Napoli nel Trecento e nel Quattrocento
Congiure fallite e nobili disoccupati segnano la vita della città partenopea; nonostante questo, sotto il governo di Sovrani illuminati, il Regno di Napoli dà vita ad una civiltà colta e raffinata

Prima metà del XIV secolo; nel Regno di Napoli governa Roberto d’Angiò (Re dal 1309 al 1343). Sul versante Adriatico i suoi domini comprendono i porti di Pescara, di Bari, di Brindisi e di Otranto; un poco nell’interno la città di Foggia, un tempo brillante capitale di Federico II; nell’incavo dello Stivale l’antico porto di Taranto, e sulla punta di questo Reggio; sulla costa Sud-Occidentale i panorami stupendi culminanti nelle bellezze naturali di Salerno, di Amalfi, di Sorrento e di Capri, e soprattutto Napoli, indaffarata e rumorosa, loquace e ardente. È la sola grande città del Regno: al di fuori di essa e dei porti, la zona è agricola, medievale e feudale.

I sudditi del Regno di Napoli si possono dividere in tre categorie: la Corte, i nobili che cercano di abbattere il Re, e il popolo. Il Sovrano non bada a spese se si tratta di aiutare gli artisti, o di organizzare feste lussuose. Ma il suo Regno è spezzettato in numerosi feudi in mano a baroni che lo circondano e lo insidiano; costituiscono la nobiltà feudale, discendendo dai conquistatori normanni, tedeschi, francesi (e in seguito anche spagnoli) che si sono dati il cambio in questa contrada. Non si occupano del commercio, come a Firenze, o a Venezia, o a Genova: vivono nelle campagne, arroccati nei loro turriti castelli. I più potenti possiedono immensi latifondi e stuoli di servi della gleba e di schiavi, che sfruttano e sottopongono ad ogni sorta di angherie per un tozzo di pane ed una camicia, né conoscono altra legge che quella della violenza e dell’arbitrio. Scarsi sono i proventi che il Re trae da queste terre, e deve sostenere le spese del Governo e della Corte con ciò che gli proviene dai feudi suoi propri o sfruttando il controllo reale sul commercio. Poi c’è il popolo, affamato e confinato in quartieri sudici e malsani. L’economia è praticamente tutta in mano ai mercanti fiorentini che cercano di recuperare le alte somme prestate alla Corte. Non esiste una borghesia, una classe di mezzo: a Napoli o si è ricchi, o si è poverissimi.

Quando Roberto muore, gli succede la nipote Giovanna I d’Angiò, figlia del duca Carlo di Calabria. Ha sposato Andrea, figlio secondogenito del Re d’Ungheria Carlo Roberto d’Angiò, che aspira alla Corona di Napoli (di spettanza della moglie); un’aspirazione che gli costerà la vita: sarà assassinato nel 1345 ad Aversa, in una congiura, per ordine forse della stessa Giovanna. Sono i sistemi che si usano in questi tempi per dirimere molte questioni. Accorre il fratello di Andrea, Luigi, e per quattro anni compie scorribande su e giù per il Meridione portandovi la guerra. I disordini e le vendette senza fine tra i sostenitori dei due partiti proseguiranno per anni, dopo la breve tregua che vede capo effettivo Niccolò Acciaiuoli (vissuto dal 1310 al 1365). Finché Carlo di Durazzo provvede a far strangolare la bizzarra Giovanna I con un legaccio di seta. È il 1382.

Giovanna II si marita tre volte, bandisce il suo secondo marito e fa assassinare il terzo. Chiama in aiuto Alfonso d’Aragona contro il popolo in rivolta, lo adotta come figlio ed erede e poi lo disereda, lasciando il Regno a Renato d’Angiò. Dopo molte battaglie e molti intrighi, nel 1442 Alfonso sconfigge il rivale ed eredita l’intero dominio degli Angiò, riunendo la Sicilia a Napoli (e ponendo le basi legali all’invasione francese dell’Italia nel 1494, il primo atto della tragedia italiana: la sua salita al Trono viene vista infatti come un’usurpazione ai danni della Casa d’Angiò).

Alfonso governa con sagacia, cercando di rinnovare il suo Regno e trasformando Napoli in una capitale fastosa e moderna. La città assume un volto architettonico nuovo: vengono demoliti i vecchi quartieri fatiscenti e insalubri, incrementata l’edilizia popolare, aperte nuove strade, ampliato il porto, costruito un nuovo molo, scavate fogne, erette chiese e palazzi, restaurato il Maschio Angioino, innalzando nel centro un grandioso arco trionfale. Si procura figli non dalla moglie, ma dalle dame di palazzo, frequenta regolarmente la chiesa ed ascolta le prediche.

