Come Lutero entrò in convento
Come un fatto accidentale può cambiare la vita di un uomo e, attraverso lui, di tanta parte dell’umanità

Il fulmine nella foresta

Una prima data di grande rilievo nella vita di Lutero è il 2 luglio 1505. Quel giorno, il giovane studente era di ritorno da Mansfeld a Erfurt attraverso la foresta di Turingia; all’improvviso, nei pressi di Stotternheim, allora poco più di una stazione di sosta, si ritrovò nel bel mezzo di un temporale estivo: minacciato dai fulmini, ne vide schiantarsi uno proprio su di un albero vicino a lui. Scaraventato al suolo e sentendosi in pericolo di vita, Lutero invocò Sant’Anna (patrona dei minatori) e le promise che, se si fosse salvato, sarebbe entrato in monastero. Detto fatto, nel giro di pochi giorni, solo il 17 luglio successivo, dopo avere detto addio agli amici (che cercarono di dissuaderlo), Martin entrò nel convento degli Agostiniani Eremitani di Erfurt: tanto l’ordine quanto il convento erano considerati tra i più severi, se non i più severi della provincia[1].

La nostra fonte principale sull’argomento è l’introduzione che anni dopo Lutero dedicò al padre sotto forma di lettera all’esordio del De votis monasticis Martini Lutheri iudicium e in cui, paradossalmente, egli rinnegava la sua decisione! Offro qui una sintesi del testo con alcune citazioni[2]: Martin decide di dedicare al padre quest’opera dedicata al fatto che non c’è nulla di più sacrosanto della vocazione divina. Ammette di essere entrato in monastero contro la volontà del padre e senza dirglielo; Hans avrebbe preferito per lui il matrimonio, per cui provò nei confronti del figlio una «indignazione implacabile»; anzi, temeva che avesse fatto, come altri in tal caso, una pessima scelta, non adeguata al suo carattere; gli stessi amici di Lutero cercavano di persuaderlo a non farsi frate. Infine, il padre si sottomise alla volontà di Dio e Lutero rimase convinto della sua scelta, ma a causa dei «terrori del cielo», per cui non si sentiva libero e veramente contento di questa strada («libens»); anzi, egli decise di farsi frate con un voto «coatto e provocato dalla necessità», per il terrore della morte; perciò, il padre temeva che si trattasse di una «illusione dettata dall’inganno». A questo punto, Lutero ammette che le parole del padre lo avevano impressionato, «come se Dio parlasse per la bocca» di lui, ma che resistette. Infine, il padre gli rivolse una frase rimasta famosa: «E non hai sentito anche che bisogna obbedire ai genitori?» Perciò, paradossalmente, a distanza di anni Martin considera il suo voto nullo e che il padre avesse, col suo buon senso, pienamente ragione.

Sicuramente Hans Luder aveva riposto molte speranze nel ragazzo, avviato agli studi di Diritto e, quindi, a una prestigiosa carriera: come spesso avviene, da uomo che molto si era adoperato per la propria ascesa sociale, egli aveva impostato anche i progetti sul figlio in tale direzione. Inoltre, dopo la lettura di questo brano permane l’impressione che Hans Luder, con il suo pragmatismo e buon senso contadino, diffidasse, come tanti nel suo ambiente, dei voti religiosi e preferisse per il figlio la ben più naturale strada del matrimonio. Anche se in seguito il padre presenziò alla prima Messa di Martin e largheggiò in elemosine in quella occasione, non mutò facilmente idea[3].

Martin era un giovane inquieto, che si sentiva spesso braccato dalla morte. Un passo dei Tischreden racconta un altro episodio in cui il giovane rischiò la vita[4]: «Mentre voleva partire per casa sua e si trovava per strada, si impigliò per caso con la gamba nella spada e ruppe la vena cefalica. Era da solo in un campo, soltanto assieme a un compagno di Erfurt, tanto quanto dista Utsch da Wittenberg (mezzo miglio). Allora il sangue si mise a fluire eccezionalmente e non si poteva fermare. Dopo che lui ebbe chiuso la ferita col dito, la gamba si gonfiò moltissimo. Infine il chirurgo, trasportato dalla città, curò la ferita. Allora fu in pericolo di morte e disse: “O Maria, aiutami! Allora, disse, sarei morto nel nome di Maria!”. In seguito, la notte, mentre lui era a letto, la ferita si aprì: allora venne meno e pure invocò Maria».


