Le origini del problema palestinese
Breve sunto sulle motivazioni per cui non
si è ancora raggiunta la pace in Palestina
Nonostante siano passati quasi 80 anni dalla nascita dello Stato di Israele, il problema palestinese sembra ancora lontano dal concludersi. L’idea di costruire uno Stato Ebraico in Palestina come rifugio per gli Ebrei dalle persecuzioni subite in Europa (specialmente dopo l’Olocausto) aveva un fine nobile. Questo proposito, tuttavia, ignorava due questioni fondamentali che ancora adesso risultano irrisolte.
La prima era la situazione degli Arabi autoctoni. Come ha giustamente sottolineato lo storico Benny Morris, se per i sionisti la loro impresa era perfettamente morale perché avrebbe permesso ai Giudei oppressi e massacrati di tornare nella loro antica terra e ristabilire la propria autodeterminazione, per gli abitanti arabi lì residenti ciò era invece visto come un atto aggressivo di invasione messo in atto da stranieri colonialisti. Simile contraddizione era percepita anche da alcuni leader sionisti. David Ben Gurion, futuro Primo Ministro d’Israele, in una conversazione con il leader sionista Nahum Goldmann, avrebbe detto: «Se fossi un leader arabo, non scenderei mai a patti con Israele. È naturale: noi abbiamo preso il loro Paese. Certo, Dio lo ha dato e lo ha promesso a noi, ma questo a loro che cosa importa? Il nostro Dio non è il loro. Noi siamo venuti da Israele, è vero, ma 2.000 anni fa; e questo che significato può avere per loro? Ci sono stati l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma che colpa ne hanno loro? L’unica cosa che vedono è questa: noi siamo venuti qui e abbiamo rubato la loro terra. Perché mai dovrebbero accettarlo?».[1]
Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 si contarono centinaia di migliaia di profughi palestinesi costretti a fuggire dalla loro terra per diversi motivi: paura di rimanere coinvolti nel conflitto, timore di subire massacri come quello di Deir Yassin o per via delle misure israeliane volte a espellerli. A queste persone, dopo la fine dei combattimenti, venne proibito di fare ritorno alle loro case. Il problema dei profughi si sarebbe protratto fino a oggi, anche per via dei Paesi Arabi che rifiutarono di assimilarli nella loro società dando loro cittadinanza e abitazioni (come fece invece Israele con i profughi ebrei espulsi dai Paesi Arabi), e relegandoli invece in campi in condizioni di vita misere, anche per poterli utilizzare come strumento in funzione anti-israeliana. Da parte palestinese si è chiesto il ritorno degli espulsi e dei loro discendenti per via di un senso di giustizia dovuto a gente costretta ad abbandonare la sua terra e i suoi beni; ma da parte israeliana si è avuto un netto rifiuto poiché si teme che l’afflusso di un numero enorme di persone (stimato in circa 4-5 milioni) possa portare al collasso le strutture israeliane. La necessità di arrivare a un compromesso riguardo a questo problema sarà una condizione necessaria per una futura pace tra Israele e Palestina.
