Lo schiavismo alla base delle fortune dell’economia cinese
L’articolo, scritto nel 2008, mostra come all’alba del nuovo millennio uno Stato «moderno» per garantire la ricchezza dei pochi non esiti a sfruttare i molti

La Cina postmaoista è giunta al suo undicesimo piano quinquennale, facendo registrare i ben noti, straordinari profitti, nonostante la recente crisi borsistica che ha colpito le piazze del Far East. Tra i punti fondamentali del suddetto piano vi è il mantenimento di una crescita media pari al 7,5% annuo sino al 2010. Un obiettivo che il premier Wen Jiabao intende conseguire a tutti i costi, anche utilizzando i mezzi meno ortodossi.

Dietro il «fenomeno» produttivo cinese non si cela soltanto l’evidente capacità del governo di Pechino di metabolizzare e utilizzare i dettami di una politica liberista a dir poco spregiudicata – mutando «geneticamente» un’economia statalista in capitalista, seppur sotto stretto controllo centrale – ma anche quella di avere riscoperto un sistema infallibile atto a contenere i costi di produzione e quindi a sbaragliare la concorrenza, cioè lo schiavismo. Secondo il dettagliato rapporto pubblicato nel 2006 dall’Organizzazione Mondiale di Indagine sulla Persecuzione del Falun Gong, il 50% della produzione industriale e agricola cinese si avvarrebbe infatti del lavoro coatto, sistema coordinato su larga scala da un apposito bureau governativo, l’Ufficio numero 610, incaricato tra l’altro della gestione di tutti i «campi di rieducazione politica» del Paese, i tristemente noti laogai.

Inutile sottolineare quanto questa antichissima ancorché discutibile pratica contribuisca a destabilizzare i rapporti di concorrenza tra il gigante asiatico e le potenze industriali occidentali, spiazzate da una concorrenza in grado di avvalersi dell’apporto annuo di oltre venti milioni di lavoratori impiegati in tutti i comparti: dalla cantieristica alla siderurgia, dall’alimentare al tessile, dall’estrattivo alla telematica (tempo fa il britannico «Mail on Sunday» ha denunciato l’«utilizzo di schiavi» in alcuni stabilimenti cinesi in cui si assemblano i lettori mp3 più famosi al mondo).

Come riporta la Laogai Research Foundation, precise direttive emanate dai Ministeri delle Finanze e del Lavoro, garantiscono, incoraggiano e regolano lo sviluppo del sistema schiavistico, anche se in sede Onu, fino dal 1991, Pechino ha dichiarato più volte di voler combattere questa forma di «malcostume» che sta comunque arricchendo nuove lobbies industriali, lo Stato e interi governatorati regionali.

I diritti di proprietà su un determinato prodotto confezionato in una struttura penitenziaria, in un campo di lavoro o in una fabbrica che si avvale di mano d’opera gratuita, destinato al mercato interno o all’export, risultano totalmente esentasse. Non stupisce quindi che in questi ultimi anni moltissime fabbriche siano sorte nei pressi di laogai o di carceri: vicinanza dalla quale evidentemente traggono inconfessabili vantaggi.

Qualche esempio. Note società come la Beijing Mickey Toys, la Lanzhou Zhenglin Nongken Food, la Jinan Tianyi Printing e la Qiqihaer Siyou Chemical Industry, hanno spostato la quasi totalità dei loro stabilimenti non lontano dai penitenziari di Pechino, Lanzhou, Jinan e Qiqihaer, dai quali traggono abbondante e gratuita manodopera da sottoporre ad infernali ritmi produttivi di dodici ore al giorno, sette giorni su sette.

