I secoli bui di Ferrara
Dalle stelle alle stalle

Il Ducato di Ferrara, Modena e Reggio era nato sotto il controllo dello Stato Pontificio, con il vincolo di vassallaggio, a partire dal 1471. E gli Estensi lo governarono fino alla devoluzione del 1598, con passione e dignità. Quella data malauguratamente ne segnò in modo inglorioso la fine. Il Duca Alfonso II, malgrado tre matrimoni, non ebbe figli, per cui nominò come suo erede il cugino Cesare d’Este del ramo di Montecchio. Era figlio di Alfonso, fratello del padre Ercole II, ma questi era un «figlio naturale» del precedente Duca Alfonso I e di Laura Dianti: insomma era illegittimo, per cui il Papa non lo riconobbe come Duca. Cesare si sarebbe potuto rivolgere alla popolazione ferrarese, affinché prendesse le sue parti, ma purtroppo c’era in atto uno stato di disagio e di malcontento, a causa della pesante politica fiscale imposta da Alfonso II. Tanto che molti suoi potenziali sostenitori gli voltarono le spalle, sia perché stanchi della Signoria che li governava, sia per le promesse che erano pervenute da parte dal clero locale. A completare l’opera ci furono pure gli interventi negativi del Duca di Mantova e della Duchessa di Urbino, Lucrezia d’Este. La controversia si risolse, infine, il 12 gennaio 1598, con la stesura di un documento redatto durante la Convenzione Faentina, con il quale si stabiliva che, insieme con la città di Ferrara, passassero sotto la giurisdizione del Papa anche Comacchio e tutta la Romagna. Al povero Cesare non restò altro che chinare il capo. Il 28 dello stesso mese, egli traslocò con la famiglia e tutta la Corte a Modena dove il Ducato di Modena e Reggio continuò a esistere fino al 1859, quando entrò a far parte del dominio sabaudo.

Senza perdere tempo, il giorno successivo entrò in Ferrara il Cardinale legato Pietro Aldobrandini, nipote del Papa Clemente VIII, per preparare l’arrivo in città del Papa stesso, che avvenne qualche giorno dopo. Inoltre il Pontefice nominò il Generale Flaminio Delfini governatore militare della città.

Il Papa rimase per sei mesi a Ferrara, riuscendo a rendersi conto dello stato sia politico sia economico della sua nuova acquisizione e a operare in modo tale da attirarsi addosso il malcontento e le esecrazioni della popolazione; tanti cittadini si pentirono per aver caldeggiato il ritorno del Papa in sostituzione del Duca e chi poté si trasferì al di fuori dell’ex Ducato, soprattutto spostandosi a Modena.

Il Papa Clemente VIII (che in quanto a clemenza fu molto carente) aveva approfittato della situazione che gli si dimostrava favorevole, grazie a una bolla del Papa Pio V, che escludeva dalla successione i discendenti naturali. Per Modena e Reggio fu diverso, giacché l’Imperatore Rodolfo II ritenne il tutto regolare, per cui rimase in vita il Ducato di Modena e Reggio, che – come già detto – durò fino al 1859. A Ferrara restò il nome di Ducato, ma si trattò praticamente di una presa in giro; divenne, in realtà, una provincia di confine dello Stato Pontificio, dove la cultura e l’economia passarono in ultima posizione, per cui furono disastrose: niente di più azzeccato del detto «dalle stelle alle stalle!»

Che cosa diceva la bolla che diede al Papa la forza e la decisione di comportarsi in modo tanto dispotico? La bolla così recitava: «Prohibitio alienandi et infeudandi civitates et loca Sanctae Romanae Ecclesiae». Quindi, niente da fare: ai maggiorenti di Ferrara non restava altro che ingoiare l’amaro boccone, e iniziarono quelli che qui ancora si definiscono i «secoli bui» della storia post ducale di Ferrara, mal sopportati dalla cittadinanza. La definizione, che si ritiene azzeccata al caso, è stata coniata dal poeta Francesco Petrarca nel 1330 con riferimento all’oscurità intellettuale del Medioevo: «bui» in contrapposizione alla «luce» dell’antichità classica.