La seconda questione che all’epoca non venne presa con la dovuta considerazione, fu che l’odio degli Stati Arabi verso i Giudei aveva poco o nulla da invidiare all’antisemitismo degli Stati Europei: nel 1943 il Re dell’Arabia Saudita Ibn Sa’ud scrisse una lettera a Roosevelt, relativa alla questione palestinese, in cui affermava: «[C’è una] ostilità religiosa […] tra i musulmani e gli Ebrei fin dalla nascita dell’Islam […] che è sorta dall’infida condotta degli Ebrei verso l’Islam, i musulmani e il loro profeta»; mentre Samir al Rifa’i, Primo Ministro Giordano, dichiarò a un gruppo di giornalisti nel 1947: «Gli Ebrei sono un popolo da temere […]. Sono responsabili dell’inizio di due guerre mondiali […]. Sì, ho letto e studiato, e so che c’erano loro dietro Hitler all’inizio del suo movimento». Diversi governanti arabi minacciarono apertamente rappresaglie collettive nei confronti dei Giudei residenti nei loro Paesi se fosse nato lo Stato di Israele: il Primo Ministro Iracheno informò i diplomatici britannici che se non si fosse trovata una soluzione al problema palestinese soddisfacente per gli Arabi, sarebbero state prese «severe misure contro tutti gli Ebrei che vivevano nei Paesi Arabi»; mentre il capo della delegazione egiziana all’ONU affermò che «la creazione di uno Stato Ebraico metterebbe a rischio le vite di un milione di Ebrei che abitano nei Paesi Islamici». La nascita dello Stato di Israele avrebbe quindi costituito per gli Arabi uno shock paragonabile a quello subito nel Medioevo dai musulmani con la creazione degli Stati Crociati: «Nessun musulmano può restare a guardare mentre i luoghi sacri cadono in mano agli Ebrei» ebbe a riferire Alec Kirkbride, rappresentante britannico ad Amman. La guerra contro Israele nel 1948 venne quindi percepita da molti come una «jihad» contro l’infedele.[2]
Nonostante con gli anni diversi Stati Arabi abbiano finito col riconoscere Israele e stipulare con questo un trattato di pace, ancora oggi stereotipi antisemiti sono presenti in diversi ambienti del mondo arabo: a esempio, il Presidente Palestinese dell’ANP Abu Mazen ebbe a dichiarare che Hitler «combatteva gli Ebrei perché si occupavano di usura e di traffici monetari». Inoltre, Stati come l’Iran e organizzazioni terroristiche come Hamas, Hezbollah o Houti vedono ancora oggi la lotta contro Israele come una «guerra santa», rifiutando quindi ogni piano di pace. Finché non verrà riconosciuto il diritto di Israele a esistere, la guerra in Palestina non potrà avere fine.
Il massacro del 7 ottobre da una parte, e i bombardamenti su Gaza dall’altra, rendono improbabile una soluzione a breve termine del problema palestinese. Si spera che in futuro sorgano da entrambi gli schieramenti delle forze politiche che possano mettere la parola «Fine» all’ostilità tra i due popoli.
1 Confronta Benny Morris, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli Stati Arabi 1947-1949, Rizzoli, Milano, 2009, pagine 481-482.
2 La prima guerra di Israele, pagina 482-485 e 506-507. Spesso citata, come simbolo dell’ostilità degli Arabi verso gli Ebrei, è la figura del Muftì di Gerusalemme Amin Al-Husseini, fervente oppositore della dominazione inglese in Palestina e della creazione di uno Stato Ebraico, tanto che durante la Seconda Guerra Mondiale collaborò col regime nazista in funzione anti-britannica e anti-sionista. Il suo ruolo durante l’Olocausto è stato talvolta esagerato da parte israeliana a fini propagandistici per cercare di danneggiare l’immagine dei palestinesi (il caso limite fu quello del Premier Benjamin Netanyahu che avrebbe persino affermato che fu il Muftì a convincere Hitler a uccidere gli Ebrei invece che espellerli). Non c’è dubbio, tuttavia, che questi ebbe un ruolo nella Shoah: Husseini avrebbe cercato di impedire ai Giudei in fuga dal genocidio di immigrare verso la Palestina, e avrebbe incitato pubblicamente i Paesi Arabi a seguire l’esempio della Germania per risolvere la «questione ebraica». Il Muftì di Gerusalemme non fu un semplice antisionista, ma odiava gli Ebrei in quanto tali: dopo il conflitto avrebbe attribuito l’Olocausto al desiderio di vendetta dei Tedeschi nei confronti dei Giudei, i quali avrebbero causato la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale; lo stesso avrebbe affermato riguardo agli Ebrei: «La loro avidità è senza limite, e impediscono agli altri di godere del Bene […]. Non hanno pietà e sono famosi per il loro odio, il loro spirito di antagonismo e la loro durezza». Citazione presa da La prima guerra di Israele, pagina 42.
