questa povertà
più m’innamora.
Giacché ti fece amor povero ancora.

Tu lasci del tuo Padre il divin seno
per venire a penar su questo fieno.
Dolce amore del mio core,
dove amor ti trasportò?
Oh Gesù mio,
per chi tanto patir? Per amor mio!

Ma se fu tuo volere il tuo patire,
perché vuoi pianger poi, perché vagire?
Sposo mio, amato Dio,
mio Gesù, t’intendo sì;
ah, mio Signore,
Tu piangi non per duol, ma per amore.

Tu piangi per vederti da me ingrato
dopo sì grande amor sì poco amato.
Oh diletto del mio petto,
se già un tempo fu così,
or Te sol bramo.
Caro, non pianger più; ch’io t’amo, io t’amo.

Tu dormi, oh Ninno mio; ma intanto il core
non dorme, no, ma veglia a tutte l’ore:
deh! Mio bello e puro agnello,
a che pensi? Dimmi su,
oh amore immenso!
A morire per te, rispondi, Io penso.

Dunque a morir per me Tu pensi, oh Dio.
E che altro amar fuori di Te poss’io?
Oh Maria, speranza mia,
s’io poc’amo il tuo Gesù,
non ti sdegnare;
amalo tu per me, s’io nol so amare».

In una rapidissima carrellata tra i molteplici aspetti del Natale, non si può prescindere dalla satira graffiante di Giuseppe Gioacchino Belli, il più grande poeta dialettale dell’Ottocento romano. Un uomo senza peli sulla lingua, forse inquieto (arrivò addirittura ad esprimere il desiderio che i suoi componimenti venissero distrutti, considerandoli osceni; per fortuna, non fu esaudito), che nella poesia Abbacchio, oliva e pesce ci parla dell’aspetto più godereccio del Natale:

«Ustacchio, la viggija de Natale
te mmettete de guardia sur portone
de quarche Mmonziggnore o Ccardinale,
e vvedrai entrà sta priscissione.

Mo entra una cassetta de torrone,
mo entra un barilozzo de caviale,
mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.

Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
l’oliva dolce, er pesce de Fojjano,
l’ojjio, er tonno, l’anguilla de Comacchio.

Inzomma, inzino a nnotte, a mmano ammano,
te lli tt’accorgerai, padron Ustacchio,
cuant’è ddivoto er popolo romano».

Dolce, tenero, quasi fiabesco potrebbe sembrare il Natale che racconta Miguel de Unamuno in Stava la Vergine Maria; ma è un Natale nel quale già incombe l’ombra della croce, a focalizzare l’attenzione sul sacrificio che Gesù ha accettato per amor nostro, il suo destino che inizia a compiersi fin dall’Incarnazione, e dalla nascita:

«Stava la Vergine Maria
cullando il presepio, a Betlemme;
ninnando Dio che dormiva:
ritornello del canto era “amen”.
Sognavo il bue e l’asinello,
sognavo la creazione;
e Dio – oh, che bimbo stupendo! –
dormiva senza sognare.
L’alba del tempo spuntava,
vestiva i sogni di luce;
Maria la Vergine sognava,
cantava sognando la croce».

Dinanzi a tanto amore, si marca di più la nostra pochezza. Che cosa abbiamo da dare in cambio? È ciò che si chiede Francis Jammes in Epifania, una delle poesie più brevi e al tempo stesso più profonde che siano mai state scritte sul Natale:

«“Non ho come i Magi
che sono dipinti sulle immagini
dell’oro da recarti”.

“Dammi la tua povertà”.

“Non ho neppure, Signore,
la mirra dal buon profumo
né l’incenso in tuo onore”.

“Figlio mio, dammi il tuo cuore”».

Un campanile che scocca lentamente le ore, mentre Giuseppe e Maria sono alla ricerca di un alloggio dove passare la notte. Un’immagine anacronistica, se qualcuno legge l’evento come accaduto una volta sola, in un tempo preciso, e in un preciso Paese. Ma un’immagine vera, per chi sa che ogni anno è come se l’evento si ripetesse qui ed ora, durante La Notte Santa, come in questo melologo popolare di Guido Gozzano:

«“Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei”.
Il campanile scocca
lentamente le sei.

“Avete un po’ di posto, oh voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto avete per me e per Giuseppe?”.
“Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri, le stanze ho piene zeppe”.
Il campanile scocca
lentamente le sette.

“Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!”.
“Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto”.
Il campanile scocca
lentamente le otto.

“Oh voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!”.
“S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove”.
Il campanile scocca
lentamente le nove.

“Osteria dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!”.
“Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...”.
Il campanile scocca
lentamente le dieci.

