Oltre la difesa
Il contributo di Don Bosco (1815-1888) a
favore dei giovani lavoratori
Il secondo centenario della nascita di San Giovanni Bosco (2015)[1] è un evento da affrontare in termini di memoria e di attualità. Non basta, infatti, «ricordare» la figura del «Santo dei giovani» sfogliando solo le foto di un tempo, o leggendo le testimonianze di un periodo lontano ove i mutamenti sociali e le rivoluzioni politiche produssero radicali cambiamenti. Questo Santo Piemontese ha lasciato un patrimonio così esteso che ancor oggi rimane fonte di orientamenti, proposte, indicazioni educative. Per tale motivo è necessario percorrere, accanto alle strade dell’impegno sacerdotale di Don Bosco, della sua vita spirituale, dell’attività pedagogica, dell’azione pastorale, delle opere fondative e delle relazioni sociali promosse, anche quei percorsi storici che, a distanza di due secoli, continuano a offrire novità. Grazie al contributo offerto dall’Istituto Storico Salesiano, e a quello di ricercatori a questo vicini, continuano ad essere presentati sempre nuovi documenti che attestano un’attività di Don Bosco senza sosta: «educatore degli adulti», «prete in stato di missione», «paziente tessitore» di contatti tra potere politico e autorità religiosa…
Don Bosco, però, è da «scoprire» anche sul versante della difesa degli apprendisti e dei giovani lavoratori. Davanti a situazioni che violavano la loro dignità e libertà il Santo reagì in prima persona. Lo fece con decisione, equilibrio e chiarezza, arrivando anche a firmare dei contratti di tutela a favore di chi era inserito nei laboratori e nelle officine. Per questo motivo è utile percorrere anche questa strada «sociale» studiando le fonti ma anche il contesto storico, la dinamica relazionale, gli aspetti nodali, le prospettive per l’oggi. In un periodo storico, infatti, nel quale decisioni economiche tendono a ridurre lo spazio partecipativo dei giovani nel mondo del lavoro, l’azione di Don Bosco ripete un insegnamento che incoraggia: quello dell’iniziativa, della proposta, dell’ideazione di specifici progetti fattibili, della tutela di chi è meno protetto.
Gli anni tra il 1780 e il 1830 furono caratterizzati da uno sviluppo economico accentuato. Si realizzò in particolare quella che gli storici hanno definito una «rivoluzione industriale». Da un sistema basato sull’agricoltura, sull’artigianato e sul commercio, si passò a una programmazione di tipo industriale caratterizzata dall’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate.[2] Gli studiosi tendono oggi a distinguere tra una prima e una seconda rivoluzione industriale. La prima riguarda in prevalenza il settore tessile-metallurgico ed è segnata dall’introduzione della spoletta volante[3] e della macchina a vapore. Si può collocare tra il 1760-1780 e il 1830. L’inizio della seconda rivoluzione industriale viene invece individuato – sia pure in modo convenzionale – intorno agli anni 1870-1880: è un periodo caratterizzato dall’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Una conseguenza del ribaltamento avvenuto nei programmi, nei metodi e nei processi produttivi fu l’indurimento dei rapporti tra gli attori produttivi. I salariati furono sempre più spinti in una posizione subalterna. Per il lavoro e il tempo impiegato ottenevano un modesto corrispettivo economico. Gli imprenditori, proprietari delle fabbriche e dei mezzi di produzione, accentuarono un potere di direzione e di controllo guardando soprattutto all’incremento del profitto.
