La salama da sugo
Un’eredità dai Duchi Estensi

Uno dei momenti più rilassanti, tranquilli, sereni dell’umana esistenza, è quello nel quale tutti si fermano, lasciando da parte tutti i loro pensieri, per dedicarsi interamente al piacere della gola. D’altra parte, il connubio fra cucina e l’apprezzamento dei vari vini con il giusto abbinamento con i cibi è una cosa veramente splendida. In effetti, si può ritenere l’enogastronomia come l’immagine rappresentativa della cultura, dell’economia, delle tradizioni di un Paese: è un’arte. È un simbolo di conoscenza, che si dimostra essenziale sia nei processi formativi, sia nei rapporti con altri Paesi. Però, non sempre la cucina è ritenuta un fatto positivo: talvolta è considerata addirittura negativa, tanto da influenzare la moralità della gente e la sua confessione religiosa.

Un esempio in tal senso proviene dall’antichità romana. Tacito nei suoi Annales parla di Gaio Petronio Arbitro, vissuto nel I secolo dopo Cristo alla Corte di Nerone; fu definito «Arbiter Elegantiae», cioè «Giudice di raffinatezza»; e ne parla come di un uomo di buon gusto e raffinato, un esteta – se si vuole – che apprezza i piaceri ricercati, mentre disdegna il comportamento delle persone grezze e maleducate. Nel XV libro della sua opera Satyricon (in 16 libri), facendo riferimento alla «Coena Trimalchionis» («La cena di Trimalcione»), infatti, esprime il suo parere negativo sui banchetti, ritenendoli esempi di spreco, di lusso esagerato, di gozzoviglia, di stravizio, di sconcezza, insomma del tutto contrari a un corretto comportamento civile; inoltre, secondo la religione cristiana, la cucina è aggiunta ai peccati capitali: «gula et luxuria» («voracità e sesso») sono ritenute fra i peggiori.

Per fortuna, nel Rinascimento ci fu un cambiamento dei pareri, che passarono da quelli negativi di cui si è appena detto, ai festeggiamenti indetti nelle Corti dai nobili, dai titolati, dagli aristocratici, dai ricchi eccetera, i quali, gareggiando fra loro, oltre all’ostentazione del lusso, messo chiaramente in evidenza, offrivano quanto di meglio al «signore palato». E alla preparazione delle feste si adoperavano artisti di fama, quali Giulio Romano, Bernardo Buontalenti e lo stesso Leonardo, che allestivano trionfi fastosi e scenari fantasiosi, dove la ricchezza si sprecava.

La cucina ebbe un sussulto quando, sempre nel Rinascimento, iniziarono a giungere in Europa dall’Oriente le spezie. Da qui, il trionfo del pepe, della cannella, del chiodo di garofano, della noce moscata, dello zenzero, dello zafferano, che diedero una svolta storica alla cucina. Infatti, con la fantasia e la creatività e con il contributo delle spezie, i cibi conseguirono sapori nuovi e coinvolgenti.

Le novità gastronomiche conquistarono le Corti Occidentali, dove s’imposero; e da queste uscirono specialità da stuzzicare dispoticamente l’appetito.

Ferrara, la Corte dei Duchi d’Este, mecenati e protettori delle arti e degli artisti, fu la culla di un piatto che tuttora fa scalpore: la salama o salamina da sugo, definita da tanti come la Regina di Ferrara, di cui non è mai stata chiarita la ragione del nome femminile e che da cinque secoli si mostra come il meglio della produzione gastronomica locale. Già ai primi del 1700, lo storico e drammaturgo ferrarese Antonio Frizzi, nella sua opera Memorie per la storia di Ferrara, riporta la storia del suino e della sua importanza nell’arte culinaria di sempre. Secondo lui, i primi produttori della salama da sugo sono stati quei montanari di Bormio, Borbegno, Trento che, durante i freddi inverni, scendevano nella Valle Padana, nelle vicinanze di Ferrara, e offrivano la loro opera nella lavorazione delle carni dei maiali. Lui stesso tentò di spiegare il perché del nome «salamina», facendo riferimento alla battaglia di Salamina avvenuta nel 480 avanti Cristo e di cui parlò nella sua opera La Salameide, poemetto giocoso con le note, pubblicato a Venezia nel 1772 in 200 esemplari: i Greci, che avevano battuto i Persiani, notando che i cadaveri dei nemici uccisi in battaglia non erano putrefatti, pensarono che ciò fosse dovuto all’uso del sale marino e del profumo di noce moscata, chiodi di garofano, pepe e cannella. Forse l’accostamento è stato troppo rimediato e, pertanto, l’etimologia resta del tutto incerta.

