Il crepuscolo del Rinascimento
Gli ultimi anni del Cinquecento, in Italia, sono un’epoca caratterizzata da grandi Santi e artisti inquieti

Nell’ultimo scorcio del Cinquecento l’Italia è un Paese che ha perduto quasi del tutto la bellezza dei decenni precedenti. Le regioni settentrionali sono state così devastate dalle guerre d’invasione, che gli ambasciatori inglesi consigliano Enrico VIII di lasciarle a Carlo V come punizione: Genova è stata saccheggiata, Milano ha subito mortali vessazioni. Roma, Prato, Pavia sono state razziate, Firenze è alla fame, Pisa si è quasi autodistrutta, Siena è esausta, Ferrara si è impoverita. Il Regno di Napoli è stato devastato e saccheggiato dagli eserciti stranieri, mentre la Sicilia è già diventata la culla del brigantaggio.

Venezia mantiene la sua indipendenza ed ha commerci ancora floridi, ma si notano delle incrinature: l’Inghilterra apre nuove vie di traffico ed esporta un tipo di lana ruvida, ma a colori vivaci, e per di più a buon mercato; Venezia manda all’estero stoffe pregiate, ma dai colori un po’ smorti, ed è naturale che l’Inghilterra le rubi i clienti.

Nell’arte, la città lagunare manda vivi bagliori, e il suo tramonto è un tramonto infuocato. Andrea Palladio (1508-1580) costruisce nel Vicentino e nella Valle del Brenta stupende ville patrizie, di cui la più famosa è Villa Capra, detta «la Rotonda». Di lui sono, a Vicenza, la Basilica e il Teatro Olimpico, a cui ha lavorato anche Vincenzo Scamozzi (1552-1616). Andato a Roma e rimasto entusiasta della grandiosità delle rovine del Foro, il Palladio si sforza di riportarle nell’architettura rinascimentale, ricercando elementi proporzionati ed armonici, ma con una pletora di colonne, di capitelli, di fregi, di modanatura e di statue che eliminano la semplicità di linee e la luminosità propria degli edifici classici. Il suo stile è moderno, e si dovrà aspettare l’inizio del Seicento prima che sia portato in Inghilterra, in tutta l’Europa Occidentale e di lì in America.

Teatro di Vicenza

L'interno del Teatro Olimpico a Vicenza; fotografia di Simone Valtorta, 2008

In Veneto nello stesso periodo operano Michele Sanmicheli (1484-1559) e Jacopo Tatti detto «il Sansovino» (1486-1570). A Milano lavorano Galeazzo Alessi (1512-1572) e Pellegrino Pallegrini detto «il Tibaldi» (1527-1596). In Umbria è attivo Jacopo Barozzi detto «il Vignola» (1507-1573). In Toscana brillano Giorgio Vasari (1511-1574), Bartolomeo Ammannati (1511-1592) e Bernardo Buontalenti (1536-1608). A Roma, con Michelangelo, troviamo Giacomo Della Porta (1540-1602).

È nella pittura che Venezia segna il punto più alto della sua arte. Il Tiziano, fra i più geniali pittori italiani, serve Carlo V, Francesco I e Paolo III; i suoi colori, i suoi rossi, le sue carnagioni rosee ne fanno un pittore originale e riconoscibilissimo. È un pittore «verista», e i ritratti rivelano la sua abilità di afferrare e riprodurre il carattere degli uomini, con una forza e un’arte mai raggiunta da alcun altro artista. Nei numerosi ritratti di Carlo V non tenta di idealizzare il soggetto, tranne che nelle vesti (mantelli di broccato, giustacuori ricamati, calzoni bianchi aderenti al ginocchio, calze e scarpe bianche, cappelli neri con piume bianche, armature scintillanti): appaiono i lineamenti sbiaditi dell’Imperatore, la sua brutta pelle, il suo spirito tetro e una certa tendenza alla crudeltà. Diviene il suo artista prediletto. Un giorno al pittore cade il pennello e subito Carlo V si china a raccoglierlo; a chi si meraviglia di questo gesto, il Sovrano risponde: «Tiziano merita di essere servito anche da un Re».

Ritratto di Carlo V

Tiziano Vecellio, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548, Museo del Prado, Madrid (Spagna)

Ma chi incarna veramente lo spirito del secolo è il Tintoretto: i suoi giochi di luce, le ombre fonde, quel senso di mistero che emana dalle figure, una certa teatralità, un’inquietudine densa di attesa. Anch’egli è un «verista», ma assai diverso dal Tiziano: riesce come nessuno a riprodurre e descrivere in modo ampio e completo l’umanità – nel frastuono della città, nelle folle silenti in preghiera, nell’intimità turbata o affettuosa di tante famiglie –. Disseziona i cadaveri per imparare l’anatomia, osserva quasi tutti gli oggetti che gli capitano sotto gli occhi per riprodurli in tutti i particolari, si fa mandare calchi dei marmi antichi di Firenze e di Roma e delle sculture di Michelangelo, copre tele di dimensioni spropositate. Lo affascinano i cambiamenti prodotti nell’aspetto degli oggetti dal mutar della luce e dipinge centinaia di quadri al lume della lampada o della candela, specializzandosi nel ritrarre il gioco delle luci e delle ombre sulle mani, sul volto e sui drappeggi, sugli edifici, sui paesaggi e sulle nubi.