Periodo ingeneroso, umiliante, vissuto da una città che della cultura, dello sfarzo, del fulgore, della raffinatezza aveva fatta la sua bandiera, che era stata capace di stare alla pari di tante altre realtà italiane ed europee anche più grandi e potenti, e che dall’oggi al domani divenne una città di frontiera e basta, senza ambizioni e senza futuro; e, per non cambiare, era sempre sotto un possibile tentativo di aggressione e dominazione da parte della Serenissima Repubblica di Venezia per la quale il Ducato era sempre stato un po’ come un Eldorado dietro casa. Molte attività produttive scomparvero, molti Ferraresi che ne avevano i mezzi, schifati, se ne andarono, meravigliosi oggetti d’arte sparirono o furono stranamente dispersi. Opere artistiche furono spogliate o trafugate prima dal Papa e più tardi dai Francesi; molte sparirono dalla circolazione, non si sa né come, né quando. E pure le Delizie Estensi, luoghi preferibilmente scelti da intellettuali e dotti, furono quasi del tutto abbandonate.

Non c’è che dire: il dominio del Pontificato ha segnato un paio di secoli del tutto da dimenticare e di cui sentire vergogna. Molte furono le questioni che si attirarono addosso lo scontento e il disappunto della popolazione, ma secondo il mio modesto parere, il maltrattamento riservato agli Ebrei Ferraresi e la costruzione della fortezza furono quelle operazioni che emersero veramente come degne di ogni critica e contrarietà, oltre al vergognoso vilipendio della passata grandezza, che lasciarono uno strascico di disapprovazione e odio che, di quando in quando, traspare dai volti dei cittadini attuali, quando vanno a rimuginare su quanto di bello c’era allora e, grazie al dominio papale, ora non c’è più.

Il comportamento nei confronti degli Ebrei fu veramente da disapprovare, perché dimostrò quanto si possa essere cattivi nei confronti di chi, senza far male a nessuno, in quanto a religione la pensa diversamente. Chiaramente, Clemente VIII non riconobbe la validità dell’Editto di Milano, firmato da Costantino per l’Occidente e da Licinio per l’Oriente nel 313 dopo Cristo, in base al quale tutti i religiosi erano liberi di venerare le loro deità. Gli Ebrei, di cui pare che l’insediamento a Ferrara fosse molto antico, nel XV e nel XVI secolo, periodi particolarmente floridi per loro, erano bene accetti agli Estensi, che ne gradivano la presenza attiva; non esistevano separazioni di natura religiosa, tanto che abitavano insieme Ebrei e Cristiani, per quanto non mancassero episodi di intolleranza popolare. Il Frizzi, storico ferrarese del ’700, nella sua opera Memorie per la storia di Ferrara, riporta che gli Ebrei erano circa 2.000. Essi, pur con libertà di movimenti, per restare in continuo contatto fra loro, si erano concentrati in alcune vie presso il centro cittadino. Di questi una parte seguì la Corte Estense a Modena e furono quelli più previdenti, perché le buone condizioni in cui gli Ebrei avevano vissuto a Ferrara non erano destinate a durare. Infatti, si cominciò con la diminuzione dei diritti acquisiti nel corso dei secoli ai circa 1.500 Ebrei rimasti, attuando una sempre più pesante repressione, che culminò nel 1627 con l’imposizione di vivere e operare in quello che era il loro rione maggiormente abitato e che divenne il «ghetto di Ferrara». Questo fu materialmente chiuso da cinque cancelli, posti ai capi delle vie principali, con la scusa che il Governo Pontificio li potesse meglio controllare. L’editto del legato pontificio del 13 agosto diceva che il tutto avveniva in ossequio alle bolle dei Papi Paolo IV, Gregorio XIII, Clemente VIII e Urbano VIII, il Papa in quel periodo in carica. QQQ ui rimasero chiusi per più di un secolo. Dopo alti e bassi, finalmente gli Ebrei ebbero piena uguaglianza di diritti quando la città passò sotto i Savoia, nel 1859. Si trattò della liberazione da un incubo.

