Lorenzo de’ Medici, «il Magnifico»
Il più grande tra i Signori del Rinascimento Italiano

È il 7 febbraio del 1469. Nella Piazza di Santa Croce, in Firenze, è in pieno svolgimento un grande torneo al quale prendono parte i giovani delle più potenti famiglie cittadine.

Il popolo, accorso in massa, segue con entusiasmo la non comune competizione. La lotta tra i partecipanti si va facendo sempre più accanita: sarà premiato quel cavaliere che, oltre a saper maneggiare la lancia con grande abilità, dimostri un’eccezionale destrezza nel cavalcare.

Ad un certo momento, l’attenzione degli spettatori viene attirata da un cavaliere che indossa un mantello di velluto azzurro, trapunto di gigli d’oro, che va compiendo delle vere e proprie prodezze: riesce a disarcionare gli avversari al primo colpo e, ogniqualvolta il suo cavallo – urtato duramente – è lì lì per cadere a terra, egli, con singolare abilità di cavallerizzo, riesce a sostenere in piedi l’animale e riprende immediatamente il combattimento.

Infine, i paggi danno fiato alle trombe: la grande competizione è terminata.

I giudici non hanno alcuna difficoltà nella scelta del vincitore: il migliore in campo è stato il cavaliere dal mantello di velluto azzurro.

Questo cavaliere che ha entusiasmato i Fiorentini con la sua straordinaria abilità è Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici (il figlio di Cosimo de’ Medici), il più autorevole cittadino di Firenze, e di Lucrezia Tornabuoni.

Il 2 dicembre dello stesso anno, Piero de’ Medici detto il «Gottoso», debole di salute, cessa di vivere. Gli succedono i figli Lorenzo e Giuliano ma, poiché quest’ultimo è appena sedicenne, la «cura della città» passa nelle mani del ventunenne Lorenzo. Fino ad ora, il giovane si è dedicato alla poesia, alla caccia ed ai tornei; sono pochi coloro che si aspettano da lui un’abilità nella politica.

E invece questo geniale improvvisatore di versi, questo brioso organizzatore di feste e banchetti mostra di avere tutte le qualità del nonno, che ha curato particolarmente la sua educazione: è abile negli affari, tollerante verso i nemici, munifico con gli artisti, e con un ben preciso programma politico in mente. Due sono gli obiettivi che Lorenzo si propone di raggiungere: diminuire la potenza delle grandi famiglie fiorentine che contendono il potere alla sua; modificare le istituzioni repubblicane (sebbene ci sia la Signoria dei Medici, Firenze conserva ancora le vecchie istituzioni comunali), in modo da togliere ad ogni avversario la via al potere.

Non è un uomo bello: ha la carnagione olivastra come il nonno, la fronte severa e la mascella forte, il naso grande e rincagnato (sebbene con una punta volta all’infuori in un modo curioso), il volto troppo magro. La voce ha un tono sgradevolmente nasale. Alto, robusto, con le spalle ampie, sembra più un atleta o un pugile che un uomo di Stato. Ha però un grande fascino personale: è liberale, cortese, ospitale, coltissimo, sa dire battute vivaci e possiede un intelletto sensibile e poetico – un vero Signore. E questi pregi fanno passare in second’ordine la sua bruttezza. Sa godere dell’arte più raffinata così come delle espressioni dei buffoni più ignoranti, sa essere dotto coi dotti e semplice con gli incolti. Sposatosi a malincuore e per ragioni politiche con una donna non amata, la principessa romana Clarice Orsini, si consola con altre donne (secondo la moda del tempo) ma senza avere figli illegittimi.

Lorenzo il Magnifico

Agnolo di Cosimo, conosciuto come Agnolo Bronzino, Lorenzo De' Medici, XV secolo, Galleria degli Uffizi, Firenze (Italia)

Lorenzo de’ Medici è anche un politico scaltro: si pone subito all’opera e già l’anno successivo (estate del 1470) riesce ad ottenere che un Consiglio Maggiore, di cui fa parte egli stesso, sia incaricato di studiare le varie riforme da apportare alle vecchie istituzioni. È il primo passo nell’attuazione del suo audace programma.

