Il terremoto a Ferrara
Fenomeno naturale spesso ignorato

La vita umana è tutta una costellazione di fatti alti e bassi, talvolta piacevoli, che la rendono gioiosa e serena, e talaltra di grandi disastri che ne colpiscono l’integrità e che deprimono al massimo il suo stato psichico che, magari, le dà da pensare, pessimisticamente, «che cosa ci sto a fare in questo mondo?» Purtroppo, di ciò che avviene molto spesso l’uomo perde la memoria, incontrando in tal modo eventi, già verificatisi nel passato, che potenzialmente mettono a repentaglio la sua esistenza e quella dei suoi cari, non riuscendo a percepire il rischio al quale è esposto e, pertanto, non mettendo in atto i possibili rimedi, qualora ci siano. Sicuramente, se si ha una conoscenza abbastanza precisa di quanto è avvenuto nel passato in certe aree, si possono valutare i rischi che si corrono per i sismi futuri.

In merito a ciò, si fa riferimento in questa nota alla situazione sismica del territorio di Ferrara. Negli anni ’80 del XX secolo, quando ero funzionario del Distretto Minerario di Bologna, ebbi una costruttiva discussione con un tecnico del Comune della mia città – Ferrara – in merito alla sua situazione sismica, e ci rendemmo conto che qui la possibilità del verificarsi di terremoti era ritenuta pressoché nulla: solamente una zona al confine con Ravenna era classificata sismicamente attiva. Stranamente, non ci si era riferiti ai dati storici che dimostravano come nel passato i fenomeni sismici avessero colpito disastrosamente la città, altroché zona priva di sismicità! Il tutto è stato rivisto, tanto che nell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri numero 3.274/2003, si riporta che Ferrara è stata inserita nella Zona Sismica 3, con la causale «zona che può essere soggetta a forti terremoti, ma rari». D’altra parte, se fossero rimasti dubbi, questi sarebbero stati sciolti quando, nel 2012, il terremoto ha scosso la città, in modo non eccessivamente gravoso, ma in provincia e nel vicino modenese ha fatto vittime e ingenti danni. La grave sequenza sismica si scaricò soprattutto sui centri ferraresi di Sant’Agostino e Bondeno, e modenesi di Finale Emilia, Mirandola e San Felice sul Panaro.

Infatti, conoscendo i rischi, si può, nei limiti del possibile, cercare di correre ai ripari inserendo norme antisismiche nelle costruzioni, ma niente di più, essendo il terremoto fra i fenomeni naturali (forse l’unico) assolutamente non prevedibile.

Ci si può chiedere quanti siano i Ferraresi che conoscono quanto è avvenuto nella città nel passato e che si rendano conto della sua realtà sismica. Eppure, la città con un suo passato di cultura, dove il tutto era scritto e lasciato in eredità ai posteri, aveva ben delineata la situazione sismica che l’ha direttamente interessata.

La città è stata colpita da numerosi terremoti, ma la maggior parte non ha causato danni particolarmente gravi: a parte lo scuotimento del suolo, si sono verificati l’abbattimento di camini, danni a muri, dissesti vari, qualche crollo. Si hanno notizie a partire dal secolo XII. Per l’esattezza i terremoti si sono avuti, e regolarmente registrati, negli anni 1222, 1504, 1511 e 1561, senza causare gravi danni. Un po’ più pesante fu quello del 1346, valutato nella Scala Mercalli come VIII, che fece diverse vittime. Altri eventi analoghi si ebbero negli anni 1695, 1787 e 1796.

Ma il sisma che ha iniziato la sua attività nel novembre 1570 (con tre micidiali scosse fra il 16 e il 17), ha avuto il massimo parossismo e ha fatto danni disastrosi, lasciando un segno indelebile, oltreché materiale, sociale, culturale e politico nella storia cittadina. L’attività del fenomeno sismico, che non si è conclusa con quanto avvenuto con le prime scosse, ma che ha continuato a colpire pesantemente fino alla fine del 1574, con maggiore intensità fra il novembre 1570 e il febbraio 1571, si è fatta sentire con più di 2.000 scosse, secondo quanto riferito da cittadini che vissero in quel difficile frangente. Qualcuno dichiarò che ebbe l’impressione che, per un momento, tutta la città si fosse alzata per ricadere poi alla quota di sempre. Le conseguenze più importanti del sisma si ebbero in periferia e verso il Mare Adriatico dove il sollevamento della superficie topografica dai 10 ai 15 centimetri comportò la deviazione verso Nord del Po, che lasciò le Valli di Comacchio per stabilirsi dove si trova tuttora.

