Ugo e Parisina, gli amanti del Marchesato di Ferrara
La vicenda di Ugo e Parisina non fu mai del tutto chiarita, principalmente nei particolari. Quello che si sa si deve allo storico Antonio Frizzi, che ne parlò nelle Memorie per servire alla storia di Ferrara, pubblicate alla fine del secolo XVIII

Ugo, nato nel 1405, e Parisina, nata l’anno precedente, formarono una coppia reale, che non ha nulla da invidiare a quella formata da Giulietta e Romeo che, però, ha come differenza sostanziale quella di essere un frutto della fervida fantasia del grandissimo Shakespeare, senza il quale quasi certamente il loro amore sfortunato non avrebbe avuto tanta notorietà. Il loro dramma ha mosso l’interesse, il coinvolgimento e la compassione di tanti studiosi e scrittori nel corso dei secoli, anche perché chi si vendicò per l’offesa subita, era tutt’altro che uno stinco di santo, tanto che nel territorio ferrarese – e non solo – circolava la canzoncina: «Di qua e di là dal Po / son tutti figli di Niccolò». Del resto, Matteo Bandello nei suoi scritti rincara la dose, definendolo «il gallo di Ferrara» e aggiungendo «in Ferrara e nel contado non c’era cantone ove egli non avesse alcun figlio bastardo». Insomma, il Marchese Niccolò III d’Este, era un Signore potente in tutti i sensi, dato che deve la sua fama, oltre che a questioni politiche o a imprese belliche, specialmente alla sua attività amatoria. Infatti, se da un lato con sicure operazioni militari accompagnate da una seria politica di mediazione riuscì ad allargare i confini del Marchesato, rendendoli più sicuri, dall’altro la sua operosità amorosa riuscì a oscurare l’importanza. La sua arte amatoria si ritiene sia iniziata a 13 anni quando sposò, per interessi e intrecci politici, la quattordicenne Gigliola da Carrara, figlia dell’ultimo Signore di Padova; è noto che si dava da fare senza troppe precauzioni, tanto che attorno ai 15 anni contrasse una malattia venerea, che rischiò di portarlo al Creatore. La moglie era una nobildonna di salute cagionevole e dopo il parto peggiorò tanto da morire: era il 1416, solo un anno dopo le nozze.

In merito alle scappatelle, Niccolò III si era guadagnato la fama di «latin lover ante litteram». Non a caso gli storici gli attribuirono numerose infedeltà, definite anche «plateali», e alcuni di loro si trovarono d’accordo sul numero delle sue amanti, valutato in 800 o giù di lì. Fra queste emergeva la favorita di nome Stella de’ Tolomei, detta Stella dell’Assassino, da cui ebbe tre figli, Ugo, Leonello e Borso, tutti e tre da lui legittimati. La definizione «dell’Assassino» non ebbe mai una lettura precisa: la dama proveniva dal territorio umbro e – questa è l’ipotesi – forse si tratta di una inesatta trascrizione di «dell’Assisino», con riferimento alla città di Assisi.

Il Marchese di Ferrara, nonostante le promesse, siccome i problemi politici avevano il diritto di priorità, non volle sposare la sua favorita, che naturalmente non ne fu del tutto contenta, e decise di impalmare la tredicenne Laura Malatesta, denominata Parisina, figlia di Andrea Malatesta, Signore di Cesena e della sua seconda moglie Lucrezia Ordelaffi. Il nomignolo di Parisina le fu dato giacché era ricca di grazia naturale e raffinata, come una vera e propria Parigina. D’altra parte era ben educata e aveva avuto insegnanti di letteratura, latino e francese, maestri d’arpa, educatori d’equitazione e caccia, e già a quei tempi Parigi era un riferimento per i ricchi e i nobili. Era nata nell’autunno del 1404 e a pochi giorni dalla nascita rimase orfana della madre: questa aveva tentato, con l’aiuto del coniuge, di deporre gli Ordelaffi e di sostenere l’ascesa dei Malatesta alla signoria di Forlì, per cui fu avvelenata dal padre Francesco. «A quei tempi, non andavano troppo per il sottile», come si dice. Alla morte del padre, la dodicenne Parisina andò a vivere presso lo zio paterno a Rimini.