Una palese incoerenza

Si è molto discusso sulla scelta di Lutero da giovane, anche e proprio perché lo stesso Lutero la rinnegò in seguito, sposandosi nel 1525. Angela Pellicciari, il cui approccio alla biografia del Riformatore dipende dalla controversistica cattolica, ne contesta quindi l’apparente incoerenza: dopo avere seguito la sua scelta nel 1505 con inconsueta testardaggine, contro tutto e tutti, egli giunse poi a rinunciarvi, tanto che la studiosa afferma, polemicamente: «Sembra quasi una burla[5]».

In effetti, anche se è lecito a chiunque cambiare idea, il mutamento è qui particolarmente netto: Lutero prende una decisione repentina da giovane e, lo si può affermare, si ostina a perseguirla, per poi cambiare completamente idea anni dopo, uscire dal convento e, addirittura, sposarsi, rendere nulli i voti monastici e abolirli per buona parte della popolazione tedesca (qualcosa che il suo mentore Johannes von Staupitz non capì mai). Obiettivamente, è passato da un estremo all’altro. Perché?

Jean Delumeau, nel suo Cristianizzazione e cristianesimo[6], cita l’episodio del voto a Sant’Anna come esempio della religiosità superstiziosa tipica, nel passato medievale e d’«Ancien Régime», soprattutto delle campagne: mentalità che guardava a Dio e ai Santi con paura, nella speranza di conseguire beni materiali e di stornare da sé mali e castighi, con un atteggiamento da «do ut des». Probabilmente è vero, dato che Lutero apparteneva a un ambiente prettamente contadino in cui la credenza nella magia e in varie superstizioni era moneta corrente. Tuttavia, bisogna anche ricordare che Delumeau tende a una visione un po’ elitista della fede cristiana: nello stesso testo, in modo a mio avviso contraddittorio, egli pare classificare come superstizione buona parte delle preghiere cristiane che, nel passato, erano dedicate a invocare aiuto in contingenze concrete (come le benedizioni del raccolto per allontanarne parassiti e insetti nocivi, o altro), però poi rimprovera alla religione di «Ancien Régime» di essere stata poco ancorata alla vita del mondo e alle sue manifestazioni corporee[7]. È vero che queste pratiche erano spesso intrise dello spirito di «do ut des», ma sarebbe come fare il processo alle intenzioni concludere che esse sarebbero da equiparare in blocco a pratiche superstiziose. Piuttosto, è vero che la decisione di Lutero sa di paura e di senso di colpa: da qui deriva la sensazione di coazione, di scambio che essa inesorabilmente convoglia. A posteriori, ci si rende conto che il padre aveva perfettamente ragione.

Non a caso, forse sospettoso nei confronti delle numerose osservazioni in tal senso, lo studioso Scott Hendrix si rivela molto scettico sull’episodio e si chiede: «Ma davvero bastò una sola tempesta a convincere Lutero a farsi monaco all’improvviso? Probabilmente no[8]».

Difatti, già alcune pagine prima aveva indicato che Lutero decise di entrare in convento quattro anni dopo avere iniziato l’università «per ragioni che non rivelò mai»[9] e liquida il racconto come mera aneddotica. Secondo lui, l’aneddoto del temporale sarebbe citato solo dopo il 1517 da Crotus Rubeanus che, amico di Lutero fin dall’epoca dell’università, lo paragonò alla conversione di San Paolo. Hendrix non sembra prestare fede eccessiva alla vicenda, ma riconosce la possibilità che Lutero si sia deciso al passo in quell’occasione, pure se pensava a farsi monaco da tempo[10]. In questo modo, si potrebbe osservare, ammortizzando l’effetto dell’episodio nella foresta, l’incoerenza sbiadisce almeno un po’.