La rivoluzione industriale mosse i primi passi nel Regno Unito.[4] Questa Nazione fu la prima ad avere un’agricoltura di mercato (quindi non per auto-consumo ma per profitto) che, unita all’innovazione tecnologica, eliminò molta manodopera dalle campagne, facendola confluire verso gli agglomerati urbani, dove troverà occupazione nella nascente industria. C’è da aggiungere che anche il fenomeno delle «enclosures»[5] privò i contadini più poveri del libero diritto di pastorizia e li spinse a trovare un nuovo impiego nelle fabbriche. A questo punto, la notevole presenza di manodopera a basso costo, e la disponibilità di carbone per l’alimentazione delle macchine a vapore, dette un apporto decisivo alla crescita industriale del Regno. D’altra parte, l’Inghilterra si trovò pure in una posizione geografica favorevole ai commerci nell’Oceano Atlantico; la sua insularità le permise una migliore difesa dei propri confini, e le evitò quelle devastazioni che, invece, dovette subire il resto dell’Europa a causa dei conflitti che si scatenarono nel Settecento e nell’Ottocento.
Tenendo conto del contesto descritto, si possono oggi consultare molteplici documenti che attestano un palese sfruttamento della forza lavoro nel Regno Unito (e altrove). I salariati, pur di essere inseriti nei cicli produttivi, accettavano condizioni lavorative disumane (orari estenuanti, vitto scadente, prossimità a sostanze nocive per la salute, punizioni, umiliazioni, violenze…). Chiunque poteva perdere immediatamente il lavoro in caso di malattia (legata in genere ad ambienti insalubri e alle condizioni lavorative), di gravidanza, di infortuni (frequenti, per l’assenza di misure protettive). Non esistevano forme di assistenza per chi diventava invalido (la colpa, all’origine dell’evento, era sempre attribuita al salariato) e per chi era stato allontanato dal luogo di lavoro.
Per i motivi esposti, molti operai – sostenuti da persone sensibili alle esigenze di giustizia – cominciarono a discutere tra loro su possibili forme di auto-tutela in caso di eventi imprevisti e rovinosi (malattia, infortunio, stato di invalidità, perdita del posto di lavoro). Seguendo un criterio di concretezza, scelsero di accantonare dei fondi economici da utilizzare al verificarsi di situazioni avverse. Fu la nascita delle prime società (o società operaie) di mutuo soccorso. Esse vennero caratterizzate dal fatto che l’iniziativa nasceva all’interno dell’ambiente operaio e che a gestire la cassa comune erano gli stessi lavoratori. Tali organismi di solidarietà cominciarono a costituirsi intorno alla seconda metà dell’Ottocento.[6] Il loro compito fu quello di fornire ai lavoratori uno strumento di difesa. Dopo gli eventi rivoluzionari del 1848[7] la loro diffusione subì un incremento favorito dalle nuove costituzioni liberali.[8] All’epoca della «Ia Internazionale» (1864)[9] erano quindi già operative diverse società di mutuo soccorso o di mutuo appoggio. In Italia, il loro funzionamento venne infine regolato con la legge numero 3818 del 15 aprile 1886.
Con riferimento alle società di mutuo soccorso, Don Bosco era convinto che tali organismi seguivano una logica valida sul piano delle tutele: il loro fondo comune serviva, infatti, a sostenere il socio colpito all’improvviso da avversità (infortunio, malattia) mentre era occupato in un lavoro. Ciò era importante perché, in quel periodo storico, il venir meno di un guadagno era un dramma per le famiglie in generale, e per quelle numerose in particolare. In tale contesto, nel 1849, il Santo fondò una società di mutuo soccorso, ne pubblicò il regolamento e ne fissò l’entrata in vigore (1° giugno 1850). Della società in questione ne fecero parte alcuni membri della «Compagnia di San Luigi».[10] L’iniziativa ha un valore storico: attesta che il programma socio-educativo del fondatore non era rigido ma rimaneva aperto a ogni positiva opzione d’intervento. In tal senso, anche tale protezione dei giovani lavoratori precorse i tempi, anticipò le indicazioni dell’Enciclica Rerum Novarum,[11] e preparò il terreno a successivi e più articolati progetti sociali.[12] Per meglio comprendere il tipo di intervento è utile leggere il testo del Regolamento della società di mutuo soccorso voluta da Don Bosco.[13] Per favorire il lettore, lo si riporta integralmente.
