Storia della spesa pubblica e del debito pubblico
Un fenomeno che ha prodotto importanti cambiamenti nel corso della storia

La spesa pubblica e il relativo debito pubblico che spesso si crea, potrebbero sembrare una questione insolita per gli studi storici, invece hanno determinato eventi storici notevoli.

La caduta dell’Impero Romano negli studi scolatici è stata spesso messa in relazione alle invasioni barbariche, ma la storiografia più recente ritiene l’invasione, che in genere aveva la forma dell’immigrazione concordata (ai popoli barbarici venivano assegnate delle terre in cambio della difesa dei confini dello stato), come un danno, ma non un evento tale da determinare la decadenza dello stato. La decadenza dello stato romano ha cause culturali, la svalutazione delle istituzioni statali da parte dei cristiani, ma soprattutto cause economiche, con Diocleziano e Costantino la burocrazia crebbe a dismisura, le opere pubbliche divennero eccessive, la legislazione su lavoro e prezzi diventò molto rigida e la tassazione impoverì la cittadinanza (particolarmente il ceto medio) e la costrinse a dei cambiamenti di attività per sfuggire a tale gravame. Molti piccoli proprietari terrieri cedettero in qualche modo le loro proprietà ai grandi latifondisti che godevano generalmente di una tassazione minore divenendo in pratica dei loro coltivatori dipendenti, mentre alcune professioni vennero abbandonate.

L’Impero realizzato da Carlo Magno, in breve tempo dopo la sua morte divenne un’istituzione fatiscente, lo stato centrale, non essendo più in grado di retribuire i funzionari locali (i conti), lasciò che essi si impadronissero delle terre su cui avevano giurisdizione. Per un paio di secoli l’Europa conobbe quella situazione difficile che viene chiamata «anarchia feudale».

Successivamente il Re di Spagna Filippo II nella seconda metà del Cinquecento pur disponendo delle grandi ricchezze provenienti dalle colonie americane, si trovò con una montagna di debiti creati dal padre (Carlo V) con le banche per finanziare le sue guerre contro la Francia. Il nuovo Re subentrato al padre nel 1556 non tentò di ridurre la spesa pubblica, ma decise di «spremere» di tasse i Paesi Bassi spingendoli nel 1566 alla ribellione, evento al quale singolarmente parteciparono in un primo periodo uniti sia cattolici che protestanti. Nel 1557 Filippo II dichiarò bancarotta mettendo in crisi le banche che avevano concesso i prestiti. E non fu un evento unico, sotto il suo regno si ebbero bancarotte nel 1560, 1575, 1596. I suoi successori sul trono di Spagna fra il 1607 e il 1662 arrivarono al fallimento di stato sei volte.

Nel 1642 divenne Primo Ministro di Francia il Cardinale Mazzarino, che si trovò con un potere enorme essendo anche il reggente della Corona nel periodo in cui Luigi XIV era minore d’età. La Guerra dei Trent’anni aveva richiesto enormi spese a cui il Cardinale intendeva fare fronte con una politica fiscale più dura e l’accentramento dei poteri della Corona. Nel 1648, anno conclusivo della guerra, si ebbe la Fronda Parlamentare a causa del tentativo di tassare i nobili membri del Parlamento di Parigi, seguita subito dopo dalla Fronda dei Principi contrari all’accentramento assolutistico.

Il Re Sole, Luigi XIV, assunse i pieni poteri nel 1661, amante del lusso non badò a spese per le necessità della corte e le guerre, anch’egli mise in difficoltà finanziaria lo stato, non arrivò alla bancarotta ma si ritrovò odiato da gran parte del popolo che subiva l’iniqua tassazione.

Sempre in Francia, 70 anni dopo il megalomane Borbone di cui abbiamo parlato, lo stato si ritrovò di nuovo con le casse dello stato vuote. Funzionari ed esercito si ritrovarono quindi nelle condizioni di non poter reprimere le insurrezioni e si arrivò alla Rivoluzione Francese che dopo un breve periodo liberale portò al regime del Terrore e successivamente ad un periodo di governi non democratici.

Nella prima parte dell’Ottocento innumerevoli sono state le bancarotte dei paesi latino-americani dovute all’instabilità politica, fenomeno che ha inciso sugli investimenti e lo sviluppo di queste nazioni, creando un ritardo storico rispetto agli altri paesi.