Quando sposò Alfonso III, Parisina era quattordicenne, mentre il Marchese di anni ne aveva una ventina di più. Giunta a Ferrara, la giovanissima si trovò introdotta in un ambiente messo in ginocchio dalla peste, la cosiddetta morte nera, una delle tante che colpirono la zona e che causarono la morte di migliaia di persone nella città e nel contado per 500 anni, dal XIV al XVIII secolo, per cui un ambiente più tragico di così non si poteva immaginare. Considerando gli ambienti del castello troppo freddi e umidi, preferì sistemarsi nella vecchia Torre del Rigobello, alta 54 metri, eretta nei pressi della cattedrale, che fu distrutta dal sisma del 1570 e sostituita nei primi decenni del XX secolo dalla Torre della Vittoria. Ma essa amò vivere pure nell’antica e signorile Delizia di Consandolo, fatta costruire per lei dal marito. Delizie erano denominate le ricche residenze, veri e propri palazzi principeschi, che gli Estensi avevano costruito e abbellito in tutto il territorio della signoria (e che continuarono a costruire e abbellire fino alla devoluzione allo Stato della Chiesa della signoria estense nel 1598), allo scopo non solo di divertirsi, di ricevere ospiti e di godere del fresco notturno durante le torride giornate estive, di partecipare a festicciole galanti o qualcosa di più, ma anche di seguire i lavori nei campi e, da quelle più orientali, di controllare il commercio delle anguille di Comacchio e del sale ivi prodotto, oltre che di fare battute di caccia e pesca. Non è noto come si difendessero dalle zanzare, dalle mosche e dalle pulci, queste ultime sicuramente portatrici di peste, con la complicità dei ratti delle cui pellicce erano inquiline. Mentre è noto che s’invocava San Rocco da Montpellier, vissuto nel XIV secolo, e se ne chiedeva l’aiuto come protettore dalla peste. Ma perché proprio San Rocco? Perché in uno dei suoi pellegrinaggi a Roma, durante l’epidemia di peste, anche lui la contrasse ma, contrariamente a quanto accadeva alla maggior parte dei contaminati, fu miracolato e poté dedicarsi alla cura degli ammalati; molti di questi, grazie alle sue preghiere a Dio, lo furono a loro volta, riacquistando la salute. Dopo di ciò e dopo il verificarsi di vari miracoli, la devozione a San Rocco divenne più ampia, estendendosi al mondo degli animali e dell’agricoltura, sempre con l’implorazione di essere protetti da ogni tipo di epidemia, da malattie gravi e pure dai terremoti.

Parisina si fece ben volere dai cortigiani, che la apprezzavano per la sua bontà e per l’ondata di giovinezza che aveva portato nella severa Corte Estense. Anche i fratellastri, che più o meno ne erano coetanei, la consideravano una sorella che, fra l’altro, aveva il potere di intervenire a loro favore, quando il padre si mostrava tirchio nel finanziare la loro brillante vita di Corte e non solo.

Quando Niccolò sposò Parisina, aveva già nove figli fra legittimi e illegittimi. Di questi, solamente tre entrarono nella storia del Marchesato: Ugo, Leonello e Borso. Il primogenito Ugo era il favorito del padre sia per l’aspetto sia per le sue doti personali, tanto da aver stabilito che fosse il suo successore. Ebbene, egli non accettò con favore l’ingresso nella famiglia di Parisina, tanto che ne nacque un’antipatia personale. Le ragioni dell’attrito da parte di Ugo potevano essere diverse: una sicuramente era il diniego di sposare la madre, con la scusa delle esigenze politiche, mentre un’altra riguardava la sua successione nella signoria perché, essendo lui figlio naturale anche se legittimato, la possibile nascita di un figlio maschio poteva metterla in pericolo. L’avversione era tale che Ugo preferiva frequentare una piccola Corte personale. Per questo, secondo lo storico Antonio Frizzi, Parisina «lo trattava poco amorevolmente», probabilmente per ripicca e – continua lo storico – Niccolò «ne provava assai rincrescimento».