Per quanto attiene alla fortezza, le considerazioni da fare, secondo chi ne discusse a quell’epoca, sono che fu un enorme buco nell’acqua, che comportò la muta ribellione, indolore, di una buona parte della popolazione.

Il nucleo cittadino, com’era protetto allora, dava buone garanzie che nessuno sarebbe mai riuscito a entrarvi, come lo avevano dimostrato i vari tentativi, tutti falliti, fatti dai Veneziani e dai loro alleati nel passato.

Le mura di Ferrara con i loro nove chilometri di lunghezza abbracciavano tutto il complesso abitativo e costituivano un’ottima difesa contro gli attacchi esterni da qualsiasi parte potessero giungere. Oltre all’importanza militare, che dava una certa sicurezza ai cittadini, esse, costruite secondo il sistema terrapienato sostenuto da grossi alberi, rappresentavano (come del resto rappresentano tuttora) un polmone verde, che offriva un sollievo alla canicola estiva, che da queste parti, zone di clima continentale con la sua umidità pressoché costante, non scherza affatto. Con un pizzico di orgoglio campanilistico si riporta che pure il grande Michelangelo, nel 1529, le studiò a fondo, giacché in quell’epoca rappresentavano un alto esempio di arte militare.

Il Papa, ostinato, non prese nemmeno per un momento in considerazione che le mura fossero un valido sistema di sicurezza, per cui, invece di provvedere alla necessaria manutenzione e irrobustire quei bastioni che dimostrassero delle debolezze, ritenne che solamente una fortezza, costruita nel posto strategicamente giusto, sarebbe stata la miglior sicurezza per i cittadini all’interno delle mura. Sia ben chiaro che il Papa, oltre a temere gli attacchi esterni da parte dei Veneziani, proprio per il suo comportamento dittatoriale, aveva pure paura di qualche sollevazione popolare armata contro il suo governo, magari istigata e sostenuta dagli Este di Modena, che desideravano ritornare alla vecchia capitale del Ducato. Niente da fare: secondo lui, solamente una fortezza poteva mantenere l’abitato al sicuro.

Pertanto, decise che la posizione migliore sarebbe stata quella nella quale, nel 1597, l’Argenta, cioè l’architetto ducale Giovan Battista Aleotti, d’accordo con il Duca Alfonso II, aveva innalzato dei bastioni in terra, proprio di fronte a Castel Tedaldo, quella costruzione difensiva costruita, secondo la tradizione ferrarese, nel X secolo dal nobile Tedaldo di Canossa, nella zona sud-occidentale della città. Furono tanti coloro (politici, ingegneri, architetti sia Romani sia Ferraresi) che dissentirono da tale decisione, definendola una scelta incomprensibile, ma non ci fu nulla da fare: nessuno riuscì a togliergli dalla testa quel chiodo fisso. Nemmeno il parere di Machiavelli, che riteneva che le fortezze fossero più dannose che utili, spiegandone naturalmente la ragione, ebbe l’effetto di fargli cambiare idea.