La prosperità dei Medici, e di riflesso quella della città, continua. Quando Galeazzo Maria Sforza, Duca di Milano, visita Firenze nel 1471, rimane stupito di fronte all’evidente ricchezza della città e ancor più di fronte ai tesori artistici che Cosimo, Piero e Lorenzo hanno raccolto nel palazzo e nei giardini medicei: qui vi è già un museo di statue, di vasi, di gemme, di quadri, di manoscritti miniati e di frammenti architettonici. Galeazzo confessa che in questa sola collezione egli ha visto un maggior numero di pregevoli dipinti che non in tutto il resto d’Italia.

Agli inizi del 1472 giunge a Firenze una grave notizia: la città di Volterra – interessata ad accaparrarsi una parte dei guadagni provenienti da una miniera di solfato di alluminio data in appalto a privati probabilmente in relazione coi Medici – ha deciso di ribellarsi alla Signoria Fiorentina ed ha chiesto l’alleanza di tutti gli Stati nemici di Firenze. Il momento è estremamente delicato: i più autorevoli cittadini di Firenze sono del parere di giungere ad un accordo con Volterra. Ma Lorenzo si rifiuta decisamente di avallare una tale proposta: con un vibrante discorso, convince tutti sull’opportunità di dare una dura lezione alla città ribelle.

Nello stesso giorno, Lorenzo dispone che le truppe fiorentine si pongano in marcia verso Volterra. In meno di due mesi, i Volterrani sono costretti alla resa; la città è messa a sacco dai mercenari dei Fiorentini, sfuggiti al controllo. Con questa vittoriosa impresa, Lorenzo de’ Medici ha mostrato ai suoi concittadini di essere un giovane energico e deciso.

Nel 1474, Lorenzo ha modo di dimostrare ancora una volta la sua non comune abilità di uomo politico. Per essere in grado di fronteggiare l’eventuale attacco di quegli Stati che hanno intenzione di estendere il loro dominio ai danni di Firenze, Lorenzo si adopera per stringere delle alleanze. Il frutto della sua abilità diplomatica è la formazione di una lega con la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano, i due Stati più potenti d’Italia.

La popolarità e la fiducia che Lorenzo si è andato man mano acquistando tra i Fiorentini suscitano l’invidia dei Pazzi, una famiglia di ricchi banchieri che va tentando da un pezzo di sostituirsi ai Medici nel governo della città. La sua gelosia è giunta a tal punto, che non esita a porre in atto un piano criminoso.

La mattina del 26 aprile del 1478, domenica di Pasqua, assieme ad altri rivali dei Medici, i Pazzi decidono di agire. Stabiliscono di compiere il loro delitto addirittura nel Duomo di Firenze, durante la Santa Messa: all’Elevazione, nel momento in cui tutti i fedeli sono più assorti nella preghiera, aggrediscono alle spalle Lorenzo e Giuliano che, come loro costume, sono senza armi e senza scorta. Giuliano è pugnalato in pieno petto da Bernardo Bandini e, caduto a terra, viene ripetutamente colpito col pugnale da Francesco de’ Pazzi con un tale furore, che l’aggressore si ferisce da se stesso ad una gamba. Lorenzo viene attaccato con la spada da Antonio da Volterra e da Stefano, un sacerdote; si protegge con le braccia riportando una ferita, finché il Poliziano lo sospinge nella vicina sacrestia sbarrandone la porta. Mentre Giuliano viene trasportato morto a palazzo Medici, l’Arcivescovo Salviati, Iacopo de’ Pazzi e un centinaio di gregari in armi vanno all’assalto di Palazzo Vecchio, tentando di far insorgere il popolo in loro aiuto. Ma è proprio il popolo, indignato, a rivoltarsi contro i congiurati, al grido di «Vivano le palle!» (emblema della famiglia Medici). Quando Salviati entra nel palazzo, viene atterrato dal gonfaloniere Cesare Petrucci; Iacopo del Poggio è impiccato ad una delle finestre del palazzo e parecchi altri cospiratori, che hanno salito le scale, sono afferrati dai priori e gettati dalla finestra, per essere uccisi o dal duro selciato o dalla folla; Francesco de’ Pazzi, debole per la perdita di sangue, è strappato dal letto e impiccato vicino all’Arcivescovo che nell’agonia della morte gli morsica una spalla; il corpo di Iacopo de’ Pazzi, vecchio e onorato capo della famiglia, viene trascinato nudo per le strade e gettato nell’Arno. Cadono un’ottantina di teste.