Questa brevissima sintesi di fatti storici mette in luce l’importanza della questione fiscale, che dovrebbe essere equa, tale da garantire l’attività regolare dello stato nelle sue attività strettamente istituzionali, coprire le spese per i suoi funzionari, ma non tale da essere eccessiva e mettere in difficoltà i produttori grandi e piccoli. I produttori (lavoratori e imprenditori) sono la base del corretto funzionamento dell’economia di un paese, se con una tassazione eccessiva li si spoglia delle loro risorse e dei loro mezzi di lavoro o li si costringe alla fuga, lo stato si impoverisce rapidamente e oltre tutto il gettito fiscale invece di accrescersi diminuisce drasticamente. Questo fenomeno è stato ben accertato dagli studiosi. L’economista Arthur Laffer negli anni Ottanta del secolo scorso ha studiato tale tendenza, l’eccesso di fiscalismo produce una minore propensione a nuove attività imprenditoriali (o all’ampliamento di quelle già esistenti), riduce i consumi delle famiglie e degli investimenti che tendono a migrare verso paesi meno esosi, rende le aziende meno competitive rispetto a quelle straniere, infine la pressione fiscale eccessiva crea distorsioni nel campo economico, spingendo gli operatori a lavorare in quei settori meno vessati ovvero dove è più facile lavorare «nel sommerso».

In precedenza il celebre economista John Keynes si era espresso a favore di un incremento della spesa pubblica (anche in deficit), politica che diede un sostegno ad alcune crisi finanziarie, ma nel corso dei decenni si verificò che tale pratica provocava un aumento dell’inflazione e costringeva lo stato ad essere più duro verso i cittadini. Negli ultimi decenni si è verificato che i paesi con minore pressione fiscale hanno in genere tassi di crescita economica superiori. La Spagna reduce da una crisi fra le peggiori in Europa dopo il 2008, con una pressione fiscale al 34% del reddito nazionale (dati del 2014) presenta attualmente una crescita economica intorno al 2,8%, l’Inghilterra con una pressione fiscale al 37% presenta una crescita economica superiore al 2%. L’Italia e la Francia con una pressione più elevata, rispettivamente del 44% e del 47% presentano una crescita economica inferiore all’1,5%. La Germania si colloca in una situazione intermedia, la pressione fiscale è al 40% e il tasso di crescita economica è all’1,8%.

Il Regno d’Italia nei primi decenni si trovò in difficoltà finanziarie a causa dei numerosi impegni relativi alla formazione del nuovo stato e i governi della Destra cavouriana si impegnarono fortemente per bilanciare entrate ed uscite dello stato. La Spesa Pubblica italiana in cifre assolute e pro capite si mantenne bassa per tutto il periodo del Regno d’Italia (ma relativamente alta rispetto agli altri paesi europei) fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nel Primo Dopoguerra lo stato italiano, come quello francese ed inglese si ritrovò a causa del conflitto con pesanti debiti verso gli Stati Uniti, che vennero saldati non senza difficoltà. La Germania a causa dei debiti di guerra si ritrovò con una inflazione spaventosa e i problemi economici da essa prodotti favorirono i movimenti estremistici di Destra e di Sinistra.

Senza considerare l’inflazione, la spesa pubblica italiana era pari agli attuali 4-5 miliardi di euro nel periodo della Destra al potere (1861-1876), a 7-8 miliardi nel periodo 1883-1905 per crescere leggermente negli anni successivi fino al Primo Conflitto Mondiale. Negli anni di guerra salì vertiginosamente raggiungendo i 38 miliardi, per scendere leggermente negli anni successivi. Nel periodo fra le due guerre si mantenne fra i 20 ed i 30 miliardi. Nel Secondo Dopoguerra si conservò piuttosto stabile e non molto gravosa, ma con i governi di Centro-Sinistra (1962) si ebbe una crescita pressoché continua e costante, particolarmente marcata negli anni Ottanta. Guardando ai dati pro capite, fra il 1862 e il 2016 abbiamo che la spesa pubblica è aumentata di circa 75 volte in termini reali, senza considerare quindi l’inflazione.