Comunque, per diversi anni, non successe nulla. Il Cardinale Pietro Aldobrandini aveva visitato la Delizia del Belvedere, un palazzo stupendo eretto in un’isola sul Po: gli piacque moltissimo e pensava a come impossessarsene. E ne divenne ben presto proprietario per eredità, alla morte di Lucrezia d’Este. Saputo, tuttavia, delle intoccabili decisioni dello zio Papa di costruire lì la fortezza, si affrettò a vendere la proprietà. Per farle posto, si sacrificarono moltissime strutture valide della città. Una parte fu rasa al suolo, «spianata» si disse (tanto che a Ferrara questo termine è rimasto a rappresentare il disgusto per quanto fatto). Un buon tratto delle mura fu abbattuto e la stessa sorte toccò alla bellissima Delizia Estense del Belvedere, costruita sull’isola del Po («Insula Principis») che era già in fase di riempimento di detriti: ciò fu dovuto a un imperdonabile errore del Duca Alfonso II che concesse ai Bolognesi di collegare il Reno, famoso per le torbide che gli derivavano dall’erosione dei depositi di argille del Bolognese, al Po di Ferrara, accelerando quell’interramento che era iniziato con la Rotta di Ficarolo del 1152, con la quale il fiume si tracciò un nuovo alveo, indebolendo il ramo di Ferrara; il territorio divenne sede di numerose, devastanti rotte, allagamenti di abitati nelle zone sud-occidentali della città e rovina di terreni già bonificati. La Delizia Estense del Belvedere era una delle tante meravigliose costruzioni che i Duchi avevano distribuito nella campagna ferrarese, fino al Mare Adriatico, e che servivano alla loro Corte per passarvi piacevoli periodi, soprattutto estivi, con incontri culturali e festosi, di musica e di rappresentazioni teatrali, ma pure per seguire i loro interessi: grano, riso, frutta, allevamenti di suini, bovini e bufali, controllo della pesca e del commercio del sale e delle anguille di Comacchio e altro ancora.

Il disastro compiuto per ordine del Papa si poté sintetizzare nell’abbattimento di 4.000 edifici adibiti ad abitazione, che lasciò 6.000 persone senza tetto, costrette a sfollare; basti pensare che qualcuno paragonò l’avvenimento alla distruzione di Cartagine, così come la raccontò Polibio: in effetti, furono abbattuti negozi, palazzi signorili e complessi residenziali, 12 chiese (ritengo un chiarimento doveroso aggiungere che erano cattoliche), fienili e relative stalle e altro ancora. Per favorire la visibilità e la possibilità di usare l’artiglieria, furono abbassate le «montagne» artificiali sui baluardi esistenti a nord-est e a sud-est della città.

Più che una difesa contro Venezia e gli eventuali dissidenti ferraresi, la fortezza doveva dimostrare che il Papato c’era e che era lui a dettare legge sia in senso politico che militare. Inoltre, per far comprendere alla cittadinanza che chi comandava era sempre lui, fece distruggere strutture ritenute simboli della passata Signoria, quali Castel Tedaldo e la Delizia del Belfiore.

La fortezza fu progettata con la pianta a forma di stella a cinque punte (fu l’ultima in Italia, prendendo come esempio quelle di Parma, Piacenza, Torino e Anversa), fra le quali furono inseriti bastioni a forma di freccia, di cui uno già esistente. I lavori di costruzione, iniziati nel 1608 sotto il Papa Clemente VIII, continuarono per una decina di anni sotto il suo successore Paolo V, tanto che la fortezza fu chiamata anche la «Cittadella di Paolo V». I lavori, iniziati sotto la guida dell’architetto Aleotti, nominato per l’occasione «architetto della fortezza di Ferrara», furono compiuti da Pompeo Targone. Alla fine, si allagò il fossato, alimentato dalle acque del Canalino di Cento (Poatello). A quel punto, tutto era funzionante al meglio, dalle caserme alle polveriere, dai depositi alle armerie, dalle abitazioni del personale fisso alla cappella dedicata a Santa Maria dell’Annunziata, progettata dall’Aleotti. Al centro della piazza d’armi fu posta la statua raffigurante il Papa Paolo V in segno benedicente rivolto alla città, opera di Giovanni Lucca Genovese e di Serafino Colli. Negli anni successivi, furono eseguite le opere necessarie di manutenzione e si aggiunsero parecchi miglioramenti.