Nonostante Lorenzo abbia fatto tutto il possibile per calmare la sete di sangue della plebaglia e salvato molti ingiustamente accusati, il Papa Sisto IV reagisce con violenza contro tanta efferatezza scomunicando Lorenzo, il gonfaloniere e i magistrati di Firenze, sospendendo i servizi religiosi ed alleandosi con Siena e con il Re Ferdinando di Napoli contro la città toscana. Sconfitto in battaglia, Lorenzo si reca spontaneamente ed in segreto a Napoli come prigioniero, ma anche come ospite onorato; si acquista degli amici con la sua cordialità e la sua generosità, la sua educazione e la sua allegria. Lo stesso Re (che gode di una pessima reputazione per aver fatto invitare come ospite e poi assassinare il condottiero Jacopo Piccinino) ne apprezza la cultura e il carattere, tanto che in capo a tre mesi firma la pace, gli dona un magnifico cavallo e gli permette di salpare da Napoli. Lorenzo torna a Firenze accolto con gratitudine festante. Anzi suo figlio Giovanni, il futuro Papa Leone X, riceve il cappello cardinalizio.

Sicuro ormai del favore di tutto il popolo fiorentino, Lorenzo decide di portare a termine le riforme di governo progettate fin dal 1470.

Pur non sopprimendo le vecchie istituzioni, egli ottiene di poter dirigere liberamente la politica di Firenze: diviene insomma l’unico ed assoluto Signore della città. Ma non vuole approfittare della fiducia che i Fiorentini gli accordano per trasformarsi in tiranno: da uomo saggio qual è, si serve del potere per dare alla sua Firenze pace e benessere. L’opposizione è difficile, perché Lorenzo ha spie pronte a rivelarne i nomi ed ha i mezzi per rovinare finanziariamente i suoi oppositori; le vecchie fazioni sono sopite, i delitti scompaiono, l’ordine prospera mentre la libertà a poco a poco diminuisce; scrive un contemporaneo che «non abbiamo né furti, né tumulti notturni, né assassini. Ognuno può badare ai suoi affari di notte e di giorno».

Per merito suo, Firenze diviene la città più gaia e più bella d’Italia: egli l’adorna di splendidi edifici e la rallegra con continui tornei per i ricchi, corse dei cavalli per la borghesia e cortei per il popolino. Si balla nelle piazze fino all’alba, le serenate sotto i balconi dell’innamorata punteggiano la città di musiche di viola e di liuto. Anche Lorenzo partecipa a questa vita spensierata, anzi ne è l’animatore; ma il suo carattere non è del tutto gioviale: una sottile malinconia, un senso di decadenza lo accompagneranno sempre.

E intanto continua nella sua opera di abile uomo politico. Convinto che solo la pace può dare benessere ai popoli, s’impegna in un’opera veramente eccezionale: quella cioè di mantenere il buon accordo tra i più grandi Stati Italiani, Milano, Venezia, Roma e Napoli, proprio in un periodo in cui ciascuna Signoria cerca di allargarsi a spese dei vicini; è per merito suo che l’Italia può godere quasi un ventennio di pace e di prosperità. Per questa saggia politica, Lorenzo de’ Medici verrà definito «l’ago della bilancia italiana». Con questa espressione si vuol significare che Lorenzo è riuscito con i suoi abili interventi a bilanciare, a conciliare le pretese di uno Stato sull’altro.