Abbellisce la Corte, la riempie di quadri, tappeti, ori, arazzi e ne fa il fulcro della vita sociale, mondana e culturale del Regno; vi chiama poeti, artisti, filosofi, letterati. Sovvenziona gli studiosi dei classici con mano così generosa da meritarsi il soprannome di «Magnanimo»: versa al Poggio 500 corone per la traduzione in latino della Ciropedia di Senofonte, dà a Bartolomeo Fazio 500 ducati all’anno per scrivergli una Historia Alfonsi e gliene dà altri 1.500 quando questa viene terminata, e nel solo anno 1458 distribuisce 20.000 ducati a uomini di lettere. Porta sempre con sé qualche classico, ovunque vada, se ne fa leggere uno ai pasti ed ammette gli studenti che ne vogliano ascoltare la lettura. Quando il Manetti gli tiene un discorso in latino, il Re è così affascinato dallo stile perfetto e vivo dello studioso fiorentino che permette persino che una mosca rimanga appoggiata felice sul suo regale naso finché l’orazione non è finita. Il più notevole degli studiosi alla Corte di Alfonso è il celebre umanista romano Lorenzo Valla, un uomo dalle passioni disordinate, dal temperamento caldo e dal linguaggio aggressivo, ma anche un latinista entusiasta, tanto da sostenere una guerra per distruggere la lingua letteraria italiana e per far rivivere al suo posto il buon latino; il suo trattato più famoso è il De falso credita et ementita Constantini donatione, col quale dimostra definitivamente la falsità del documento col quale l’Imperatore Romano Costantino avrebbe concesso al Papa Silvestro I il pieno dominio temporale di tutta l’Europa Occidentale.

Inoltre Alfonso istituisce commerci più fervidi, dilapida somme favolose per realizzare i suoi progetti e porta il Regno sull’orlo della bancarotta; per rimpinguare l’erario inasprisce le tasse, soprattutto a danno dei mercanti, ed estorce denaro agli Ebrei minacciando altrimenti di farli battezzare. Però, fa ridurre le imposte ai poveri e aiuta i miseri. I Napoletani lo giudicano un buon Re ed egli si aggira in mezzo a loro disarmato, senza scorta e senza alcun timore.

Il figlio putativo Ferdinando I (o, come lo chiama il popolo, Don Ferrante), che gli succede sebbene non si sia mai saputo di chi fosse figlio (la madre ha avuto molti amanti, oltre al Re), per riassestare le finanze introduce un regime di austerità, riduce gli stipendi ai cortigiani ed ai letterati, concentra gli investimenti sull’industria e sul commercio. Diminuisce le tasse, e per alcuni anni abolisce il dazio di uscita sulle merci. Spalanca i porti del Regno, soprattutto quello di Napoli, ai mercanti veneziani, genovesi e catalani e concede l’immigrazione agli Ebrei (nonostante il clero e il popolino li vedano di malocchio); favorisce anche l’esodo dalle campagne dei «cafoni», che s’inurbano in così gran numero che il Sovrano è costretto ad allargare la cinta delle mura e innalzare nuovi quartieri.

Napoli

Ignoto, La flotta aragonese ritorna dalla battaglia di Ischia il 6 luglio 1465, XV secolo (Tavola Strozzi)

Astuto e lungimirante, Don Ferrante attraverso una serie di matrimoni si guadagna potenti alleati e consolida il Trono. Soprattutto, lotta contro i baroni, contro i quali il Sovrano non è in grado di esercitare alcun potere, né di far valere i suoi diritti. Per accattivarseli, Alfonso ha concesso loro numerosi privilegi e lo stesso Ferrante li alleggerisce di alcuni balzelli. Ma i nobili sono scontenti e nel 1485 ordiscono una congiura per abbatterlo: il colpo non riesce, e il Sovrano li fa decapitare in massa. Gli anni successivi di Don Ferrante segnano un periodo di pace interna e un’economia più florida che nel passato.

Pur non essendo mecenate verso gli studiosi come Alfonso, Don Ferrante prende come Primo Ministro un uomo che è poeta, filosofo e abile diplomatico: Giovanni Pontano. Letterato coltissimo, latinista elegantissimo, dà impulso all’Accademia Napoletana e tra le varie opere (trattati di etica, politica, scienze), tutte scritte in ottimo latino, ci lascia alcune piacevoli poesie in cui esalta ogni specie di amore legittimo (le vicendevoli simpatie della sana gioventù, il tenero attaccamento dei giovani sposi, le reciproche soddisfazioni del matrimonio, le gioie ed i dolori dell’affetto per i figli, l’unione dei coniugi fino a divenire un essere solo con l’andar degli anni) e la vita dei Napoletani nei giorni di festa: gli operai distesi sull’erba, gli atleti intenti alle loro gare, i gitanti sui loro carri, le belle ragazze che ballano la tarantella battendo le mani sui tamburelli, i giovanotti e le fanciulle che fanno all’amore sul ciglio della strada, gli innamorati pronti all’appuntamento, i nobili che fanno il bagno a Baia.

La Sicilia rimane estranea al rigoglio rinascimentale: ella dà alcuni eruditi ed alcuni pittori che però si trasferiscono sul Continente, dove maggiori sono le possibilità di sviluppo. I tesori d’arte di Palermo, Monreale e Cefalù sono solo i resti dei tempi di Bisanzio, degli Arabi o dei Normanni. I feudatari che possiedono delle terre vivono ignorando o disprezzando le lettere, fieri solo delle loro virtù guerriere. Il popolo che essi sfruttano è troppo misero per esprimersi culturalmente al di là dei suoi vestiti a colori accesi, dei suoi sentimenti religiosi che si effondono in vivaci mosaici e in oscure speranze, delle sue canzoni e dei suoi versi semplici, che parlano d’amore e di violenza. Quest’isola incantevole sarà poi, per tre secoli, il gioiello della Corona di Spagna.

Quando nel 1494 Don Ferrante cala nella tomba, il cordoglio dei suoi sudditi è sincero. Egli lascia un Regno saldo e prospero, con confini sicuri; ma già si apre per Napoli un altro periodo, stavolta inquieto ed oscuro.

(novembre 2014)

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