In ogni modo, il nome di salama da sugo così come la sua ricetta si devono anche al parroco di Tresigallo Vincenzo Domenico Chendi che nel Settecento pubblicò numerosi scritti fra cui L’agricoltore ferrarese, in cui parla della cura della terra, degli animali e di ciò che se ne può ottenere.

Comunque, la prima volta che della salama da sugo si hanno notizie precise, è stata quando il Magnifico Lorenzo de’ Medici, in una lettera datata 15 febbraio 1481 indirizzata al Duca Ercole II d’Este e conservata presso la Biblioteca Estense di Modena, ringraziò, dichiarando che la «salama da sugo» gli è giunta «graditissima».

Era quello il periodo in cui dominava la figura di Cristoforo da Messisbugo che, al servizio del Duca Alfonso I d’Este, era praticamente un tuttofare, vale a dire non era un cuoco di professione, bensì lo «scalco di Corte», cioè l’addetto al taglio delle carni, oltreché il direttore di ristorante, l’organizzatore dei pranzi e delle cene anche in senso scenografico e pure l’economo addetto alla custodia e alla distribuzione delle provviste e al controllo delle spese della Corte.

A lui si deve l’opera Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale, pubblicata postuma nel 1549, nella quale è catalogato tutto quanto serve per predisporre un pranzo da Re, dalla decorazione a tutto ciò che serve come attrezzatura in cucina, e completata con un’aggiunta di ricette, descritte con chiarezza e minuziosità per la loro realizzazione. Il libro, che sicuramente è da considerare un fondamento essenziale della gastronomia italo-europea di quell’epoca, fra le tante altre ricette riporta pure quella definita «Torta ebraica» (per la precisione, il nome completo è «Albondiga a fare vivanda alla Hebraica»). Lo scritto concerne il periodo nel quale la comunità ebraica ferrarese prosperava. L’opera, soggetta poi a diverse nuove edizioni con varianti, fu messa in commercio con il titolo Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda. In questo scritto, hanno trovato spazio i primi consigli noti per la preparazione del caviale di storione ferrarese, dove, fra l’altro, si legge: «caviaro per mangiare, fresco, o per salvare». Allora il Po era ricco di storioni, belli, grossi e ben pasciuti, per cui il Messisbugo non aveva problemi nell’inserire nei banchetti sia il pesce, sia le sue uova. A proposito degli storioni, si può fare riferimento al suo Desinare che fece il Conte Federico Quaglia allo Illustrissimo Duca di Chartres etc., dove è descritto che si erano serviti in tavola di caviaro fresco piatti 6, di sturione fritto, fette 24, con arance, zuccaro e cannella in piatti 6, di sturione pezzi 12 e 12 pezzi di luccio allesso in piatti 6.

Le donne estensi, abbastanza infastidite perché – secondo le stesse – i loro uomini, più che pensare a loro, erano costantemente fuori Ferrara, impegnati in guerre, battaglie, gozzoviglie, baldorie, stravizi e quant’altro, al loro ritorno, per sollevarne lo spirito, il morale e le forze, quando ritornavano stanchi e sfiniti, li nutrivano con cibi tonificanti e rinvigorenti, fra cui la salama da sugo. E per di più, sono molti che ritengono che la sua invenzione sia da attribuire a Lucrezia Borgia, moglie di Alfonso I, la quale l’aveva ideata come una massa di carne rossa di suino, imbevuta di vini potenti e insaporita dalle droghe, che in quel periodo furoreggiavano. Ma se anche ciò non fosse del tutto vero, tuttavia resta il fatto che lei ne caldeggiò il consumo, inserendola nelle vivande offerte agli ospiti della sua Corte e favorendone la diffusione nella varie Corti con cui il Ducato aveva contatto.

Si è pure detto che l’energia che si sviluppa da quel salame sia talmente potente da rendere inutili i vestiti pesanti, anche in regime di gelo, grazie al calore che si sprigiona all’interno del corpo. Come si dice, provare per credere.