Ma Lorenzo de’ Medici non è passato alla storia soltanto come il più abile uomo politico del XV secolo: è ricordato anche come un poeta squisito e un fine scrittore; di suo pugno sono molte liriche, ricalcate sui modelli del Petrarca o assolutamente originali, che egli declama ai suoi ospiti e che ancora oggi si leggono con piacere. Le sue poesie migliori celebrano la campagna con boschi e ruscelli, alberi e fiori, greggi e pastori. È grazie a lui che l’italiano mantiene il rango di lingua colta che Dante gli ha dato e che, se fosse stato per i latineggianti umanisti, avrebbe probabilmente perduto. Anzi, proprio alla Corte di Lorenzo esso riceve quei ritocchi che ne fanno la più dolce, ricca e raffinata lingua del mondo quattrocentesco. Lorenzo legge e scrive bene le lingue antiche, ma pretende che alla sua mensa non se ne parli altra.

Firenze impazzisce per i cortei e le mascherate, che fanno del suo carnevale un avvenimento nazionale. Lorenzo perfeziona il gusto e lo stile di questi passatempi: assolda i più grandi artisti del tempo per dipingere ed inghirlandare i carri allegorici su cui i giovani sfilano da Ponte Vecchio a Piazza del Duomo in bizzarri ed evocativi costumi che rappresentano personaggi od avvenimenti mitologici e storici, e sovrintende di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludono queste parate. Ne compone anche le canzoni satiriche o erotiche, i famosi Canti Carnascialeschi, tra i quali si trova il suo capolavoro, il Trionfo di Bacco e Arianna, cantato con accompagnamento di piatti e di liuti, in cui si esprime saggia e malinconica accettazione della vita nei suoi sogni e nei suoi limiti:

«Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco e Arianna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo
se non gente rozze e ingrate:
ora, insieme mescolate,
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio, è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza».

A Lorenzo piace circondarsi di studiosi, di linguisti, di traduttori, di filosofi. Suo amico intimo è il Poliziano, tra i più eleganti intellettuali del Quattrocento, e Pico della Mirandola, l’uomo dalla cultura enciclopedica. Con i maggiori ingegni del suo tempo, i poeti Agnolo Poliziano, Luigi Pulci, Matteo Franco e il filosofo Marsilio Ficino, Lorenzo ama discutere o nella villa di Careggi, o nella Badia di Fiesole. Firenze è piena di circoli, di salotti letterari, di accademie che hanno in Lorenzo l’animatore e il sostenitore.

Nel suo sontuoso palazzo in Firenze, Lorenzo ospita gli artisti, i poeti, gli studiosi migliori dell’epoca, li aiuta e li incoraggia. Lo stesso Michelangelo ragazzo trova in lui un sostenitore: Lorenzo ha compreso che in quel giovane si cela un grande artista; Michelangelo fa le sue prime esperienze come scultore alla scuola del Ghirlandaio, nei Giardini Medicei di San Marco. Il palazzo dei Medici si riempie di statue, di bronzi, di argenti cesellati: gli artigiani lavorano a pieno ritmo, continue sono le commissioni agli artisti.

In città, seguita ad essere fonte di ispirazione per gli architetti la straordinaria Cupola di Santa Maria del Fiore, a doppia volta, con 42 metri di diametro e 114 di altezza, che Filippo Brunelleschi ha innalzato dal 1421 al 1436.

Lorenzo ha anche a cuore la cultura del popolo: è sotto di lui che si forma quella tradizione dell’artigianato colto ch’è ancor viva in Firenze. Ogni più piccolo laboratorio di orafo o di incisore ha il suo «maestro» in un Finiguerra, o in un Baldini o in un Raimondi che inventano nuovi metodi di lavorazione e discutono con gli allievi quelli degli antichi. Si fanno paragoni fra le varie scuole e i vari stili, si cita da Vitruvio di cui Lorenzo ha fatto pubblicare il De architectura e da Leon Battista Alberti, il primo critico d’arte italiano.