L’attrito e le incomprensioni andarono avanti per lungo tempo, fino a quando, nel 1423, Parisina espresse il desiderio di andare a Ravenna a visitare i propri familiari. Niccolò decise di accontentarla, anche per metterla al sicuro dalla nuova peste che era scoppiata nella città, imponendo a Ugo di accompagnarla, sperando che, standole vicino, egli rimuovesse la sua ostilità nei suoi confronti. Il contatto continuo consentì ai due giovani di conoscersi meglio, anzi in maniera troppo approfondita, e già da quando erano a Ravenna il risultato fu che divennero amanti. Nella seconda edizione delle Memorie, curata a metà del XIX secolo da Camillo Laderchi, questi in una nota formula l’ipotesi che i due si fossero già conosciuti a Rimini e che addirittura ci fosse stata una promessa di matrimonio. Niccolò, infatuatosi della promessa sposa del figlio, gliela strappò facendole credere che lui fosse impegnato con un’altra donna. Da qui l’attrito fra i due per l’incomprensione, che fu chiarita durante il viaggio e la permanenza a Ravenna. E pertanto la vicinanza dei due a Ferrara aveva stimolato la ripresa della relazione.

Altra versione ritiene che i due giovani fossero diventati amanti già l’anno prima del viaggio a Ravenna, durante la loro permanenza alla Delizia di Fossadalbero, dove si erano rifugiati per sfuggire all’incombente peste.

Comunque si siano svolti i fatti, il risultato fu che la passione non ebbe più tregua: i due continuarono a vedersi nelle delizie di Belfiore, Fossadalbero, Quartesana. Forse un luogo d’incontri fu pure la Villa di Navarra a Gualdo, la cui torre – secondo i «si dice» – era stata regalata dal marito a Parisina, insieme con tante altre cose. Probabilmente con i suoi doni cercava di tenersela buona, considerata la caterva di scappatelle che continuava a fare, senza tanto riguardo. In ogni modo, il matrimonio, fra un’amante e l’altra di Niccolò, anche fra violenze e dissolutezze, durò sette anni, durante i quali Parisina mise al mondo due gemelle e un maschio, il quale morì dopo poche settimane di vita; dopodiché non sarebbe più stata in grado di mettere al mondo bambini. Questa triste evenienza metteva al sicuro Ugo per la futura successione. Comunque sia, la realtà è che i due continuarono segretamente a incontrarsi o nelle delizie o nello stesso castello. Del resto, le corna che il marito continuava a farle – a parer mio – meritavano di essere ricambiate, anche e soprattutto perché provenivano da un amore vero e tanto meno da necessità politiche.