SOCIETÀ DI MUTUO SOCCORSO DI ALCUNI INDIVIDUIDELLA COMPAGNIA DI SAN LUIGI
ERETTA NELL’ORATORIO DI SAN FRANCESCO DI SALES
Quanto mai, o fratelli, è piacevole e vantaggioso lo stabilirsi in Società! (Salmo 133)
TORINO
DALLA TIPOGRAFIA SPEIRANI E FERRERO
1850
Avvertenza
Eccovi, o cari giovani, un regolamento per la vostra società. Esso vi servirà di norma affinché la società proceda con ordine e con vantaggio. Non posso fare a meno di non lodare questo vostro impegno e questa diligenza nel promuoverla. Ella è vera prudenza, voi mettete in riserbo un soldo per settimana, soldo che poco si considera nello spenderlo, e che vi frutta assai qualora vi troviate nel bisogno. Abbiate dunque tutta la mia approvazione. Solo vi raccomando, che mentre vi mostrerete zelanti pel bene della società non dimentichiate le regole della compagnia di San Luigi, da cui dipende il vantaggio fondamentale, cioè quello dell’anima. Il Signore infonda la vera carità e la vera allegrezza nei vostri cuori, e il timor di Dio accompagni ogni vostra azione.
Don Bosco GIOANNI
Regolamento
1. Lo scopo di questa Società è di prestare soccorso a quei compagni che cadessero infermi, o si trovassero nel bisogno, perché involontariamente privi di lavoro.
2. Niuno potrà essere ammesso nella Società se non è iscritto nella Compagnia di San Luigi, e chi per qualche motivo cessasse di essere confratello di detta Compagnia non sarà più considerato come membro della Società.
3. Ciascun socio pagherà un soldo ogni domenica, e non potrà godere dei vantaggi della Società che sei mesi dopo la sua accettazione. Potrà però avere diritto immediatamente al soccorso della Società se entrando pagherà franchi 1,50, purché allora non sia né infermo né disoccupato.
4. Il soccorso per ciascun ammalato sarà di centesimi 50 al giorno fino al suo ristabilimento in perfetta sanità. In caso poi che l’infermo fosse ricoverato in qualche Opera Pia cesserà il soccorso, e non gli sarà corrisposto se non alla sua uscita pel tempo di sua convalescenza.
5. Quelli poi che senza loro colpa rimarranno privi di lavoro cominceranno a percepire il suddetto soccorso otto giorni dopo la loro disoccupazione. Quando il sussidio dovesse oltrepassare i venti giorni il Consiglio prenderà a tal riguardo le opportune determinazioni per l’aumento o per la diminuzione.
6. Si accetteranno con riconoscenza tutte le offerte fatte a benefizio della Società, e si farà ogni anno una colletta particolare.
7. Chi per notabile tempo negligentasse di pagare la sua quota non potrà godere dei vantaggi della Società sinché abbia soddisfatto la quota scaduta, e per un mese non potrà pretendere cosa alcuna.
8. La Società è amministrata da un Direttore, Vice-Direttore, Segretaro, Vice-segretaro, quattro Consiglieri, un Visitatore e Sostituto, un Tesoriere.
9. Tutti gli amministratori della Società oltre l’esatto pagamento di un soldo ogni domenica avranno somma cura di osservare le regole della Compagnia di San Luigi per attendere così alla propria santificazione e incoraggiare gli altri alla virtù.
10. Il Direttore nato della Società è il Superiore dell’Oratorio. Questi avrà cura che gli amministratori facciano il loro dovere, e che il bisogno de’ soci venga soddisfatto a norma del presente Regolamento.
11. Il Vice-Direttore aiuterà il Direttore, darà al Segretaro gli ordini opportuni per le adunanze, ed esporrà in consiglio quanto possa tornar vantaggioso alla Società.