Il disastro fu immane. Quasi tutti gli edifici pubblici, ricchi e meno ricchi, furono, in entità diversa, danneggiati o rasi al suolo, mentre il 40% delle abitazioni comuni subì danni ingenti; lo stesso destino colpì le chiese. Si tentò, nei limiti del possibile, di recuperare le abitazioni attraverso lavori di recupero, con un impiego tanto abbondante di chiavarde e di barre di ferro per renderle vivibili, da esaurire le scorte e da chiederne la fornitura alle città vicine. Il numero esatto delle vittime non si conosce, poiché le tante fonti lo riportano in modo diverso, però è da ritenere che esse furono dalle 100 alle 150 almeno. Si ritiene che la metà della città sia stata distrutta e, pur non essendone direttamente la causa, il sisma contribuì in modo indiretto al suo triste declino che durò fino all’Unità dell’Italia avvenuta nel XIX secolo. I danni furono valutati in 300.000 scudi, cifra enorme per quei tempi.

La situazione parve subito critica non solo dal punto di vista materiale, giacché l’avvenimento scosse in modo irragionevole il popolo, di cui una parte, forse quella maggiore, ignara del fatto che il fenomeno sismico fosse naturale, ebbe la ferma convinzione che si trattasse di un intervento dall’Alto per punire i cittadini e i loro Sovrani per i loro peccati. Fra l’altro, fu quella l’occasione per indurre gli studiosi a rivedere quanto di errato fosse stato ritenuto fino ad allora valido in merito alla situazione sismica di Ferrara. Infatti, era convinzione consolidata che le pianure (nel caso specifico della Padania), essendo formate da materiale depositato per sedimentazione, e anche perché si era alla fine dell’autunno verso l’inverno (non si capisce la ragione di questa convinzione), fossero territori in cui era impossibile che si potessero scatenare scosse telluriche; non era noto, allora, che nelle profondità sotto il centro cittadino ci fossero le propaggini dell’Appennino Settentrionale e delle Alpi Meridionali, che tendono a sovrapporsi e che, di quando in quando, sono sedi di assestamenti. Poiché il ripetersi dei sismi non dava pace, la popolazione, ricca e povera, fu costretta a migrare altrove in tende e rifugi di fortuna; per cui diverse estrazioni sociali si trovarono a coabitare, per molti mesi, in uno stato di promiscuità. Un terzo dei cittadini (circa 11.000 su 32.000) decise di cercare dimora definitiva altrove. E anche la Corte Ducale fu coinvolta nei disagi comuni e decise di riparare in un qualche modo fuori dalle mura occidentali. Le scosse telluriche abbatterono le carceri cittadine, consentendo ai prigionieri di divenire uccelli di bosco e causando un’ondata di criminalità che si diffuse sull’intero territorio.

Gli sfollati che desideravano rientrare in città dovettero attendere due anni per farlo, giacché le scosse telluriche di assestamento lo sconsigliavano. Naturalmente, il morale di tutti era a terra, sconvolto da un disastro che molti non sapevano interpretare e che metteva allo scoperto la precarietà paventata per il futuro.

In quel periodo ci fu un fiorire di studi in merito ai terremoti e tanti furono i racconti di testimoni oculari di ceti diversi, in merito all’evento sismico in atto. Si trattò di un argomento che fu affrontato da tecnici, scrittori e poeti. Insomma, fece uno scalpore enorme, quasi sollevando perplessità, perché il sisma si era verificato in pianura. Molti Stati della Penisola si interessarono alla critica situazione del Ducato di Ferrara. Diplomatici e Ambasciatori raccolsero notizie e fecero visite nei territori «di Val di Po, dov’era Ferrara», come ebbe a scrivere l’Ambasciatore di Firenze nei primi giorni del sisma.

Naturalmente, ci furono quelli che compatirono le disgrazie in cui erano incappati i Ferraresi e ci furono quelli che ne trassero un utile. In particolare, qui si intende parlare del Papato. La Santa Sede già da tempo seguiva da Roma tutto quanto avveniva nella città di frontiera nei confronti della Serenissima, cercando le scuse giuste per farla rientrare nell’ovile, cioè sotto il suo dominio, e il terremoto fu un’occasione per mettere in discussione i rapporti tesi esistenti fra la Corte Estense e il popolo. E le occasioni che si presentavano erano molto valide, si potrebbe dire «ghiotte».