È giusto allora ridurre il peso di questo episodio, spostando i motivi della decisione di Lutero nel buio o in un indefinito passato? Quanto è possibile ridurre in questo modo l’incoerenza che si palesa ai nostri occhi? Noi dipendiamo per forza dal racconto che Lutero stesso ne ha fatto; nonostante le cautele inevitabili, dipendiamo quindi dalla voce stessa del Riformatore. Perciò, anche se lui, a distanza di tempo, avesse parzialmente deformato la memoria dei fatti, in ogni caso il racconto ci riporta le impressioni di Lutero, sicuramente condizionate dagli eventi successivi, ma comunque comunicate e nutrite da lui. Sicuramente l’angoscia spirituale ed esistenziale che lo ha portato a questa decisione era in atto da tempo: non abbiamo però motivo per negare che questo particolare episodio, l’aver rischiato la vita durante un temporale, in un momento in cui Lutero era ancora molto giovane e in cerca di sicurezze, potrebbe aver funzionato da detonatore di preoccupazioni che covavano in lui da tempo. Ma l’incoerenza rimane: anzi, è tipica di un atteggiamento mentale ben preciso, che spiegherebbe molto bene il tutto.


Il Dio del fulmine

Andiamo con ordine. Adriano Prosperi, nel suo commento all’episodio, ne fa una manifestazione di «brontoteologia» («teologia del fulmine»): l’espressione risalirebbe al teologo settecentesco Peter Ahlward e indica l’immagine più arcaica e violenta di Dio, identificato con i fulmini, il lampo, il tuono e tutto ciò che spaventa l’essere umano[11]. Era un’immagine corrente del divino all’epoca. E rincara: «Era in mezzo a una selva oscura come quella dantesca che Lutero camminava quando percorreva solitario quelle foreste: e aveva come compagni di viaggio… il diavolo, la morte, il pensiero ossessivo del peccato[12]».

La monacazione, all’epoca, era considerata la via prediletta per la salvezza, per cui il giovane Lutero fece una scelta caratteristica della mentalità coeva per acquietare un Dio sicuramente percepito come temibile e minaccioso. Abbiamo visto come già si sentisse braccato dalla morte; a questo si coniugava la paura della dannazione. L’educazione rigida subita in casa, a scuola e poi, come vedremo, anche in convento, gli inculcarono un’idea spaventosa di Dio: un Dio, appunto, del fulmine. Davanti a un Dio del genere non ci si sente liberi: si vive sotto costante minaccia, la morte può caderci addosso arbitrariamente a ogni passo, tutto quel che facciamo diventa fonte di colpa e senso di colpa, nonché di rappresaglie; si decide volontariamente di assoggettarsi, di pagare la vita con un sacrificio, volontariamente, ripeto, ma in maniera ben poco libera. E questo doveva essere un sentimento comune nella vita cristiana dell’epoca: altrimenti non si capisce il successo che Lutero stesso ebbe solo qualche anno dopo.

Ha dimostrato notevole sensibilità psicologica Oberman, che, inserendo l’episodio nella tipica religiosità di allora, lo definisce «uno psicogramma del suo tempo[13]»; ammette che l’educazione ricevuta da Lutero dovrebbe avere avuto un peso nella sua scelta (seppur non inevitabile), pur insistendo sul fatto che non possiamo psicologizzare Lutero alla nostra maniera; e osa affermare: «Le esperienze di colpa, punizione e responsabilità che ebbero un peso così centrale anche per il riformatore hanno acuito, anzi forse plasmato, la coscienza del giovane Martino. È l’educazione paterna ad averlo condotto alla porta del monastero[14]».

Ora, al di là delle responsabilità del padre e dei genitori, Silvana Nitti ha individuato nella situazione di Lutero giovane una «tristitia» (tristezza, angoscia) che già aleggiava su di lui prima della decisione di entrare in religione. Il termine «tristitia» indica quel misto di malinconia, tristezza, depressione e scoraggiamento ben diagnosticati in ambito monastico: una situazione interiore che corrode e toglie la voglia di vivere e oscura il senso dell’esistenza[15]. Narrano i Tischreden che il giovane Martin, già «magister» a Erfurt, diceva di se stesso: «Tentatione tristitiae semper incedebam tristis» (e si noti l’insistenza sulla «t»)[16]; di qui la sua lettura assidua della Bibbia.

