Storia del vino
Una bevanda che ha accompagnato la nostra storia da ere remotissime

«Vivan le femmine, / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d’umanità!»: così cantava, dinanzi a un bicchiere di Marzimino, il libertino Don Giovanni, protagonista dell’omonima opera lirica musicata da Mozart (Don Giovanni, atto II, scena XVIII). Anche se il brano più famoso (e più cantato) su questo tema è probabilmente quel Libiamo ne’ lieti calici che apre i brindisi nella Traviata di Verdi (Traviata, atto I, scena II) e che tutti hanno ascoltato almeno una volta nella vita. In questi, e in altri brani famosi, il vino – questa bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di mosti ricavati esclusivamente da uve fresche o leggermente appassite – viene descritto come una bevanda che inebria, porta allegria e rende più focoso l’amore.

È, a tutti gli effetti, una bevanda millenaria tipica della civiltà mediterranea: fin dai tempi più antichi ha assunto una potente valenza simbolica, configurandosi, insieme con il pane, come espressione di civiltà superiore e trovando ampio spazio in riti e celebrazioni. Oggi se ne producono moltissimi tipi, diversi per contenuto di alcol, sapore, aroma, colore. Non ha valore nutritivo ma, in dosi moderate (in genere uno o due bicchieri al giorno) stimola l’appetito, aiuta a digerire e, in genere, rende allegri; al contrario, il suo consumo eccessivo causa un progressivo accumulo di sostanze tossiche con effetti nocivi, soprattutto a carico del fegato.

Il vino è una bevanda antichissima di cui si fa cenno nella Bibbia e in diversi altri remoti documenti. I testi biblici narrano che fu Noè, dopo il diluvio, il primo a piantare una vigna; ma, non conoscendo gli effetti del vino, ne bevve troppo e si ubriacò. Mito a parte, la vite è effettivamente originaria dell’Asia Minore e da lì si è diffusa in Medio Oriente, in Africa Settentrionale, nella Penisola Balcanica, in Spagna e, soprattutto, in Italia. Ha segnato nella storia umana il passaggio da un’esistenza precaria e nomade, dominata dalla necessità di sfuggire ai morsi della fame e della sete, a forme di vita più stabili e più ricche di beni materiali e di conoscenze: il vino fissò il momento in cui i nostri antenati poterono deporre l’angoscia e la paura e nutrire desideri e sogni per l’edificio di quella che sarebbe stata la civiltà futura.

Siti archeologici

Siti archeologici di produzione del vino e dell'olio

In questo contesto al vino, «bevanda che scalda il petto», l’uomo arrivò spesso ad attribuire valori sacrali attinenti la sfera dello «spirito»: divenne un mezzo, nel rito e nel gioco, per cercare un rapporto diretto o almeno una qualche percezione dell’Assoluto che è dietro l’universo di oggetti e di rapporti – un modo di comunicare e mettere in comunione. In Grecia il vino era un usuale elemento sacrificale e come bevanda inebriante aveva un’importanza speciale nei culti orgiastici e soprattutto nel culto di Dioniso. Nell’antica Roma, dove due feste, segnate già nel calendario arcaico con il nome di «Vinalia», celebravano la prima, in aprile, l’inizio della consumazione del vino nuovo e la seconda, in agosto, l’inaugurazione della stagione della vendemmia, esistevano norme religiose che regolavano tutto il ciclo produttivo del vino, dalla coltivazione della vigna alla potatura e alla vendemmia, fino al divieto di usare vini ottenuti dalla seconda pressione per i sacrifici.

Il popolo ebreo considerava la presenza di vigneti rigogliosi come uno dei tratti che caratterizzavano la Terra Promessa: per un Ebreo possedere una vigna era un segno di ricchezza e di potenza e la viticoltura costituiva una nobile e redditizia attività. Nell’ambito dell’economia ebraica il vino deteneva una posizione di tutto rispetto, tanto da essere citato spesso nella Bibbia e in altri testi sacri come un dono di Dio, la cui abbondanza era un segno di benedizione (non a caso il primo miracolo di Gesù è la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana!). Lo stesso popolo d’Israele era spesso rappresentato come una vigna, coltivata e curata dallo stesso Dio. Banchetti comunitari a base di pane e vino dolce sono presenti nei testi di Qumrān. Ne derivava un carattere di sacralità che venne trasferito poi dall’antica tradizione israelita alla nuova liturgia cristiana, in cui il vino benedetto diviene il sangue di Gesù, come il pane benedetto ne diviene il corpo (mistero della transustanziazione).