La prima riguardava il desiderio di passare sotto la Chiesa da parte di una buona fetta della popolazione, adirata nei confronti della Corte per le continue ed esose tasse comminate dal Duca Alfonso II, vassallo del Papa Pio V, tasse di cui non poteva fare a meno per la sua mania di grandezza. Sotto il suo Governo, egli si adoperò per rendere la città ricca e sfarzosa, si circondò di artisti, pensatori, poeti, quali Torquato Tasso, Luzzasco Luzzaschi, Battista Guarini, Cesare Cremonini e rese ricche le dimore estensi, però erano tutte uscite di denaro che solamente le tasse potevano soddisfare. Inoltre, anche i suoi capricci personali richiedevano denaro, mentre ci teneva a ben figurare presso le altre Corti Italiane e quella francese in particolare (quest’ultima era nel mirino dello Stato del Vaticano, che non vedeva di buon occhio i buoni rapporti fra i due Stati, anche perché il Duca era figlio di un’«eretica dichiarata» come Renata di Francia). Per di più, pur sapendo che la presenza di 2.000 Ebrei a Ferrara non era per niente gradita alla Chiesa, Alfonso II, come del resto avevano fatto i suoi predecessori, li trattava bene, anche perché contribuivano al benessere economico, oltreché culturale, del Ducato; e anche questo fatto era indigesto a Roma.

Pertanto, il Papa attendeva con impazienza che avvenisse ciò che sperava: la mancanza di un erede estense legittimo. E, malgrado il Duca avesse avute tre mogli, Lucrezia di Cosimo I de’ Medici, Barbara d’Austria e Margherita Gonzaga, non ebbe la soddisfazione di avere un figlio suo.

Mentre non nasceva – e purtroppo per la Corte Estense non nacque – il tanto agognato «delfino», Alfonso II cercava di tenersi buona la Curia, dimostrandosi un buon Cristiano, partecipando a Messe e processioni da lui organizzate, facendo spesso la comunione, aiutando i poveri, facendo costruire conventi. Inoltre, insisteva per stare con il suo popolo, senza abbandonare la città, restando accampato in una tenda, al freddo. Faceva il possibile, affinché al di fuori del Ducato si ritenesse che i danni provocati dal terremoto fossero meno gravi del vero, per cui avviò le riparazioni del Castello, di cui una torre era crollata, per ritornare alla normalità e per dimostrare che la faccenda non era grave quanto si fosse pensato.

Tutti i suoi sforzi erano puntati alla possibilità di evitare che ci fosse la devoluzione, cioè il ritorno della città allo Stato Vaticano. Ma così fu, alla fine, e il Ducato rientrò sotto il dominio del Papato. Detto per inciso, in seguito, in considerazione della scarsa considerazione in cui era tenuta la città, fatta divenire semplicemente area di frontiera da parte di Roma, i Ferraresi si resero conto che le previsioni si erano rovesciate e maledissero mille volte il ritorno della città in seno alla Grande Madre Chiesa, come è stato raccontato nella nota I secoli bui di Ferrara, perché si trattò di un passaggio «dalla padella alla brace», se non peggio, giacché durante il Ducato, se non altro, la cultura era salva; ma ormai la frittata era fatta!

Tornando agli studiosi, nel corso del 1571 furono scritti ben sei trattati sui terremoti, di cui quattro furono dati alla stampa. Questi, dopo aver ritenuto senza fondamento l’idea che il sisma fosse stato una punizione divina, furono accettati dalla parte più colta dei contemporanei come documenti che smentivano le teorie secondo le quali le cause del terremoto fossero da attribuire al drenaggio delle tante e grandi paludi che circondavano la città (fra l’altro culle delle pericolose zanzare portatrici di malaria), per convertire il terreno da una landa acquitrinosa a una fertile produzione agricola. Invero, secondo tale credenza, i sismi sono dovuti a venti sotterranei che si formano quando si attivano cambiamenti di temperatura e che possono essere eliminati solamente lasciandoli uscire attraverso le paludi. Con il drenaggio delle acque stagnanti, si era rotto l’equilibrio dell’ambiente e, pertanto, si era impedita la loro possibilità per liberarsi nell’ambiente atmosferico, per cui si era avuto un pericoloso aumento della pressione, che è culminato con il disastroso terremoto di cui si sta riferendo.