Certo è che una relazione del genere non poteva restare per sempre ignota a tutti. Sicuramente tanti ne erano venuti a conoscenza, ma la complicità, la reticenza, la solidarietà la tutelavano; però, anche questi favoreggiamenti, per qualche torto subito o qualche pesante immeritato rimprovero ricevuto, possono avere dei limiti: difatti, è sufficiente che qualcuno abbia qualcosa di cui lamentarsi, perché il segreto più segreto divenga patrimonio di tutti. Ed è quello che successe: una cameriera, che conosceva quanto accadeva fra Ugo e Parisina, si lamentò con Zoese di essere stata da lei «battuta», raccontandogli della relazione in atto. Zoese, al secolo Giacomo Rubino, Ministro del Marchese, ma pure confidente della Marchesa, per dimostrare la propria fedeltà verso il suo Signore, non ci pensò due volte a svelargli il fatto. Secondo un’altra fonte, Zoese era un’ancella, che aveva ricevuto un maltrattamento dalla sua Signora, per cui si era sfogata direttamente con Niccolò, informandolo della tresca che era in atto. Indipendentemente dalla autenticità dell’una o dell’altra versione, il risultato fu che Niccolò seppe che era stato cornificato e che l’offesa continuava ancora. Naturalmente, prima di decidere il da farsi, volle essere sicuro che ciò che la delazione aveva rivelato fosse vero. Così, fece aprire un buco, «un pertugio», nel soffitto della stanza della moglie, in cui i due amanti si incontravano e, il 18 maggio 1425, tramite le immagini riflesse da specchi opportunamente sistemati, ebbe la prova del tradimento. Nel castello di Ferrara, c’è uno specchio e si vuole che sia stato quello che abbia riflesso per l’incredulo e allibito Marchese l’immagine dell’inequivocabile relazione fra i due fedifraghi. Attenzione, però, perché leggenda e realtà vanno a braccetto. A quel punto, ogni possibile dubbio che la soffiata di Zoese, aiutante uomo o ancella che fosse, corrispondesse alla verità, fu fugato. Niccolò restò fulminato dalla prova del tradimento perpetrato nei suoi confronti dai suoi familiari più cari e, follemente infuriato, li fece senza indugio incarcerare nelle celle esistenti sotto la camera chiamata Aurora, appena al di sopra del livello dell’acqua del vallo difensivo che circonda il castello. Le prigioni si trovano alla base della Torre dei Leoni, cioè sotto quella torre che era già esistente quando Bartolino Ploti da Novara, per anni architetto e ingegnere al servizio della Corte Estense, nel 1385 progettò e costruì il Castello Estense, inserendola nello spigolo nordorientale a completare la pianta quadrangolare con l’elevazione di altre tre torri uguali alla prima. Il Marchese ordinò immediatamente un processo sommario, dal quale i due sciagurati amanti uscirono condannati a morte per decapitazione. Furono molti i cortigiani, fra i più influenti, a intercedere a loro favore, ma non riuscirono a smuoverlo dalla sua impulsiva decisione. Così, il 21 maggio, dopo tre giorni dalla scoperta della tresca (proprio con la stessa velocità di conclusione dei processi di oggi), Ugo fu decapitato. Parisina seppe dell’avvenuta esecuzione mentre era accompagnata a sua volta al patibolo; disperata, perché non era riuscita a portare su di sé tutte le colpe, si dice che abbia esclamato: «Adesso né io vorrei più vivere» e, toltosi di dosso ogni ornamento, si avvolse il capo con una stoffa e offrì il suo collo al carnefice. Saputo che il gentiluomo modenese Aldobrandino Rangoni, al servizio della Marchesa, era a conoscenza della relazione tra i due giovani, lo stesso giorno fu mandato a morte; e altri gli fecero compagnia per la stessa ragione.

Ugo aveva diciannove anni e Parisina ne aveva venti.

Purtroppo, quando si fanno azioni seguendo l’irrefrenabile ira del momento, non si combina mai nulla di buono. Difatti, il Marchese si pentì amaramente della propria irriflessione: le cronache riportano che pianse sconsolatamente per tutta la notte successiva alla decapitazione, invocando il nome del suo figlio prediletto.

Qualche tempo dopo, non contento del suo misfatto, fece morire con la stessa condanna tutte le donne che si era dimostrato intrattenessero relazioni extraconiugali. Certo, lui si sentiva paladino a difesa dei matrimoni: da che pulpito veniva la predica! Come se le circa 800 femmine che scaldarono il suo letto fossero state tutte nubili, e pertanto non perseguibili dalla sua feroce legge: sei una sposa, sei un’adultera, perciò io ti faccio decapitare. Che faccia di bronzo, che ipocrita! E pensare, per rincarare la dose, che proprio in quello stesso anno nasceva il suo ennesimo figlio illegittimo.

Fra non molto, saranno trascorsi 700 anni dalla tragica faccenda che si è descritta. Lo confesso con sincerità: se fosse un fatto di oggi, non avrei il coraggio di esprimere il mio parere nei confronti del Marchese, per tema che la sua «longa mano» mi possa raggiungere, per infliggermi – secondo lui – il giusto castigo. Vorrei aggiungere, poi, un’altra considerazione: mi risulta che tutti quelli che hanno parlato e sparlato di Niccolò III d’Este, lo abbiano fatto più tardi, quando aveva smesso di accalappiare femmine e di mettere al mondo figli illegittimi. Che sia stato un caso? Bah, mi piacerebbe avere una risposta esaustiva all’interrogativo.

(maggio 2020)

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