Perseguitato probabilmente da una forma depressiva, magari latente, Lutero fece una scelta dettata da sentimenti negativi e perciò in seguito se ne pentì, perché rilesse i suoi voti (comprensibilmente) come un sistema di compravendita con Dio, un «do ut des», che ignora i doni divini. Si sentiva in dovere di fare qualcosa per conseguire la salvezza, quando essa, invece, era dono gratuito di Dio[17].

Perciò, l’episodio del temporale può anche risultare marginale, per quanto non abbiamo motivi per respingerne la veridicità; al massimo, potrebbe essere stato oggetto di un’enfasi eccessiva. Tuttavia, il vero nocciolo della questione era come Lutero viveva all’epoca il suo rapporto con Dio. Il voto tradisce infatti uno scambio: dato che Martin doveva morire (o meglio, pensava di dover morire), è un po’ come se avesse deciso di seppellirsi in monastero per non vivere più la vita che in realtà desiderava vivere, come se si sentisse in colpa per il fatto di vivere e accettasse pertanto una forma di morte. Bisogna quindi prestare molta attenzione a quel che Lutero stesso osservò da adulto sulla sua vocazione – per quanto abbia cercato nel frattempo di viverla al meglio. Fu un voto coatto, nullo? Probabilmente sì: e, altrettanto probabilmente, il padre se ne era reso conto (pur spiegandosi la decisione del figlio alla sua maniera). Hans Luder aveva ragione: suo figlio non era fatto per il chiostro. Infatti, anche se Martin perseguì testardamente questa strada, a dispetto del padre e di tutti coloro che lo sconsigliavano, verosimilmente viveva la situazione di molte persone, vittime di un’educazione intransigente e autoritaria, che finiscono per sentirsi sotto coercizione anche nelle scelte operate da loro stessi, perché si confrontano perennemente con il fantasma della durezza che subiscono: una sensazione che Lutero si porta dietro costantemente, tanto che Oberman parla persino dello «schiacciante influsso di Dio»[18]. E la testardaggine è perfettamente comprensibile in questo quadro, perché l’individuo agisce con la massima serietà, anzi, prende la sua decisione coatta per salvarsi, per quanto in modo abbastanza irragionevole. Ma l’irragionevolezza è nell’esperienza che ha subito, più che in lui.

Il ritratto di Dio che emerge da questa vicenda è un Dio terribile, che punisce, castiga, anafettivo; un Dio che non è padre, ma giudice, se non peggio. Il significato dell’atto di Lutero si coglie bene nel quadro di quella stigmatizzazione del «mondo» tipica della letteratura ascetica e di cui tante volte Delumeau parla nella sua opera: perciò «mondo» (nel senso di parte dell’umanità opposta a Dio) = cosmo, creazione[19]. Inoltre, ciò si ricollega a un senso di colpa molto penetrante e a una visione pessimistica dell’essere umano. Oberman ha ragione: Lutero era «uno psicogramma del suo tempo». Molti, specie nel Nord Europa e non solo, dovevano sperimentare lo stesso, anche se il cristianesimo del periodo conosceva anche orizzonti molto più positivi. In lui sono esplose in maniera più evidente tensioni che la religiosità dell’epoca conosceva ormai da decenni, se non da secoli e che, prima o poi, non avrebbero potuto che portare a una deflagrazione dirompente.


La vita in convento

In teoria, l’entrata nello stato religioso avrebbe dovuto costituire per Lutero una forma di rinascita; ma «la sicurezza garantita dall’abito…si erodeva a ogni minima trasgressione, a ogni “peccato” piccolo o grande[20]».

La vita monastica stigmatizzava come occasione di peccato la benché minima infrazione: ogni cosa, anche minima, doveva essere eseguita secondo limiti e prescrizioni ben precise, che si trattasse di mantenere il silenzio rigorosamente, della maniera di camminare, degli orari da rispettare e delle penitenze e pratiche ascetiche da mettere in atto. Il venerdì, infine, la confessione costituiva una minuta indagine di tutte le infrazioni accumulatesi durante la settimana: col rischio che divenisse una sorta di replica di quanto avveniva quando lui era bambino a scuola a Mansfeld, e i suoi compagni più grandi si segnavano per il sabato le infrazioni della scolaresca. Quindi, se Lutero aveva pensato di chiudersi in monastero per risolvere i propri conflitti interiori e combattere il senso di colpa che lo attanagliava, nel silenzio del chiostro tutto ciò riesplose in maniera ancora più dirompente, complice, del resto, la sua sensibilità[21].