Benedizione di Dio ma anche, talvolta, strumento del diavolo, l’uso del vino appartiene a quelle realtà misteriose ed ambivalenti, che tanto spesso s’incontrano sul cammino dell’uomo e che le consuete categorie del buono e del cattivo, dell’utile e dell’inutile, del salutare e del nocivo non riescono a spiegare completamente. Ma la vigna è anche testimonianza d’un rapporto con la terra che deve essere stabile e fecondo: un rapporto in cui il momento dell’allegria e della gioia segue l’attesa, il sacrificio, l’attenzione e la cura e per questo può a ben diritto esser chiamato rapporto d’amore.

Le tecniche della viticoltura furono sviluppate dagli Egizi e dai Greci: alcuni vasi vinari scoperti presso Siracusa testimoniano che l’arte di ottenere vino dall’uva era conosciuta più di 2.000 anni prima della nascita di Gesù; altri vasi vinari, risalenti al 1.000 avanti Cristo, furono scoperti in Emilia – già prima dell’arrivo degli Etruschi era dunque conosciuto il vino anche in questa regione. Scene di vendemmia e conservazione dell’uva appaiono in pitture tombali egiziane (1.500 avanti Cristo) e copiose libagioni sono ricordate dai versi di Omero, nell’Iliade e nell’Odissea: noto a tutti è l’episodio di Ulisse che ubriaca il ciclope Polifemo offrendogli del vino prelibato.

Pitture tombali egizie

Scene di raccolta e conservazione dell'uva da una tomba di Tebe (1500 avanti Cristo)

I Romani specializzarono e razionalizzarono le tecniche della viticoltura, producendo vini molto apprezzati e di grande pregio che si trovano spesso celebrati nelle opere letterarie, come il Cecubo e il Falerno. Ai tempi di Catone, il vino era ritenuto un lusso non necessario, e già nelle leggi delle XII Tavole si parla dei furti che possono essere commessi nelle vigne e delle pene ad essi relative. Furono proprio gli antichi Romani che fecero conoscere il vino anche nei Paesi da loro conquistati, in alcuni dei quali, particolarmente in Francia, si diffuse la sua produzione. Per esempio, favorire l’impianto di vigneti nella Gallia Cisalpina fu l’ennesima applicazione di uno stratagemma dei Romani conquistatori, ovvero legare i coloni alle nuove terre con colture stabili e di sicura resa: già nel I secolo avanti Cristo, lo storico Strabone parla di leggendarie sbronze a base di vino da parte dei Galli Cisalpini.

In Italia, dopo la caduta dell’Impero Romano e le invasioni barbariche, la produzione del vino via via diminuì e infine cessò, tranne che nelle abbazie e nei monasteri, dove i frati Benedettini e Cistercensi nei loro terreni coltivavano la vite con grande cura per ottenere il vino da consumare nella Mensa Eucaristica. I Longobardi (noti birraioli) non volevano saperne di viti e di vino e, in un primo momento della loro dominazione in Lombardia, proibirono la coltura delle vigne, ma già questa ostilità iniziale era scomparsa ai tempi della Regina Teodolinda la quale, narra Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, si dichiarò al futuro consorte Agilulfo offrendogli una coppa «di quello buono». Da allora il vino brianzolo trovò continuamente nuovi estimatori, vuoi per le sue qualità intrinseche, vuoi per la vicinanza alla città di Milano che ne rendeva facile il trasporto. Il terreno calcareo marnoso delle colline brianzole, ben drenato in profondità per la presenza di antiche morene glaciali e tuttavia in grado all’occorrenza di conservare un minimo di umidità anche nelle stagioni secche, costituiva un ottimo terreno per questa coltura che prosperò fino a tutto il Settecento (come appare dal censimento dei terreni voluto dall’illuminata Imperatrice Maria Teresa d’Austria) e decadde a seguito dell’epidemia di fillossera della seconda metà dell’Ottocento.

