La guerra nel Rinascimento
La comparsa delle armi da fuoco e delle compagnie di ventura segna un modo di fare la guerra molto diverso, e assai più crudele, rispetto al Medioevo

Verso la fine del XV secolo l’arte della guerra subisce una profonda trasformazione con l’adozione della fanteria pesante. Ad inventarla sono i montanari svizzeri, che riprendono la formazione della falange macedone: i loro fanti non si limitano a difendersi dalle cariche della cavalleria, ma assumono essi stessi l’iniziativa dell’attacco in campo aperto, contrapponendo alla forza d’urto di una massa di centauri corazzati quella di uno o più quadrati di migliaia di fanti che, fittamente schierati in 70 file di 85 uomini l’una, armati di picche lunghe sei metri, prima arrestano e scompigliano la cavalleria, poi procedono lentamente ed ordinatamente travolgendo ogni ostacolo. È la rivincita dei poveri contro i nobili, che costituiscono la maggior parte della cavalleria.

Discendenti degli Elvezi, descritti da Cesare come animosi e fieri guerrieri, gli Svizzeri sono gente semplice e forte, amante della libertà: ambendo l’indipendenza da qualsiasi servitù, ciascun villaggio o distretto delibera per conto proprio sotto la direzione dei magistrati. La prima prova del loro valore, gli Svizzeri la danno il 15 novembre 1315 sui campi di Morgarten: 1.300 pastori delle Alpi (dei Cantoni di Uri, Schwitz, Unterwald), in semplici vesti di lana, respingono l’attacco di 8.000 fanti e 4.000 cavalieri austriaci, uccidendo 1.500 nemici (gli Svizzeri avranno solo 14 perdite). Da allora, fino al 1477, è tutta una serie di vittorie contro Austriaci, Francesi e Borgognoni; acquistata così una fama sempre maggiore, gli Svizzeri divengono ausiliari preziosi per tutti gli Stati, tanto che ancor oggi le guardie del Papa sono reclutate esclusivamente nel Paese alpino. Ma nel 1487 Renato Trivulzio, agli ordini del Duca di Milano Ludovico il Moro, li sconfigge al ponte della Stresa, mentre con la battaglia di Marignano del 1515 sono privati d’ogni peso politico e militare autonomo, battendosi soltanto come parte dell’organizzazione militare della Corona di Francia (a cui gli uomini dei Cantoni sono legati da una lunga serie di contratti).

Battaglia di Marignano

Maître à la Ratière, Battaglia di Marignano (dettaglio), XVI secolo, Musée Condé, Chantilly (Francia)

Seguono l’esempio degli Svizzeri i fanti del paese o paesani lancieri germanici di Massimiliano I (Lands-kenecht o Landz-kenecht o Lanzi o Lanzichenecchi, tristemente famosi per le pagine del Manzoni) e i Tercios Spagnoli. Anzi, questi ultimi, unità base degli eserciti di Filippo II, rappresentano il massimo prodotto dell’evoluzione militare europea del Cinquecento: possono sviluppare la potenza di fuoco degli archibugi e proteggersi con un’impenetrabile cintura di picche, schierarsi a pieni organici ed agire per compagnie e per squadre, passare rapidamente e disciplinatamente dalla difesa all’attacco. Il «tercio» comprende 3.000 fanti, tra archibugieri e picchieri, un distaccamento di cavalleria leggera e alcuni pezzi d’artiglieria: sul campo di battaglia si presenta come un solido bastione di picche guarnito da archibugi, torrioni e contrafforti laterali di moschettieri pronti a ripiegare al riparo delle armi bianche dopo una serie di salve – una vera e propria fortezza di carne e d’acciaio.

Archibugieri spagnoli

Jan Cornelisz Vermeyen, Archibugieri spagnoli alla conquista di Tunisi nel 1535, XVI secolo

Ma i militari di prima qualità sono i giannizzeri turchi (dal turco «yeni çeri», cioè «nuova milizia»): disciplinati, ubbidienti, coraggiosi, costituiscono il nerbo del potente esercito ottomano; non temono la morte, anzi la ritengono, in battaglia, una fine gloriosa. Istituiti dal Sultano Orkhān nel 1329, sono inizialmente reclutati tra le famiglie cristiane abitanti nei confini dell’Impero Ottomano (di preferenza albanesi, bulgare e bosniache), convertiti con la forza all’Islam e istruiti ad una fanatica osservanza religiosa; dalla fine del XVIII secolo entrano nel corpo dei giannizzeri anche i figli di Turchi e dei giannizzeri già in servizio. In tempo di pace non hanno diritto ad alcuna paga, mentre in guerra il comandante e gli altri ufficiali ricevono una percentuale sulla paga e sul rifornimento alle truppe, oltre ad ereditare di diritto le proprietà dei giannizzeri morti (cosa che porterà col tempo ad ogni sorta di abusi, prepotenze e vessazioni). Inizialmente in numero di 6.000, i giannizzeri sono poi portati a 60.000 e in certi periodi raggiungono le 100.000 unità; divenuti troppo potenti, tanto da influenzare pesantemente la vita della Corte e del Governo e addirittura eleggere e deporre i Sultani a proprio piacimento, i giannizzeri saranno aboliti nel 1826 dal Sultano Mahmhūd, che ne farà perire circa 30.000.

