Il Palazzo dei Diamanti di Ferrara
Realtà e leggenda

Il fabbricato, che va sotto il nome di Palazzo dei Diamanti, è caratteristico e singolare nelle sue finiture sulle pareti che si affacciano su due grosse arterie stradali cittadine a formare il cosiddetto Quadrivio degli Angeli. L’aspetto attira immediatamente l’attenzione del passante, del turista, del curioso, che si ferma ad ammirare la massiccia costruzione, imponente e molto autorevole.

La sua costruzione è stata compiuta fra il 1493 e il 1503, quando era Duca di Ferrara Ercole I d’Este e commissionata per la sua realizzazione dal fratello Sigismondo. L’opera porta la firma dell’architetto di Corte Biagio Rossetti, al quale si devono tante costruzioni cittadine; tuttavia, egli passò alla storia della città estense soprattutto per aver portato a buon fine la cosiddetta «Addizione Erculea», che non era che quel suo ragionato raddoppio, che le ha fatto assumere una fisionomia tanto avanzata da farla definire la «città più moderna d’Europa».

Le facciate che si prospettano sulle vie sono ricoperte da tantissimi blocchi di marmo rosa di Verona: si tratta di una breccia, cioè di frammenti di marmo cementati fra loro dal calcare che, per azione degli agenti atmosferici, ma soprattutto per l’insolazione, diventano bianchicci, e che offrono alla severità del palazzo un aspetto piacevole. Forse non è male ricordare che a quei tempi, anche se i marmi delle Alpi Apuane erano noti a Nord dell’Appennino, era in pratica impossibile pensare di metterli in opera qui, a causa delle difficoltà che avrebbero dovuto incontrare i buoi, costretti a trascinare pesanti e voluminosi carri di legno lungo le impervie vie della montagna. Roma era avvantaggiata, perché caricava le sue navi nel porto della ligure Luni, scendeva il Tirreno, risaliva il Tevere e scaricava lì i suoi carichi. Al contrario, per fornire marmo apuano nell’Italia del Nord, sarebbe stato necessario passare attraverso lo Stretto di Messina, risalire l’Adriatico e penetrare nella Pianura Padana, imboccando una delle foci navigabili del grande fiume, per risalirlo e per inoltrarsi fino alla Lombardia. Proprio per questo fatto, nell’Italia Settentrionale le pietre ornamentali provenivano da giacimenti veronesi, vicentini e istriani; però, non si devono dimenticare le cave del marmo rosa di Candoglia, località del comune di Mergozzo, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola, dalle quali sono stati estratti, fra l’altro, i marmi per l’erezione della Cattedrale di Milano e che tuttora forniscono i materiali per i restauri che ogni tanto le si rendono necessari.

Da ciò che si sa, sembra che nessuno si sia preso la briga di contare esattamente quanti siano i blocchi di marmo (qualcuno dice 8.500, qualcun altro dice addirittura 12.000). Posso affermare che pure io, un giorno, ho tentato di avviare il conteggio dal vivo, ma poi ho lasciato correre, perché c’era da intontirsi e mettere a repentaglio la vista. Mezzo secolo dopo, al palazzo si fecero delle modifiche riscontrabili nel fascione in cotto che ha incoronato l’intera struttura; inoltre, da notare l’aggiunta di un balconcino posto sull’angolo delle due vie, al quale si accede per una porticina non visibile dalla strada, che non ha nulla da spartire con l’enorme finestratura del fabbricato: eseguito da Gabriele Frisoni di Mantova, la sua funzione era di spezzare la severità del complesso monumentale del Palazzo dei Diamanti.