È perfettamente possibile che Lutero abbia sofferto di nevrosi ossessiva, nota all’epoca come malattia degli scrupoli[22]: i confessori e i direttori spirituali la conoscevano bene, il padre spirituale di Lutero, Johannes von Staupitz, lo consigliava continuamente di combatterla con la fiducia in Cristo ed esisteva una nutrita bibliografia di opere spirituali sul problema[23]. Lutero si confessava in continuazione, perché temeva di non avere mai fatto alcunché abbastanza bene, anche se era un monaco molto diligente; poi, come in un circolo vizioso, temeva costantemente di non essersi confessato bene, di non avere raggiunto un livello adeguato di contrizione e di pentimento per i propri peccati, provava un sollievo momentaneo dopo essersi accusato per precipitare poi nuovamente nell’angoscia. Perciò, moltiplicava digiuni, confessioni, forme di ascesi, disciplina e punizioni corporali.

Proseguendo con la sua storia, scopriremo meglio le famose Anfechtungen o Bekohrungen di Lutero, le sue tentazioni[24]: egli temeva continuamente gli assalti del demonio, paventava la dannazione e arrivò addirittura a odiare Dio, come se Lui lo perseguitasse. Qui basti però osservare che, al di là dei personali conflitti interiori di Lutero, la stessa struttura della vita monastica di allora portava non pochi in quella direzione. Mirko Breitenstein parla, non a torto, della «supererogatory claim», cioè della pretesa a una vita cristiana d’eccezione rispetto agli standard quotidiani, praticata all’interno della vita monastica, una pretesa che portò Lutero alla sua crisi di coscienza[25]. Di per sé la vita cenobitica intendeva dare il meglio nella sequela di Cristo, ma, dato che i religiosi vivevano in uno spazio ristretto e avevano ben poche occasioni di compiere qualcosa di eccezionale, si ritrovarono, per così dire, a «raschiare il fondo del barile»: cominciarono così a spremere ogni occasione possibile per trasformarla in una possibilità di «exploit», appunto, «supererogatory», onde raggiungere un livello eccezionale di ascesi e penitenza. Di questo passo, però, si arrivava al legalismo.

Siamo in un’atmosfera ben diversa da quella in cui San Benedetto aveva concepito la sua Regola secoli prima, o anche da quella che aveva animato il Poverello di Assisi o San Domenico, per quanto severi con se stessi, a fondare i loro nuovi ordini religiosi: se si osserva la storia della Chiesa Medievale, si noterà che lo spirito del 1200 era molto più ottimistico e positivo di quel che sarebbe invalso alla fine del secolo successivo. Prosperi ha osservato il progressivo fossilizzarsi del diritto canonico e della disciplina penitenziale e morale a partire dalla crisi del Papato nel Trecento, tra Cattività Avignonese e Grande Scisma: la Scolastica, che aveva costruito un elaborato sistema teologico-filosofico per rendere conto del cosmo, fu attaccata dal nominalismo, ma anche la mistica e il recupero di Sant’Agostino avevano messo in dubbio l’ordinata costruzione scolastica che tanto spazio dava alle buone opere.

«E qui il clima dell’epoca e gli sviluppi del pensiero teologico si accordavano a qualcosa di profondamente iscritto nella natura dell’uomo Lutero. Non si contano i passi dove è rimasta consegnata la sua temperie sentimentale. Vi troviamo l’espressione della cupezza e dell’angoscia che lo prendeva nel misurare la distanza tra l’uomo peccatore e la giustizia di Dio. Questo era per lui la coscienza: un bagaglio di sofferenza, un organo roso senza sosta da un verme insaziabile[26]».

Perciò, anche le opere migliori venivano rose e corrose da una sensazione negativa, che le trasformava in male. Il cammino di Lutero arriva dunque al culmine di un’epoca di crisi spirituale che ha coinvolto buona parte dell’Europa, che si rivela nel diffondersi di un approccio legalistico ai problemi morali e canonistici e che procede in parallelo con la crisi dell’istituzione ecclesiale. Non c’è da stupirsi quindi dei drammatici esiti cui Lutero sarebbe giunto in seguito.