Ma a questo punto occorre fare un passo indietro. Il fenomeno dello schiavismo «made in China» venne alla luce verso la fine di dicembre del 2001 grazie anche alle indagini svolte da Frederic Koller, corrispondente da Pechino di «Le Temps» di Ginevra, su una commessa mensile di 110.000 coniglietti di peluche fatta da una nota multinazionale alimentare alla Mickey Toys di Pechino. Avendo avuto sentore del ritrovamento di numerosi frammenti di unghie umane incrostate di sangue nelle confezioni dei suddetti coniglietti, il giornalista decise di indagare. Sfidando le autorità, Koller avvicinò un dirigente della Mickey Toys che tuttavia si rifiutò di parlare. Dal canto suo, il committente internazionale dichiarò di non saperne nulla, pur ammettendo che la fabbrica della Mickey Toys era situata a Daxing, proprio nei pressi del «campo di lavoro» di Tiantanghe. Sta di fatto che l’anno seguente la multinazionale, probabilmente allarmata da un possibile scandalo, ridusse del 60% i suoi ordini alla Mickey Toys, che a sua volta impose a Koller di smettere di scrivere che «per risparmiare sulle forbici, i lavoranti cinesi erano costretti a strappare con le unghie gli eccedenti filamenti di cotone dei peluche».

Nel 2002, alcuni quotidiani canadesi e americani denunciarono il ritrovamento all’interno di sacchi di semi confezionati dalla Zhenglin Nongken Food di Lanzhou di centinaia di incisivi e canini appartenenti ad esseri umani di sesso femminile. In seguito si venne a sapere che per l’imballo dei suddetti semi, la società si avvaleva del lavoro di circa duemila detenute del Campo numero 1 di Shandong. Per risparmiare sui macchinari selezionatori, le operaie erano costrette a spaccare i frutti, caratterizzati da una dura scorza, a morsi e a sputare i semi nelle vasche di lavaggio.

A questo proposito, va ricordato che la Cina è membro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che dovrebbe tutelare le retribuzioni e lo stato di salute di tutte le maestranze: proposito del tutto disatteso se si pensa che, tra il 1999 e il 2003, negli attuali 180 stabilimenti-lager che utilizzano manodopera gratuita, sono stati registrati 793 decessi e circa 20.500 tra incidenti sul lavoro e casi di contrazione di gravi patologie, soprattutto nel settore chimico.


I baby-schiavi di Pechino

«Ho lavorato dall’alba fino alle due di notte. Ero esausta ma il giorno dopo mi hanno costretto a ricominciare». È una bambina cinese di tredici anni a parlare, una piccola operaia-schiava che fabbrica i gadget con il logo ufficiale per le Olimpiadi del 2008. La sua testimonianza è stata raccolta da attivisti umanitari cinesi che sono riusciti a infiltrarsi in segreto in quattro aziende del Sud del Paese: tutte lavorano per conto del Comitato Olimpico di Pechino. Queste aziende sono state regolarmente autorizzate a produrre i popolari oggetti in vendita con il marchio dei Giochi: borse e zainetti, T-shirt, berretti, quaderni, figurine e album illustrati per bambini.

Il marketing degli oggetti griffati vale da solo settanta milioni di dollari, per gli organizzatori cinesi delle Olimpiadi. Ma dietro questo business ci sono fabbriche-lager dove si sfruttano i bambini, vige un clima di terrore, non vengono rispettati neppure i modesti diritti dei lavoratori previsti dalla legislazione cinese.

«Nessuno indossa guanti protettivi qui – rivela un altro piccolo operaio che usa vernici tossiche e additivi chimici pericolosi – perché coi guanti si lavora meno in fretta e il caporeparto ti punisce. Le mie mani mi fanno molto male, quando le lavo piango di dolore». Queste testimonianze sono state raccolte a Shenzhen e nel Guangdong in quattro stabilimenti chiaramente identificati: Lekit Stationery (prodotti di cancelleria), Mainland Headwear Holdings (berretti sportivi), Eagle Leather Products (pelletteria) e Yue Wing Light Cheong Light Products (zainetti e accessori). Tutti lavorano alla luce del sole per conto delle autorità olimpiche cinesi. A smascherare gli abusi sistematici che avvengono in quelle fabbriche sono stati gli attivisti locali di PlayFair 2008, sigla che si traduce in «Gioca lealmente 2008»: è un’organizzazione promossa e sostenuta dai sindacati occidentali dei lavoratori tessili e dall’Organizzazione Non Governativa umanitaria Clean Clothes.