Intorno all’anno Mille, grazie alla tradizione conservata dai monaci, in molte regioni si svilupparono di nuovo la coltivazione delle viti e la produzione di vino, e ben presto si ottennero anche vini di buona qualità. Frequentissimi cominciarono ad essere così i casi di gente che eccedeva nel loro consumo, tanto che nel 1215, per frenare il dilagare di questo vizio, il Papa Innocenzo III dichiarò l’ubriachezza «grave delitto».

I Governi Comunali si occuparono di emanare disposizioni riguardanti la preparazione e la confezione dei vini, nonché la data d’inizio della vendemmia, fissata con l’apposito «bando vendemmiale». Il commercio del vino fra Stato e Stato non era però fiorente a causa dei fortissimi dazi che si dovevano pagare.

Tacuinum sanitatis casanatensis, vino

Mescita di vino rosso, Tacuinum sanitatis casanatensis (XIV secolo)

Nel Rinascimento, l’enologia (l’arte di fare e conservare i vini e di correggerne i difetti) acquistò grandissima importanza, tanto che furono pubblicati numerosi manuali sulla tecnica della preparazione e della conservazione del vino. Nel XVI e XVII secolo, si svolsero in tutta Europa numerose dotte dispute tra i medici che incoraggiavano l’uso del vino e quelli che lo ritenevano invece dannoso per la salute.

Nel 1710 comparve in Toscana il primo fiasco per il trasporto dei vini; in precedenza il trasporto era sempre stato effettuato per mezzo di botti di legno stagionato (le botti migliori sono quelle di castagno, di quercia, di gelso e di robinia).

In ogni parte d’Europa sorsero in questi anni accademie agrarie; in Italia quella di Padova venne fondata nel 1785; i «bandi vendemmiali», ancora in uso dal lontano Medioevo, vennero aboliti per la prima volta in Toscana nel 1786 dal Granduca Leopoldo II. Nello stesso periodo il medico fiorentino Cosimo Villifranchi nella sua opera Oenologia toscana o sia memoria sopra i vini e in specie i toscani usò per la prima volta la parola «vermouth» per indicare i vini che contengono assenzio. E sempre nel 1786 l’industriale Carpano fondò a Torino la famosa casa vinicola, ancor oggi esistente, che da lui ebbe nome.

Le scoperte scientifiche degli Italiani Redi e Spallanzani, prima, e di Pasteur, nel XIX secolo, diedero la spiegazione del processo di fermentazione mediante il quale il mosto si trasforma in vino; grazie a questi studi fu possibile organizzare l’enologia su fondamenti scientifici.

La comparsa dei mezzi meccanici nelle lavorazioni e nei trasporti facilitò moltissimo la produzione e lo smercio dei vini: le prime vere e proprie esportazioni di vino italiano fuori dalla Penisola iniziarono solamente nella seconda metà dell’Ottocento con il Chianti, un notissimo vino toscano, e con il Marsala, un tipico vino liquoroso siciliano da meditazione.

Purtroppo questo rese possibile l’arrivo dall’America della «Phylloxera vastatrix», un insetto che distrugge le radici di «Vitis vinifera», e che costrinse ad innestare tutti i vitigni europei su piede americano (le viti americane erano infatti «adattate» a convivere con questo parassita), dando così inizio alla viticoltura moderna. Altrimenti, la sopravvivenza di tutti i vigneti europei sarebbe stata messa in pericolo. Allo stesso torno di tempo risale un’altra importante innovazione, relativa alla conservazione: fu allora infatti che cominciò ad essere diffuso l’uso dei contenitori di vetro al posto degli orci e delle anfore di terracotta e, soprattutto, quello dei turaccioli di sughero; grazie a queste novità il vino, inevitabilmente destinato a diventare aceto nell’arco di breve tempo se mal conservato, diventò suscettibile di invecchiamento e quindi di affinamento delle qualità.

In seguito furono aperte in Italia facoltà universitarie di agraria che laureano ogni anno personale espertissimo anche in enologia per il continuo miglioramento della produzione vinicola italiana.

Attualmente la produzione enologica si è estesa non soltanto in Europa, ma anche al di là degli oceani, in America Settentrionale e Meridionale e in Australia, nonché in Nuova Zelanda e nella Repubblica Sudafricana; tuttavia, ancora oggi, Italia, Francia, Spagna e Portogallo sono i produttori più importanti, se non per l’entità, per la qualità della produzione.

(giugno 2015)

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