I monasteri e il legalismo

Sotto questo aspetto, è molto illuminante un episodio narrato da Rob Faesen a proposito dello sviluppo della «devotio moderna». La «devotio moderna», che Lutero conobbe bene, fu un movimento di rinascita spirituale originatosi nelle Fiandre (allora una regione molto prospera e avanzata, anche culturalmente) tra fine del Trecento e il Quattrocento. I suoi esponenti (Geert Grote, il suo amico e discepolo Florens Radewijns, Gerard Zerbolt, il cui De spiritualibus ascensionibus era ben noto anche a Lutero, Gerlach Peters e soprattutto il famoso Thomas a Kempis, quasi certamente autore della celeberrima Imitazione di Cristo), tutti monaci fiamminghi, cercavano di stabilire nella meditazione una relazione più profonda e genuina con il Cristo e di realizzare la vita contemplativa nell’umiltà e negli impegni della vita quotidiana attiva.

Uno dei suoi maggiori e più tardivi esponenti, Johannes Mombaer, morto nel 1501, fu chiamato con altri sei confratelli, a riformare i monasteri di Parigi sulla base, appunto, della «devotio moderna»: latore della richiesta era il rettore del collegio di Montaigu. Ma i monaci di Parigi, per lo più, rifiutarono questo tentativo di riforma. Perché? Faesen riporta l’esempio dei monaci Vittorini di Saint-Victor, secondo cui «la perfezione monastica si poteva misurare mediante il rigore dell’osservanza, la lunghezza degli uffici e il numero delle preghiere recitate»[27] (esattamente quello con cui se la sarebbe presa Lutero anni dopo). Per questi monaci, esortati da Mombaer a privilegiare la meditazione, questo portava semplicemente a vuote fantasie. Ovviamente, i Vittorini vedevano la morale in senso abbastanza angusto e non comprendevano l’esigenza di interiorità della «devotio moderna»: «La severità della pratica religiosa, i doppi uffici, i digiuni prolungati eccetera, erano tali che non c’era semplicemente l’opportunità di coltivare una vita interiore». I Vittorini si erano focalizzati su pratiche esteriori e perdevano di vista come coltivare l’interiorità. Verosimilmente quindi, il problema era diffuso e fu questo che Lutero trovò (anche) quando entrò in monastero. Di certo, la sua angoscia si trascinò pure nel chiostro, anzi, si ingigantì e perpetuò in lui l’immagine di un Dio spietato.


Note

1 Le citazioni dell’opera di Lutero seguono la Weimarer Ausgabe (=WA; WAT per i Tischreden), l’edizione di riferimento dell’«opera omnia» del Riformatore, pubblicata online all’indirizzo http://www.lutherdansk.dk/WA/D.%20Martin%20Luthers%20Werke,%20Weimarer%20Ausgabe%20-%20WA.htm; le traduzioni, sia dal latino che dal tedesco, sono mie. Opere di riferimento: Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Milano, A. Mondadori, 2017 (edizione online, la cui numerazione è del tutto differente dalle pagine); Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017; Scott H. Hendrix, Lutero. Un riformatore visionario (traduzione italiana), Milano, Hoepli, 2017 (anch’essa citata in versione digitale); Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo (traduzione italiana), Roma-Bari, Laterza, 1987; Alberto Melloni editore, Lutero. Un cristiano e la sua eredità. 1517-2017 (volume 1), Bologna, Il mulino, 2017; Gert Melville-Josep Ignasi Saranyana Closa editori, Lutero 500 anni dopo. Una rilettura della Riforma luterana nel suo contesto storico ed ecclesiale. Raccolta di Studi in occasione del V centenario (1517-2017) (Atti e documenti 51), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2019. Sull’austerità degli Agostiniani di Erfurt, confronta Scott Hendrix, Lutero. Un riformatore visionario, Milano, Hoepli, 2017, pagine 1.089-1.093; Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, pagina 34. All’epoca dell’entrata di Lutero in convento, gli Agostiniani di Erfurt avevano aderito al movimento dell’Osservanza da circa mezzo secolo.