Lorenzo de’ Medici non raggiunge la vecchiaia: sofferente di artrite, di gotta e di un disturbo allo stomaco che gli procura sofferenze atroci, sente la vita abbandonarlo. La moglie è morta nel 1488, lasciandogli una discendenza numerosa della cui educazione Lorenzo si è occupato in prima persona. Trasferitosi in lettiga nella sua fastosa villa di Careggi, chiede di ricevere l’assoluzione dal Savonarola. Tra i due non corre buon sangue o, meglio, il Savonarola dice peste e corna dei governanti, abituati a compiere ingiustizie e a comprare con l’oro tutto ciò che serve per le loro iniquità, e ovviamente è schierato contro Lorenzo; comunque, convocato, va dal morente. Il Poliziano, unico testimone della scena, racconta che il frate esorta Lorenzo a mantenersi fermo nella fede; a vivere d’allora in poi senza peccato, se Dio gli concederà di vivere; e ad accettare la morte con serenità, se Dio gli comminerà la morte. Ricevute le assicurazioni di Lorenzo, il Savonarola lo benedice. Uscito costui, Lorenzo riceve l’estrema unzione e attende la fine baciando un Crocifisso d’argento ornato di perle e di gemme. Il 9 aprile del 1492, a soli 44 anni di età, Lorenzo si spegne. I suoi contemporanei gli esprimono la loro ammirazione chiamandolo «il Magnifico»; è il titolo che a quel tempo si dà ad ogni Signore, ma Lorenzo lo è stato davvero per eccellenza e antonomasia. Firenze è all’apice della sua parabola, l’epicentro del pensiero occidentale, nessun’altra città del passato, neppure Atene, ha eguagliato questa straordinaria fioritura artistica: non sono stati due, tre, dieci artisti, ma centinaia di pittori, di scultori, di architetti, grandi e piccoli, di studiosi di filosofia, di greco, di matematica, di astronomia. Quella di Firenze non è stata semplicemente l’età d’oro di una città: quella di Firenze è stata una «Civiltà»!

Alla morte di Lorenzo, comincia la decadenza della città: il suo successore, il figlio Piero, nel 1494 è cacciato con i familiari da Firenze per la debolezza mostrata verso il Re Carlo VIII di Francia. Rientrati i Medici dall’esilio nel 1512, hanno il potere i fratelli di Piero, Giovanni (divenuto l’anno successivo Papa Leone X) e Giuliano, duca di Nemours, i quali, impegnati a Roma, lasciano il governo della città al figlio di Piero, Lorenzo (1492-1519). Da Lorenzo nasceranno Caterina, che sposerà il Re di Francia Enrico II, e un figlio illegittimo, Alessandro.

Dopo una nuova breve fase repubblicana (durata dal 1527 al 1530), l’Imperatore Carlo V erige la città in Ducato, conferendola proprio ad Alessandro nel 1532. Ma il primo Duca di Firenze è assassinato poco dopo da Lorenzino, pure lui un Medici, discendente da un ramo cadetto.

Con la morte di Alessandro, si estingue la linea di Cafaggiolo, quella alla quale è appartenuto il Magnifico. La successione tocca a Cosimo (1519-1574), figlio del condottiero Giovanni delle Bande Nere che ha sposato una nipote (figlia di una figlia) di Lorenzo il Magnifico. Con Cosimo ha inizio la dinastia dei Granduchi di Toscana, che si estinguerà nel XVIII secolo.

(marzo 2015)

Tag: Simone Valtorta, Italia, Rinascimento, Firenze, Cosimo Medici, Quattrocento, Toscana, mecenatismo, famiglia Medici, Lorenzo il Magnifico, Trionfo di Bacco e Arianna, carnevale, canti carnascialeschi, Piazza di Santa Croce, Piero de’ Medici, Clarice Orsini, Lorenzo de’ Medici, congiura dei Pazzi, Iacopo de’ Pazzi, Sisto IV, Ferdinando di Napoli, ago della bilancia italiana, Agnolo Poliziano, villa di Careggi, Badia di Fiesole, Giardini Medicei di San Marco, Cupola di Santa Maria del Fiore, Leon Battista Alberti, Savonarola.