Tornando al bugnato delle facciate (cioè all’insieme dei risalti – le bugne, appunto – lasciati ad arte sui blocchi che ornano le facciate), questo è formato da un numero imprecisato di blocchi che sporgono verso l’esterno per circa 18 centimetri, con punte piramidali a base quadrata con lati lunghi attorno ai 42 centimetri. Le superfici sono completamente ricoperte dai blocchi lavorati in modo tale da fare apparire i giunti come se fossero scanalati e arretrati l’uno rispetto all’altro, e posati su file sfalsate. Ma ciò che sorprende, è il fatto che le punte piramidali non sono tutte eguali fra di loro: sono state conformate in modo diverso secondo la loro collocazione sulla superficie della facciata, per creare un effetto di carattere prospettico veramente piacevole e singolare attraverso la cattura e la riflessione della luce; infatti, le punte sono rivolte verso terra, poi centralmente e infine verso l’alto, partendo dal basso del monumento e andando verso la sua sommità. L’orientamento diverso dei vertici è per accrescere il chiaroscuro e per rompere la monotonia che si sarebbe ottenuta. La lavorazione dei marmi fu affidata a Gabriele Frisoni da Mantova e a Cristoforo da Milano. Il progetto complessivo fu realizzato da Bartolomeo Tristano. Importanti e celebri sono le candelabre e le decorazioni fitomorfe d’angolo, attribuite a Gabriele Frisoni, mentre la pilastra d’angolo proprio sopra il balconcino fu rifatta dallo scultore ferrarese Gaetano Davia.

Fin qui la storia. Il seguito, che correttamente è giusto riportare, non si sa fino a che punto sia vero oppure no, cioè se si tratti o no di una leggenda senza fondamento reale. Tutto sommato sarebbe meglio che solamente di chiacchiere si trattasse, giacché, se ciò che ci si appresta a raccontare fosse vero, sarebbe una brutta ombra sul Duca Ercole I che, stando alla maggior parte degli studiosi che si sono interessati alla sua personalità e al suo governo, si è sempre dimostrato una persona quadrata e ragionevole, come nell’occasione della difficile convivenza a Corte con Lucrezia Borgia, la moglie del figlio Alfonso.

Stando ai «si dice», il Duca avrebbe fatto incastonare in uno tra le migliaia di blocchi piramidali il diamante più prezioso della sua corona, come se si fosse trattato di uno scrigno da non aprire mai più. La scelta cadde su una di quelle masse lapidee e, a quel punto, solamente lui e il capomastro che ne aveva preparata la nicchia conoscevano la sua esatta posizione. Il Duca, inizialmente non ci pensò, però a poco a poco il dubbio che il capomastro parlasse, e magari rivelasse a qualcuno quel luogo segreto, agì come un tarlo su di lui, per cui, dopo averlo fatto venire a Corte con una scusa, gli fece tagliare la lingua e lo fece accecare. Più tardi, pentitosi amaramente della scelleratezza compiuta, si narra che egli si sia scusato e che l’abbia ricompensato con una cospicua somma in monete d’oro.

Nell’ipotesi che il fatto fosse vero, naturalmente si fa necessario il chiarimento del perché si sia giunti all’incastonatura del diamante.

La scelta del blocco di marmo non fu casuale, perché la sua posizione corrisponde a un punto ben preciso in cui si concentrano le forze telluriche all’interno del palazzo dove, d’altra parte, si tenevano sedute per approfondire la conoscenza di astrologia e alchimia con la presenza di famosi studiosi non solo locali. Quel balconcino costruito nello spigolo del fabbricato, oltre alla funzione di offrire all’occhio dell’osservatore un aspetto di valida prospettiva, se la leggenda fosse una verità, rappresentava proprio il punto esatto in cui si catalizzavano i campi energetici.

Come detto più sopra, niente avvalora la faccenda del diamante, però solitamente anche le leggende più strane e inverosimili, gratta gratta, un fondo di verità lo contengono. Chissà!

Secondo qualcuno, per la cronaca, il bugnato del Palazzo dei Diamanti di Ferrara servì come esempio da imitare per la costruzione del Palazzo delle Faccette del Cremlino di Mosca, commissionato agli architetti italiani Marco Ruffo e Pietro Antonio Solari dal Gran Principe Ivan il Grande, nel 1487.

(settembre 2021)

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