La salama da sugo è stata cantata da Scipione Sacrati Giraldi nella sua opera La Porcheide nel XVIII secolo. Recentemente, ne ha parlato Mario Soldati quando, nel 1958, portò in televisione il suo programma Viaggi nella Valle del Po alla ricerca di cibi genuini e scrisse Il mangiare ferrarese con l’autorevole prefazione di Folco Quilici e Massimo Albertini. Quest’ultimo, nel 1969, si lamentò perché, secondo lui, «Ferrara, epica in poesia, spesso è trascurata in cucina: quella specie di cotechino sferoide meriterebbe fama più vasta e maggiore diffusione». E nemmeno sfuggì dagli argomenti trattati nella trasmissione Quelli della notte, nella quale Renzo Arbore fece una disamina sulla salama senza sugo e sulla salama da sugo. E non mancò un poeta, Francesco Pastonchi che, con un pizzico di malizia, espresse così il suo parere: «Davvero credo che l’abbiano inventata per i loro uomini le donne di Casa d’Este... insieme con la bellezza e la cortesia di una Casa Ferrarese». E non finisce qui. Nel 1967, nell’Annuario dell’Accademia Italiana della cucina, Itinerari della buona tavola, si legge che «siamo giunti a Ferrara, la celebre città della salama da sugo».

Sono stati tanti e di diversa estrazione sociale coloro che si sono interessati alla salamina ferrarese: storiografi, letterati, poeti, cuochi e, perché no, buongustai, che ne hanno parlato, cantato e questo brusio dura ancora dopo ben 500 anni dalla sua creazione e dalla sua comparsa sulle ricche mense della Corte Ducale Estense. Anche Ungaretti ha celebrato gli aromi e i sapori di questa delizia culinaria, veramente idonea per le mense nobili: un insaccato di cui – diciamolo senza falsa modestia – solamente i Ferraresi veraci sono in grado di garantire la qualità. Riccardo Bacchelli l’ha citata due volte nella sua opera Il mulino del Po. Renzo Ravenna, pur essendo Ebreo, ha confessato di averla gustata due volte l’anno. Anzi, a questo proposito si può ricordare che la comunità ebraica, presente a Ferrara da secoli, ne ha prodotta una variante «kasher», cioè un prodotto avente l’idoneità a essere consumato dal popolo ebraico secondo le regole alimentari stabilite dalla Torah. Anche Gabriele d’Annunzio e la divina Greta Garbo ebbero modo di apprezzarla.

Che si tratti di qualcosa di diverso e di eccezionale lo dimostra il tempo: infatti, malgrado siano trascorsi cinque secoli, la salama da sugo è sempre sulle tavole, viva e spavalda come quando per la prima volta fece la sua apparizione sui deschi ducali; lo stesso tempo che, senza tanti riguardi e tanta pietà, ha seppellito quantità astronomiche di invenzioni di stregoni, negromanti o di apprendisti tali, che hanno tentato, senza riuscirci, di approntare per i commensali, spesso giustamente perplessi, decine di migliaia di piatti e leccornie o spacciati per tali.

Due parole perplesse, o forse meglio dire incavolate desidero spenderle per il tentativo dal parte dell’Unione Europea, fortunatamente fallito, che, dimostrandosi contraria alla tipicità dei prodotti locali, e fra questi anche la nostra salamina, perché le carni rosse fanno male, fece imbestialire i suoi estimatori, decisi a non mollare. La minaccia dei buongustai di uscire dall’euro non è stata portata avanti, perché non si è resa necessaria (naturalmente, si è trattato di una provocazione fra le righe, però questo sta a dimostrare in che modo la notizia avesse fatto scalpore).

Tanto di cappello al supermercato che ha preso a cuore il problema della salama da sugo tanto da organizzare corsi per insegnare come prepararla, rivelando trucchi, segreti e astuzie affinché i nostri macellai possano scegliere la carne, gli ingredienti, la conservazione e infine la cottura. Ma non entriamo nei particolari della scelta degli ingredienti, della preparazione e della cottura: si trovano ovunque, per cui non è il caso di aggiungere di più.

Piuttosto è bello ricordare che ancora oggi – il campanilismo «docet» – è in piedi un confronto in merito a due versioni della composizione: il dubbio è se sia migliore la salama da sugo della scuola di Portomaggiore (più rossa e con minore sugo) oppure quella di Madonna Boschi, salama da sugo al cucchiaio (più sugosa e con l’aggiunta di fegato di maiale; da gustare, dopo averla scoperchiata come un uovo alla «coque», estraendola con un cucchiaio dal contenitore costituito dalla vescica di maiale).

Personalmente le ho degustate – e continuo farlo – entrambe e confesso che sono entrambe eccellenti, tanto che mi è impossibile esprimere un parere a favore o contro: non c’è che dire, sono squisite tutte e due. Sono passati 500 anni dalla sua nascita e probabilmente fra altri 500 anni sarà ancora in piedi la discussione per Portomaggiore o Madonna Boschi fra gli amatori di questo salume, mentre assaporano il caldo, fumante, profumato contenuto succulento e impareggiabile. Ma anche allora, il parere sarà unanime: un salume sempre e comunque divino!

(aprile 2021)

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