La crescita senza sosta della Spesa Pubblica negli ultimi decenni è stata accompagnata da un aumento della pressione fiscale e dalla emissione di una grande quantità di titoli di stato, tuttavia i deficit annuali dello stato si andavano continuamente accumulando. Il Debito Pubblico raggiunse l’apice nel 1998 superando il 130% del PIL per poi decrescere lentamente negli anni successivi (112%) fino alla grande crisi economica internazionale del 2008. Negli altri paesi europei la situazione si presentava decisamente migliore, anch’essa raggiunse l’apice nel 1998 ma con un valore medio molto inferiore, intorno al 78%. Dopo il 2008 il debito pubblico dell’Italia e degli altri paesi europei è aumentato nuovamente, ma in un contesto decisamente peggiore. Negli anni passati la crescita economica italiana era molto elevata, attualmente è molto bassa sia rispetto al passato che rispetto agli altri paesi europei. Contemporaneamente le recenti esperienze di grandi banche e stati in difficoltà finanziaria hanno reso gli investitori molto più attenti. Tale situazione fa pensare che lo stato italiano si possa trovare nei prossimi anni in gravissime difficoltà finanziarie e che ad un certo punto potrebbe non ottenere più credito perché ritenuto incapace di procedere alla sua restituzione.

La drammatica situazione dei conti italiani degli ultimi decenni si è venuta a creare senza che ci fossero eventi eccezionali da affrontare, le ragioni di tale dissesto sono da ricercare in cause politiche e culturali. Negli anni Settanta l’idea di economia di libero mercato sembrava esporre gli individui a gravi rischi. Insieme ad essa si riteneva che lo stato avesse importanti compiti di pianificazione economica e non avendo come finalità il profitto, svolgesse le attività economiche in maniera migliore e più equa verso i cittadini. Più in generale si riteneva che lo stato nell’economia agisse nell’interesse della collettività mentre i privati agissero per il loro tornaconto personale. Queste tendenze furono in gran parte una illusione, con lo stato gestore delle attività economiche crebbero le inefficienze delle aziende sottoposte al potere pubblico, gli sprechi di denaro, i clientelismi e con esse la corruzione nonché la creazione di un ceto parassitario. Interessanti al riguardo le sperequazioni presenti nel nostro paese, il costo del personale amministrativo in Sicilia è di 350 euro per abitante, quello della Lombardia è di 20 euro. La spesa regionale complessiva è di 12.000 euro pro capite in Val d’Aosta e al di sotto dei 3.000 euro in Lombardia, Emilia, Campania e Marche. L’Italia è il quinto paese in Europa per spesa pubblica in rapporto al PIL (davanti a noi stanno Francia, Finlandia, Austria, Belgio) e il secondo (dopo la Grecia) per debito pubblico. I paesi scandinavi noti negli anni Sessanta per il loro elevato welfare, hanno negli ultimi anni silenziosamente rivisto tale politica, avendo visto che presentava costi estremamente pesanti e incentivava la gente a vivere a spese dello stato.

Negli anni dei governi Berlusconi si era tentato di estirpare il male alla radice, attraverso i tagli della spesa pubblica degli enti locali e delle amministrazioni centrali, ma i governi successivi hanno abbandonato tale politica e si sono impegnati in operazioni di strana ingegneria economica. Alcuni ritengono che il risanamento dei conti pubblici si possa realizzare con la lotta all’evasione fiscale, se da una parte il rispetto delle leggi in materia tributaria è importante, è anche vero che per certe aziende in difficoltà l’applicazione piena di tali leggi le porterebbe al collasso. I keynesiani sono favorevoli all’ampliamento della cosiddetta «domanda del settore pubblico», ma è difficile immaginare che questa fornisca risultati positivi deprimendo la «domanda del settore privato», così come parlare di incremento di investimenti pubblici di fronte agli enormi deficit delle aziende con capitali di stato non sembra una soluzione idonea. Negli ultimi due anni l’Italia ha conosciuto un enorme beneficio attraverso la politica monetaria della Banca Centrale Europea che ha tagliato drasticamente i tassi di interesse (estremamente pesanti per noi) e sostenuto i titoli di stato dei paesi dell’eurozona, sarebbe stata una grande opportunità per ridurre deficit e debito pubblico e mettere il paese in sicurezza, diversamente i recenti governi sotto la spinta di politici di professione e burocrati che intendevano continuare a gestire grandi masse di denaro, non hanno realizzato i cambiamenti di politica economica necessari ed anzi il cosiddetto avanzo primario (la differenza fra entrate ed uscite con l’esclusione degli interessi) è tornato a peggiorare, passando dal 2,3% del 2012 all’1,5% del 2016. In conclusione la serietà e il senso di responsabilità nella gestione del patrimonio dei cittadini costituiscono elementi importantissimi per il buon andamento della società.

(agosto 2017)

Tag: Luciano Atticciati, storia della spesa pubblica, storia del debito pubblico, pressione fiscale eccessiva, finanze pubbliche, keinesiani, Arthur Laffer, aziende pubbliche, deficit, avanzo primario.