2 Confronta WA 8, 573-574.

3 Confronta Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Milano, A. Mondadori, 2017, 577.

4 Confronta WAT 1, 119, pagina 46, 18-26.

5 Confronta Angela Pellicciari, Martin Lutero. Il lato oscuro di un rivoluzionario, Siena, Cantagalli, 2012 (edizione online), citazione 858.

6 Confronta Jean Delumeau editore, Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico (traduzione italiana), Casale Monferrato, Marietti, 1984, pagine 153-154.

7 In merito, si veda il resto dell’opera e in particolare il capitolo Ignoranza religiosa, mentalità magica e cristianizzazione, pagine 135-161; dello stesso, Il Cattolicesimo tra 16° e 18° secolo (traduzione italiana), Milano, Mursia, 1976, La leggenda del Medioevo cristiano, pagine 201-224; ma si veda anche il capitolo Cristianizzazione (pagine 225-255). Le posizioni di Delumeau, che sembrano in qualche modo deprezzare la religione popolare, hanno suscitato una vera e propria levata di scudi, come si capisce dalla discussione e dalle fonti riportate all’inizio del capitolo La storia della cristianizzazione, in Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pagine 162-164. Molto critico su questa posizione, ad esempio, J. K. Powis, Repression and Autonomy: Christians and Christianity in the Historical Work of Jean Delumeau, «The Journal of Modern History» 64 (1992), pagine 366-374.

8 Confronta Scott H. Hendrix, Lutero. Un riformatore visionario, Milano, Hoepli, 2017, pagina 1.061.

9 Confronta Scott H. Hendrix, Lutero. Un riformatore visionario, Milano, Hoepli, 2017, citazione a pagina 948.

10 Confronta Scott H. Hendrix, Lutero. Un riformatore visionario, Milano, Hoepli, 2017, pagine 1.065-1.081.

11 Confronta Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Milano, A. Mondadori, 2017, citazione a pagina 475.

12 Confronta Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Milano, A. Mondadori, 2017, citazione a pagina 480.

13 Confronta Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma-Bari, Laterza, 1987, citazione a pagina 83.

14 Confronta Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma-Bari, Laterza, 1987, pagina 82.

15 Una sintesi efficace sul significato di questa condizione nella letteratura cristiana, specie ascetica, in Enzo Bianchi, Una lotta per la vita, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011, pagine 171-184.

16 Confronta WAT 3, 439, 3-4.

17 Confronta Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, pagine 31-32.

18 Confronta Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma-Bari, Laterza, 1987, pagine 205-207, citazione a pagina 208; Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, pagina 202.

19 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal 13° al 18° secolo, Bologna, Il Mulino, 2000, capitolo 1.

20 Confronta Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, citazione a pagina 38.

21 Confronta Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, pagine 37-40.

22 Arriva alla stessa conclusione Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma-Bari, Laterza, 1987, pagine 170-172.

23 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal 13° al 18° secolo, Bologna, Il Mulino, 2000, pagine 570-590 sulla malattia degli scrupoli e la letteratura a essa collegata.

24 Sulle Anfechtungen di Lutero, confronta Heiko A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma-Bari, Laterza, 1987, pagine 168-172; Silvana Nitti, Lutero, Roma, Salerno Editrice, 2017, pagine 27, 37-40, 50-51 e 70.

25 Confronta Mirko Breitenstein, The Influence of Bernard of Clairvaux on the Subject of Conscience in Martin Luther, in Gert Melville-Josep Ignasi Saranyana Closa editori, Lutero 500 anni dopo. Una rilettura della Riforma luterana nel suo contesto storico ed ecclesiale. Raccolta di Studi in occasione del V centenario (1517-2017) (Atti e documenti 51), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2019, pagine 91-114, citazione a pagina 112.

26 Confronta Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Milano, A. Mondadori, 2017, citazione a pagina 1.124.

27 Confronta Rob Faesen, Tentamen vitae contemplativae in actione. The doctrine of the Devotio moderna, in Gert Melville-Josep Ignasi Saranyana Closa editori, Lutero 500 anni dopo. Una rilettura della Riforma luterana nel suo contesto storico ed ecclesiale. Raccolta di Studi in occasione del V centenario (1517-2017) (Atti e documenti 51), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2019, pagine 69-91, citazione alle pagine 86-87 (traduzione mia dall’inglese).

(dicembre 2020)

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