La Controriforma – così si chiama la lotta che la Chiesa Cattolica ingaggia contro la Riforma Protestante –, la Controriforma vede nascere grandi Santi. San Filippo Neri (1515-1595) ha il suo campo di apostolato a Roma: un Santo allegro, gioviale, che svolge la sua opera fra il popolo, e per questo viene chiamato il Santo del buon umore e il Santo della gioventù; per i giovani fonda nel 1564 gli Oratoriani, che applicano il principio pedagogico elaborato da Vittorino da Feltre, cioè di insegnare attraverso il gioco. San Camillo, Abruzzese, fonda un Ordine che si dedicherà all’assistenza degli infermi negli ospedali. Sant’Ignazio, Spagnolo di nascita, fonda i Gesuiti: un Ordine che avrà enorme influenza nella vita italiana e nello sviluppo successivo della Chiesa. Santa Angela Merici dà vita alle Orsoline, e inizia il rifiorire degli Ordini religiosi femminili.

Nel secolo successivo continua il proliferare di Ordini ed Istituti religiosi nello spirito della Controriforma: a San Omer nel 1609 Maria Ward fonda le Dame Inglesi, dette anche Gesuite; l’anno successivo ad Annécy, in Savoia, con la collaborazione di Santa Francesca di Chantal, San Francesco di Sales (1567-1622) fonda l’Ordine della Visitazione di Maria, o Visitandine; nel 1611 Pietro de Bérulle fonda a Parigi l’Oratorio Francese. Nel 1642 Jean Jacques Olier fonda a Parigi i Sulpiziani, nel 1643 a Caen San Giovanni Eudes fonda gli Eudisti e nel 1644 le Suore del Rifugio.

Con Torquato Tasso si chiude la grande stagione letteraria italiana. Anche in lui, nella sua vita, nelle sue opere, si può scorgere il segno dei tempi cambiati: incarna lo spirito della Controriforma, il tentennare fra credere e non credere, fra peccato e pentimento, fra gioia e angoscia, fra una vita ricca di successi, e un’esistenza ripiegata su se stessa. Non ha un’autentica ispirazione religiosa, la religione gli piace per gli aspetti «scenografici» e «spettacolari», e infatti nella Gerusalemme liberata i personaggi per cui proviamo maggiore simpatia sono i «pagani», soprattutto Clorinda, la guerriera corsa a difendere Gerusalemme dai Crociati e destinata a morire in un duello notturno per mano di Tancredi, che l’amava e che la riconosce solo quando, lei agonizzante, le leva l’elmo dal capo.

Torquato Tasso

Anonimo, Torquato Tasso, 1577, Fürstlich Thurn und Taxissches Schlossmuseum, Regensburg (Germania)

Tasso nasce l’11 maggio 1544 a Sorrento (Napoli) da Bernardo Tasso, Bergamasco, poeta anch’egli, e da Porzia de’ Rossi, Pistoiese. A 10 anni raggiunge il padre esule a Roma: ricorderà sempre con amarezza il distacco dalla madre, che morirà due anni dopo (forse uccisa da uno dei suoi fratelli), senza che il figlio abbia potuto rivederla. Trascorre una vita errabonda di Corte in Corte: a parte un soggiorno a Camerata Cornello, un paesino insignificante in profonda Val Brembana, va a Pesaro, Venezia, Padova (dove studia diritto, letteratura e filosofia), Bologna, Ferrara. A Venezia, a 15 anni comincia a metter mano a quella che sarà la sua opera principale, un poema epico incentrato sulla Prima Crociata al quale dà il titolo provvisorio di Gierusalemme. Ma gli anni più sereni sono quelli di Ferrara, presso il Cardinale Luigi, trascorsi nel lusso, tra donne con vestitoni fruscianti, ricevimenti, feste: lì compone rime amorose piene di sentimento e di passione, un dolcissimo dramma pastorale, l’Aminta – una storia di pastori, ninfe, satiri, l’amore che sboccia quando si viene a sapere che l’uomo che t’amava è morto e il lieto fine quando si scopre che invece si è salvato –; rimette mano anche al suo poema, ribattezzandolo Goffredo. Nel 1575, l’anno in cui viene pubblicato il suo capolavoro, La Gerusalemme liberata, cominciano le ansie che poco per volta lo portano alla follia. Un giorno si presenta sotto mentite spoglie da sua sorella, che non vede da anni, portandole la notizia di essere morto; si fa riconoscere dopo ore di disperazione, spiegando di averlo fatto solo per vedere se lei gli vuole bene. Poi comincia a soffrire di manie di persecuzione: convinto che un servo stia origliando la sua conversazione con la Duchessa Lucrezia, lo insulta e gli lancia addosso un coltello. Viene rinchiuso nel convento di San Francesco, da cui riesce a fuggire nottetempo, per riprendere le sue peregrinazioni; ripresentatosi a Ferrara, una sua scenata dinanzi al Duca gli costa sette anni nel manicomio di Sant’Anna. Nel 1587 giunge al silenzioso convento di Sant’Onofrio a Roma; qui, ammalatosi, muore nel giro di una manciata di giorni, nel 1595. E siamo già nello spirito di una nuova epoca.

(settembre 2016)

Tag: Simone Valtorta, Italia, Rinascimento, Cinquecento, Carlo V, pittura veneta, crepuscolo del Rinascimento, Andrea Palladio, Villa Capra, la Rotonda, Teatro Olimpico, architettura rinascimentale, Tiziano, Tintoretto, Controriforma, San Filippo Neri, San Camillo, Sant’Ignazio di Loyola, Gesuiti, Oratoriani, Orsoline, Santa Angela Merici, Maria Ward, Dame Inglesi, Gesuite, San Francesco di Sales, Visitandine, Pietro de Bérulle, Oratorio Francese, Jean Jacques Olier, Sulpiziani, San Giovanni Eudes, Eudisti, Suore del Rifugio, Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Aminta.