Non so se si possa accettare, quanto segue, perché si tratta di un velato invito alla violenza, però se ci fu una colpa, fu quella di non reagire in nessuna maniera da parte di nessuno. Forse, l’alleanza con quegli Stati, che già in altre occasioni diedero un aiuto ai Duchi Estensi, avrebbe fatto cambiare l’atteggiamento pontificio dall’avversione mostrata verso i Ferraresi, anche perché da Modena il buon Cesare d’Este smaniava per tornare a Ferrara. Ma nessuno – insisto –, nessuno si prese la briga di reagire; non dico militarmente, però, almeno formalmente, sì. Da tutto questo, non ci si poteva aspettare altro che quel declino, che tutto avvolse e seppellì.

L’avvento delle guerre napoleoniche sovvertì l’ordine di tantissime cose, fra cui le difese dei nuclei urbani, che furono sostituite dalle nuove forme di difese territoriali. Nel 1805, fu proclamato il Regno d’Italia e Ferrara divenne capoluogo del Dipartimento del Basso Po e, nello stesso tempo, la fortezza, ritenuta inutile, fu condannata, facendo saltare completamente con mine due bastioni e danneggiando gli altri. Date le sue tristi condizioni, fu abbandonata. ConOrigini antiche sembra avere l’insediamento ebraico di Ferrara; tuttavia, solo dal XIII secolo si trovano riferimenti diretti e una documentazione continua.  Quattro e Cinquecento furono secoli particolarmente floridi. Gli Estensi riconobbero numerosi diritti, anche se non mancarono sanzioni ed episodi di intolleranza popolare. Grazie alla loro politica di accoglienza volta al rinnovamento della capitale, transitarono all’epoca personalità di altissimo livello per la storia dell’ebraismo e della città tutta. Circa duemila gli ebrei residenti e una decina di oratori, solitamente associati ai banchi di pegno privati. Tali condizioni, tuttavia, non erano destinate a perdurare. Nel 1597 il duca Alfonso II moriva senza eredi legittimi: la città di Ferrara – feudo pontificio – tornò sotto il controllo diretto della Chiesa e la corte estense si ritirò a Modena, dove molti ebrei la seguirono. Ebbe inizio una graduale repressione dei diritti della popolazione ebraica e, nel 1624, fu decretata l’istituzione del ghetto. L’area scelta si sviluppava nel cuore del tessuto medievale, dove il gruppo era concentrato ormai da anni. Includeva la via dei Sabbioni (attuale via Mazzini), chiusa da cancelli all’incontro con piazza delle Erbe (oggi Trento Trieste) e, dalla parte opposta, con via Terranuova; via Gattamarcia (oggi della Vittoria), chiusa all’incrocio con via Ragno; via Vignatagliata, chiusa agli incroci con via de’ Contrari e San Romano. Nel fitto edificato avevano sede abitazioni e botteghe degli ebrei; tre sinagoghe – due di rito italiano e una ashkenazita – erano riunite nell’edificio di via Mazzini, tuttora sede delle istituzioni comunitarie; una quarta sorgeva in via Vittoria. Sulla piazza, allo sbocco di via Mazzini, si trova l’oratorio di S. Crispino: vi si tenevano le prediche coatte, lì trasferite dalla cappella di Palazzo Ducale per risparmiare al gruppo le umiliazioni recate dal basso popolo durante il tragitto dal ghetto. La reclusione, tuttavia, non spense il fervore culturale e sociale della Comunità: sorsero confraternite assistenziali, di studio e un’accademia rabbinica. il Congresso di Vienna del 1815, Ferrara tornò sotto il dominio dello Stato Pontificio, ma per poco, tanto che la fortezza fu occupata da soldati austriaci, per poi essere abbandonata un’altra volta a seguito delle sconfitte austriache di Montebello, Palestro e Magenta. Il 22 giugno 1859 il Papato cadde, mentre s’insediò un Governo provvisorio che approfittò per demolire quel «simbolo di tirannide e oppressione». La fortezza fu definitamente smantellata nel 1865, esclusi due baluardi, e per le mura fu rinnovata la continuità con un tratto di cinta muraria rettilinea.

Sia ben chiaro, comunque, che la Cittadella di Paolo V non occupa un posto di rilievo nella memoria dei Ferraresi: tutt’altro!

(agosto 2021)

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