“Oste di Cesarea...”. “Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame;
non amo la miscela dell’alta e bassa gente”.
Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! “Ecco una stalla!”. “Avrà posto per due?”.
“Che freddo!”. “Siamo a sosta”. “Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue...”.
Maria già trascolora, divinamente affranta...
Il campanile scocca
la mezzanotte santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaje,
oh genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro Paese!
Risplende d’un astro divino
la notte che già fu sì buja
risplende d’un astro divino.
È nato il Sovrano Bambino!
È nato!
Alleluja!
Alleluja!».

Tutti consideriamo il Natale un giorno di gioia e di festa: il giorno per eccellenza in cui la famiglia si trova riunita. Ma per alcuni può essere anche un giorno di solitudine e di tristezza, di isolamento; è questo il Natale di Giuseppe Ungaretti che, il 26 dicembre 1916, a Napoli, preferisce rimanere in compagnia dei propri pensieri e del fuoco che crepita nel camino:

«Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare».

Il Natale è festa universale, che riguarda tutti: il suo messaggio trascende i luoghi e i tempi, varca gli oceani per parlare agli uomini di tutti i Paesi, e di tutte le epoche. Così, ci dice Gianni Rodari, non è impossibile trovare Il pellerossa nel presepe, giunto anche lui, come i Magi, al cospetto del Bambino:

«Il pellerossa con le piume in testa
e con l’ascia di guerra in pugno stretta,
com’è finito tra le statuine
del presepe, pastori e pecorine,
e l’asinello, e i maghi sul cammello,
e le stelle ben disposte,
e la vecchina delle caldarroste?
Non è il tuo posto, via! Toro Seduto:
torna presto di dove sei venuto.
Ma l’indiano non sente. O fa l’indiano.
Se lo lasciamo, dite, fa lo stesso?
O darà noia agli angeli di gesso?
Forse è venuto fin qua,
ha fatto tanto viaggio,
perché ha sentito il messaggio:
pace agli uomini di buona volontà».

La poesia che amo di più è Nella fredda stagione del premio Nobel Iosif Brodskij; una composizione nella quale si amalgamano una precisa ricostruzione storica dell’evento ed un messaggio teologico di alto livello, senza rinunciare alle suggestioni che tanto colpiscono la nostra immaginazione:

«Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa
più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,
nacque un Bambino per salvare il mondo, in una grotta;
turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno.
Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari
del bue fumanti di vapore, i Re Magi; quei doni
da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati.
Il Bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella.
Con gran circospezione, senza neppure un battito
di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità
del Cosmo, giusto dall’altro estremo la stella fissava
nella grotta il Bimbo sulla greppia. Di un Padre era lo sguardo».

Oggi il Natale è una festa largamente avvelenata dal consumismo, tanto che molti neppure si fermano a riflettere perché si festeggia, qual è il suo senso. Non così una volta: al tempo dei nostri nonni il Natale era davvero Un giorno speciale, come ci racconta Monica Orsi, una giovane poetessa, in una poesia che ha il ritmo quasi di una filastrocca, e che si sofferma a raccontare come veniva vissuto questo giorno in una terra operosa e al tempo stesso semplice come il Veneto di pochi decenni fa:

«“Finalmente Natale!
Che giorno eccezionale
al vecchio cascinale.”

Racconta la mia nonna,
ch’era giovane donna:
“Bianca camicia e gonna,

un golf e si partiva
per la chiesa votiva,
che bella comitiva!

La Vigilia digiuno;
per i salmi al raduno
non mancava nessuno.

E un ceppo nel camino
arso fino al mattino
per scaldare il Bambino.

Il giorno della festa
arance nella cesta,
mandarini a richiesta.

A pranzo l’agnolotto
o il prezioso risotto:
che cibo signorotto!

Il pollo cucinato
in modo prelibato,
la sera riscaldato.

E per dolce un pezzetto
di buon torrone all’etto:
ecco tutto il banchetto!

La casa senza orpelli,
statuette, né alberelli:
solo momenti belli.

Che ricordi speciali:
seppur senza regali,
sentirsi un po’ Reali!”».

Mi sia consentito chiudere questa breve raccolta di componimenti ispirati al Natale con una mia vecchia poesia, Presepio. Poche immagini, come un dipinto appena accennato, per lasciare al lettore il compito di completarlo con le sue emozioni, alla luce delle sue esperienze, e vivere nella serenità un lieto Natale. Sono questi i miei auguri per voi:

«Un soffio bianco
sul selciato, velo sponsale posato
ad occultar crude mattonelle.
Un calor palpitante, un impeto
materno, come caldo focolare,
tra la paglia
e il frenetico ansar d’animali.
Lontano, zampogne
ed inni di pastori, un canto
prolungato e lieve.
Neve».

(dicembre 2014)

Tag: Simone Valtorta, feste, poesie di Natale, religione.