L’inchiesta sul campo è iniziata nell’inverno 2006. Dopo sei mesi di appostamenti, contatti segreti e interviste clandestine con gli operai, il quadro che emerge è disperante. Il lavoro minorile dilaga, alcuni bambini e bambine hanno appena dodici anni e sono già alla catena di montaggio. Una fabbrica di oggetti di cancelleria impiega venti bambini che ha ingaggiato durante le vacanze scolastiche: lavorano dalle 7.30 del mattino alle 22.30, con gli stessi ritmi degli adulti. Spesso sono obbligati a fare straordinari, non remunerati. Perfino il salario degli operai adulti in queste aziende, a venti centesimi di euro all’ora, è la metà del minimo legale in vigore nella regione del Guangdong (già molto basso). Molti di loro sono costretti a lavorare sistematicamente quindici ore al giorno per sette giorni alla settimana, trenta giorni al mese, senza riposi né festività.

I proprietari di Mainland Headwear costringono i dipendenti a mentire in caso di visite da parte degli ispettori del lavoro.

A Shenzhen – la città della Cina Meridionale che ha conosciuto un boom industriale spettacolare e ha il più alto reddito pro capite della zona – c’è un’impresa che produce su licenza ufficiale cinquanta oggetti griffati con il logo olimpico: lì i registri delle buste paga sono stati ripetutamente falsificati dai manager per fare apparire orari più corti e salari più alti. In quella fabbrica gli operai lamentano gravi problemi di salute, incidenti sul lavoro, malattie della pelle dovute al contatto con agenti chimici, difficoltà respiratorie per le polveri tossiche. Alcuni operai hanno osato denunciare questi problemi alle autorità locali e sono stati licenziati in tronco.

Il rapporto di denuncia divulgato da PlayFair si intitola Niente medaglie olimpiche per i diritti dei lavoratori. Guy Rider, segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati del tessile-abbigliamento, ha dichiarato: «È vergognoso che questi gravi abusi avvengano in fabbriche che hanno la licenza ufficiale del Comitato Olimpico». Il sindacalista ha esortato il Comitato Olimpico Internazionale (Cio) a premere sugli organizzatori cinesi perché cessino queste violazioni dei diritti umani.

A Pechino il Comitato Olimpico locale ha reagito annunciando che revocherà le licenze alle quattro aziende incriminate nel rapporto PlayFair. Ma le fabbriche dove avvengono questi abusi sono sicuramente più numerose.

Le autorità di polizia locali avrebbero la possibilità di smascherare altre illegalità. A differenza degli attivisti di PlayFair costretti a indagare nella clandestinità, le forze dell’ordine cinesi hanno poteri pressoché illimitati e possono agire alla luce del sole. La ragione per cui non lo fanno è intuibile. In un caso di cronaca recente trentuno operai sono stati liberati dalla schiavitù in una fabbrica di mattoni dello Shanxi. Da un anno lavoravano senza ricevere salario, solo razioni di pane e acqua. Il proprietario della fabbrica era il figlio del boss locale del Partito Comunista.

Sono diffuse le collusioni e l’omertà tra il capitalismo selvaggio, la nomenklatura politica, la polizia e la magistratura. In vista delle Olimpiadi però la Cina sarà sottoposta a uno scrutinio sempre più pressante da parte dell’opinione pubblica occidentale. Per il regime i Giochi di Pechino sono una formidabile operazione d’immagine, devono consacrare il nuovo status del Paese come superpotenza globale, il prestigio di Pechino come capitale cosmopolita e moderna, il fascino turistico della Cina. Ma oltre ad attirare almeno mezzo milione di visitatori stranieri, i Giochi saranno un momento di forte visibilità anche per ogni forma di dissenso, di disagio sociale e di denuncia di abusi.

Fonte: quotidiano «L’Indipendente» (Roma)
(marzo 2012)

Tag: Alberto Rosselli, schiavismo, storia della Cina, comunismo cinese, crimini comunisti, schiavismo cinese, economia cinese, persecuzioni comuniste, comunismo.