L’introduzione della polvere da sparo porta al rapido tramonto della fanteria pesante, un bersaglio fitto e gigantesco, facilmente sterminabile dalle artiglierie e dalle armi da fuoco. Conosciuta in Cina già da vari secoli, la polvere da sparo compare in Europa secondo la tradizione attorno al 1300 per opera del monaco tedesco B. Schwarz, che ottiene una miscela esplosiva mescolando carbone, salnitro e zolfo. L’arco tende a scomparire, mentre fanno la comparsa sui campi di battaglia i cannoni. Le prime artiglierie tuonano nella Guerra dei Cento Anni, nella battaglia di Crécy (1346) fra Inghilterra e Francia, ma sono troppo pesanti, i cannoni di ottone si deformano e scoppiano. Gli armaioli cercano con ogni mezzo di perfezionarli finché, dopo il 1420, vengono definitivamente adoperati come macchine campali i cannoni, le colubrine, i falconetti di bronzo, su due o quattro ruote, trainati da cavalli. Intorno al 1480, in Francia si comincia a sostituire palle di ferro a quelle di pietra usate fino ad allora: la guerra diviene così un «affare» sempre più costoso. La colubrina riesce a sparare a 2.400 metri, e in una giornata può tirare fino a 60 colpi; il falcone, un tipo leggero di cannone, supera appena il chilometro e mezzo, ma in compenso spara 120 colpi in un giorno. Le armi da fuoco diventano via via più leggere e maneggevoli, nascono l’archibugio, la pistola e il moschetto: con un archibugio di buona marca – e i migliori sono italiani! – si può uccidere un uomo a 350 metri. Le corazze vengono ispessite, dovendo resistere non solo alle spade e alle picche, ma soprattutto alle fucilate. Le mura delle città si abbassano, per offrire minore bersaglio all’artiglieria, ma si raddoppiano i muri per resistere alle bombarde. Le quali, se l’esercito è povero, sono di pietra, ma se il Signore è ricco, allora sono di ferro e aprono nelle mura larghi squarci.

I grandi eserciti cinquecenteschi sono un mosaico di etnie nel quale, alla componente più affidabile della propria società militare, le Corone devono necessariamente affiancare unità di specialisti stranieri: la Francia è patria tradizionale di cavalieri arditi, in Svizzera e nella Penisola Iberica si levano fanti aggressivi e disciplinati, dalle terre ai confini con l’Islam vengono le migliori cavallerie leggere e dall’Italia i più rinomati ingegneri militari. Il ricorso alle «compagnie di ventura», spesso indisciplinate, è un’arma a doppio taglio: talvolta capita che prima della battaglia chiedano uno stipendio doppio o triplo; i Governanti, i Principi e i Re si indebitano presso i grossi banchieri tedeschi o fiorentini per pagare l’esercito. I condottieri migliori sono gli Italiani: appartengono ad una corporazione con proprie regole e sono veri e propri professionisti della guerra, poche migliaia di guerrieri spesso non aristocratici e tuttavia valorosi, esperti, prudenti e rispettosi della propria e dell’altrui vita.

È un tempo duro. Non esiste più né il sentimento dell’onore, né quello della pietà. Spesse volte una città che si arrende viene rasa al suolo; i prigionieri non vengono messi in carcere, ma massacrati: il massacro dei prigionieri è una specialità che accomuna i Turchi e gli Svizzeri.

Gli eserciti non hanno medici; solo il Signore si porta dietro quello suo personale che, naturalmente, presta le prime cure a lui e poi ai suoi amici. I feriti vengono lasciati sul campo, o medicati con tale ignoranza che la maggior parte muore dissanguata o per infezione. I feriti nemici vengono abbandonati, e solo in casi rarissimi raccolti.

Il sistema più in uso per curare le ferite è la cauterizzazione: le si brucia con un ferro rovente. La cauterizzazione delle ferite e delle incisioni è stata studiata intorno alla fine del X e all’inizio dell’XI secolo dal chirurgo Abul Casis, che ne parla nel suo Kitab al Tasrif, ma è un sistema barbaro, che avviene senza altro anestetico che il vino oppiato. Solamente dopo il 1545 verrà pubblicato un libro di Ambroise Paré sulle ferite degli archibugi e sulla loro cura: a partire da quell’anno, molte vite saranno salvate e il ferro rovente verrà man mano abbandonato. Per avere la prima operazione chirurgica con anestesia totale dovremo aspettare addirittura il 30 marzo 1842, ad opera dell’Americano Crawford Williamson Long.

Se l’arte ha avuto in questo secolo il suo trionfo, la scienza è ancora agli albori.

(novembre 2015)

Tag: Simone Valtorta, Italia, Rinascimento, guerra nel Rinascimento, Quattrocento, Cinquecento, armi da fuoco, compagnie di ventura, fanteria pesante, Svizzeri, fanti svizzeri, guardie svizzere, Elvezi, Renato Trivulzio, battaglia di Marignano, Lanzichenecchi, Tercios Spagnoli, giannizzeri turchi, polvere da sparo, Guerra dei Cento Anni, battaglia di Crécy, cannoni, colubrine, falconetti, colubrina, falcone, bombarda, archibugio, pistola, moschetto, cauterizzazione, Abul Casis, Kitab al Tasrif, Ambroise Paré, anestesia totale, Crawford Williamson Long.