Strage universale
Guerra: tragedia dei caduti e limiti delle strutture sanitarie

La valutazione oggettiva della guerra e della sua costante permanenza nel corso della storia muove da un fatto ineludibile: l’avvento dell’uomo sul proscenio del mondo coincide con quello della conflittualità. Il poeta latino Tibullo si chiese con raccapriccio chi fosse stato colui che per primo aveva inventato l’orrendo strumento delle armi: vista l’impossibilità di darsi una risposta, perché le armi erano sempre esistite, soggiunse semplicemente che costui era stato ferino e crudele, avendo inaugurato una prassi destinata a durare nei millenni, e di cui non si riesce a scorgere la fine, nonostante i ricorrenti appelli del pacifismo.

Oltretutto, sino a pochi secoli or sono lo spargimento del sangue e del dolore durante le guerre non fu oggetto di alcun intervento volto a ridurre sia pure marginalmente le sofferenze dei combattenti, chiamati all’estremo sacrificio in nome di valori ritenuti sempre più opinabili dalle coscienze civili dell’epoca contemporanea, ma profondamente condivisi da quelle popolari del tempo che fu: a Roma si ritenne che morire per la Patria fosse cosa dolce e giusta, come attestano monumenti e scritture. Soltanto con Umanesimo e Rinascimento, che collocarono la persona in un nuovo ruolo centrale, per taluni aspetti assoluto in quanto soggetto e non più oggetto di storia, si cominciò a pensare al dolore come ad un fatto da esorcizzare, anche se la ragione di stato e gli interessi che tutelava finirono per mantenere l’accettazione della guerra, se non anche dell’inganno e del tradimento, come fenomeni tristemente necessari. Al massimo, chi soccombeva in battaglia, spesso tra lunghe ed atroci sofferenze, poteva confidare nei «campi eterni» di manzoniana memoria.

L’opportunità non soltanto umanitaria, ma nello stesso tempo economica, di preservare per quanto possibile le forze combattenti (ogni uomo esprimeva un investimento ed un costo) fece la sua prima comparsa nel Seicento, quando Carlo Emanuele II di Savoia organizzò il primo servizio sanitario militare, destinato a frequenti e significativi aggiornamenti in corso d’opera, fino alla svolta decisiva della Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, quando le allucinanti stragi di San Martino e Solferino turbarono talmente l’Imperatore Francese Napoleone III, da avviare la creazione della Croce Rossa. L’impegno degli stati e delle rispettive strutture militari per ottimizzare l’assistenza ai feriti divenne più diffuso ed organizzato, anche se non fu mai conforme alle necessità effettive del campo di battaglia: se non altro, per la sproporzione tra fabbisogni e mezzi disponibili, o se si preferisce, per la contraddizione insanabile fra deontologia e realtà.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale questa discrasia pervenne a livelli per molti aspetti insuperabili. Limitando una valutazione esemplificativa al solo fronte italo-austriaco, è congruo ricordare che lo sforzo della Sanità militare fu oggettivamente immenso: all’inizio operavano da parte italiana 1.200 medici che salirono a 18.000 verso la fine del 1918, mentre gli ospedali da campo passarono da una settantina a 200, senza contare il raddoppio dei posti letto nelle retrovie, giunti a 200.000; circa 60 treni attrezzati per il trasporto dei feriti, e diverse navi ospedale. Non fu marginale il contributo femminile, a cominciare da quello di 8.000 crocerossine, simboleggiato dal sacrificio della ventunenne Margherita Parodi, caduta sul fronte dell’Isonzo, che riposa assieme agli altri nel Sacrario Nazionale di Redipuglia.

Nonostante questo sforzo, il prezzo della guerra fu straordinariamente e drammaticamente alto. Secondo valutazioni per forza di cose approssimative, ma attestate dal Libro d’Oro nominativo predisposto dopo la fine del conflitto, si ebbero non meno di 650.000 morti, con l’aggiunta di tutti coloro che scomparvero negli anni per i postumi delle ferite e delle malattie, ed il cui numero è rimasto a più forte ragione di arduo calcolo; per non dire dei 950.000 feriti non gravi e dei 650.000 Grandi Invalidi, la cui assistenza si protrasse per decenni. Ad aggravare il bilancio, tra l’ultimo anno di guerra e quello successivo sopravvenne l’epidemia di «spagnola» (cosiddetta da Alfonso XIII di Spagna che fu tra i primi colpiti) scoppiata negli Stati Uniti per cause mai chiarite in maniera esaustiva, con circa 40 milioni di vittime in tutto il mondo, di cui 700.000 in Italia: cifre certamente maggiorate dalle difficili condizioni generali indotte dalla guerra. Sono tutti numeri che fanno riflettere, anche per quanto riguarda gli effetti a lungo termine di perdite tanto elevate, e le mutazioni irreversibili nella struttura economica e sociale degli stati, compresi quelli vincitori.

Forse più che altrove, la Sanità Italiana fece il possibile, ma le cronache dell’epoca sono impietose nel descrivere il clima infernale in cui i chirurghi dovevano operare in prossimità del fronte, le difficoltà allucinanti dei trasporti, e la mancanza degli strumenti di prima necessità che divenne tragica durante la ritirata di Caporetto, quando ogni struttura organizzativa fu coinvolta nel collasso.

Le riflessioni che scaturiscono da quella tragedia epocale, e dalle tante altre che vennero prima e sarebbero venute dopo, sono certamente tante, sia sul piano etico che su quello politico, a cominciare dall’allocuzione del Papa Benedetto XV circa la «strage inutile». In ogni caso, bisogna sottolineare prioritariamente la sperequazione tra gli intenti e la realtà effettiva, perché da una parte si manifesta l’impegno militare e civile per assicurare alla Sanità di guerra un livello funzionale accettabile, ma dall’altra emerge in modo drammatico l’impotenza, che diventa assoluta nelle fasi più violente del conflitto, di gestire in maniera sufficiente una domanda assistenziale comunque abnorme per quantità e per condizioni ambientali. La tragedia della guerra, oltre a tutto il resto, è anche quella di rassegnarsi all’ineluttabile, e di essere costretti a negare l’elementare diritto di assistenza ai feriti ed ai moribondi, mentre funzionavano a dovere i plotoni d’esecuzione comandati a fucilare senza processo i presunti disertori.

L’utopia della guerra pulita è destinata a rimanere tale: come attestano le vicende dei due conflitti mondiali e quelle più recenti, la Sanità continua a fare il possibile ma non è attrezzata per i miracoli, e le vittime civili sono sempre numerose, diversamente da quanto accadeva nell’antichità. Il progresso sta solo nella tecnologia delle armi, e mancano poeti come Tibullo per contestare la loro funzione, ed esprimere un dissenso etico lontano anni-luce dalla bassa politica dei pacifisti a senso unico.

(agosto 2017)

Tag: Carlo Cesare Montani, Tibullo, Umanesimo, Rinascimento, Carlo Emanuele II di Savoia, Napoleone III, San Martino della Battaglia, Solferino, Croce Rossa, Seconda Guerra d’Indipendenza, Margherita Parodi, Redipuglia, Alfonso XIII di Spagna, Caporetto, Papa Benedetto XV, spagnola.