Gli scritti sono stati tanti, ma forse i più interessanti sono quelli usciti dalla penna di Pirro Ligorio, scienziato e fervente cattolico. Questo signore fu il successore di Michelangelo Buonarroti nella fabbrica di San Pietro. Dal 1550 fu al servizio della Corte Estense, cioè da quando iniziò a progettare la famosa villa di Tivoli, voluta dal figlio di Alfonso I e di Lucrezia Borgia, il Cardinale Ippolito d’Este, da costruire in un sito occupato nel passato da una villa romana. Nel 1568, fu chiamato a Ferrara, dove ebbe l’incarico di antiquario di Corte. Egli, che era convinto che i terremoti non fossero maledizioni divine (e naturalmente doveva stare attento con le parole per non scontrarsi con la Curia, e perciò con il Papa), giacché avvenivano da sempre in tutto il mondo allora conosciuto, tenne registrate tutte le scosse che si verificavano durante le giornate, mentre queste continuavano a provocare macerie su macerie. Era sua convinzione, abbastanza critica, che sicuramente, se fossero stati usati materiali migliori e messi in opera con tecniche più attente e meno costellate di errori, molti danni e crolli sarebbero stati risparmiati. Era convinto che la combinazione non molto ragionata di pietre, mattoni e sabbia per elevare muri maestri era inaffidabile, mentre i tetti, invece di caricare il peso sulle pareti, le spingevano orizzontalmente, causandone il ribaltamento.

Nel suo trattato intitolato Rimedi, verso la fine Ligorio si presenta con un progetto di edificio antisismico da ritenere del tutto moderno. È stato un messaggio importante che, pur con mancanza di continuità, ha contribuito a rendere i terremoti meno pericolosi, almeno dal punto di vista dei crolli. Infatti, si è riconosciuto che quanto riportato da Ligorio in merito all’antisismicità, pur essendo empirico, mancandogli i mezzi per andare più a fondo, sono coerenti con le pratiche messe in atto oggigiorno. Egli insisteva sulla necessità di meglio dimensionare le pareti, da realizzare con mattoni maggiormente resistenti, e di ricorrere a giunti strutturali dotati di una certa elasticità e all’uso di barre di ferro.

Durante il terremoto del 1570, avvenne il fenomeno della «liquefazione del suolo», documentato per la prima volta. Si tratta di un fenomeno di rara frequenza e di grande pericolosità, che si attiva in certi terreni argillosi, sabbiosi o limosi, a causa di un evento sismico. Quando il terremoto supera il valore di 5,5 della Scala Richter (si ritiene che il sisma del 1570 a Ferrara sia stato di 5,6) il terreno, soggetto a vibrazioni e pressioni, può perdere le sue caratteristiche di resistenza per trasformarsi in uno strato di liquido denso dello spessore da pochi centimetri a mezzo metro. Ora, se il fenomeno succede in campagna o in territori collinari, il tutto si risolve con eruzioni sulla superficie topografica di terreno sciolto misto ad acqua o valanghe di fango, senza mettere a rischio vite umane, ma se avviene in aree densamente abitate, possono aversi movimenti orizzontali del suolo o fuoriuscite di masse fluide, rendendo precarie le condizioni statiche delle abitazioni, che possono crollare o addirittura sprofondare, con le conseguenze immaginabili.

La liquefazione del terreno si è riscontrata per la seconda volta a Ferrara durante il terremoto del 2012 e i geologi, unitamente agli esperti dei consolidamenti, hanno potuto identificare i siti dove sia possibile il verificarsi del fenomeno per prendere i provvedimenti preventivi del caso, al fine di ridurre i rischi connessi, cosa che era impossibile fare durante il sisma del 1570, mancando le cognizioni necessarie.

La città, a distanza di quasi cinque secoli, porta ancora certe cicatrici, ricordi delle passate traversie. Infatti, si riscontra in certi muri l’esistenza di barre di ferro per renderli più sicuri dalle lesioni subite; finestre risultano tamponate con pietre per accrescere la stabilità delle pareti; non mancano sostegni per impedire a balconi di crollare. Segni sono ancora evidenti, quando si vadano a osservare gli stili di camini, merlature, terrazze ricostruiti dopo il sisma. Girando per le vie antiche della città, non è raro scorgere muri di edifici storici caratterizzati da ondulazioni e carenza nella verticalità, retaggi delle passate scosse telluriche.

In ogni modo, si è definitivamente assodato che la zona di Ferrara è sismica e perciò c’è solo da sperare che l’Appennino Settentrionale e le Alpi Meridionali se ne siano tranquilli, senza litigare fra di loro, evitando di provocare gravi danni e, soprattutto, vittime umane. Di più non si può pretendere!

(dicembre 2021)

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