12. Il Segretaro avrà cura di raccogliere le quote nelle domeniche notando puntualmente quelli che compiono la loro obbligazione, nel che userà grande carità e gentilezza. È cura altresì del Segretaro di spedire biglietti al Tesoriere, in cui noti nome, cognome, dimora dell’infermo: tutte le decisioni di qualche rilievo prese nel consiglio saranno registrate dal Segretaro. In questa moltiplicità di cose sarà aiutato dal Vice-Segretaro, il quale occorrendo il bisogno ne farà le veci.
13. I quattro Consiglieri diranno il loro sentimento intorno a tutto ciò che riguarda al vantaggio della Società, e daranno il voto tanto in quello che spetta all’amministrazione delle cose, come alla nomina di qualche membro.
14. Il Visitatore nato della Società è il Direttore spirituale della Compagnia di San Luigi. Questi si porterà in persona alla casa dell’infermo onde verificare il bisogno e farne la debita relazione al Segretaro. Ottenuto che avrà l’opportuno biglietto lo porterà a casa del Tesoriere, dopo di che recherà il assegnato soccorso all’infermo. Nel consegnare il soccorso il Visitatore avrà cura somma di ricordare all’infermo qualche massima di nostra Santa Religione e di animarlo a ricevere i Santi Sacramenti qualora si faccia grave la malattia. In ciò sarà aiutato dal Sostituto, il quale mostrerà la massima premura per aiutare il Visitatore specialmente nel portare i soccorsi e consolare gli infermi.
15. Il Tesoriere terrà cura dei fondi della Società e ne darà conto ogni tre mesi. Ma non potrà dar danaro ad alcuno senza un biglietto portato dal Visitatore sottoscritto dal Direttore, in cui si dichiari la realtà del bisogno.
16. Ogni impiegato durerà nella sua carica un anno; potrà però essere rieletto.
17. Il Consiglio ogni tre mesi renderà conto della sua amministrazione.
18. Il presente Regolamento comincerà ad essere in vigore il primo di luglio del 1850.
Unitamente alla promozione delle società di mutuo soccorso, ci si rese conto che non erano solo i salariati ad essere sfruttati, esistevano pure centinaia di giovani che si avvicinavano ai datori di lavoro per imparare un mestiere. Questa gente, in genere di minore età e proveniente da un nucleo abitativo povero, era trattata peggio degli operai presenti in fabbrica o in modesti centri produttivi. Il rapporto di dipendenza era basato soprattutto su intese verbali. Le regole derivanti dall’antica esperienza delle «Corporazioni» erano rispettate solo sul piano formale. I controlli pubblici rimanevano di fatto deboli, mentre persisteva l’uso a punire in caso di errori. A tutto ciò sono da aggiungere le violenze domestiche che subiva il minore: o quando era accusato di «rendere» poco, o quando non era più accettato dal mastro artigiano. In tale contesto si avvertì sempre più l’urgenza di contestare l’arbitrio dei datori di lavoro spingendo in direzione di garanzie indicate in atti scritti. Si arrivò così, in più casi, a concordare con i mastri la stipula di accordi che prevedevano la figura di un garante. Trovarono così applicazione i contratti di apprendistato.
È «dentro» tale realtà, difficile e in mutamento, che si sviluppò l’azione di San Giovanni Bosco nella Torino pre e post-unitaria.[14] Essa conserva un peculiare significato perché fa comprendere come questo prete non fu un teorico dell’educazione, ma – al contrario – si rivelò una persona concreta, costantemente attenta a quelle situazioni di «rischio» (per la vita spirituale, per quella fisica e per quella sociale) che potevano rovinare i singoli «progetti di vita». Condividendo, in particolare, i vissuti delle nuove generazioni del tempo, parlando in strada con i minori che già lavoravano e con quelli che rimanevano ai margini della società, incontrando le famiglie, entrando in istituzioni di assistenza, visitando reclusi che avevano commesso reati anche a motivo della loro indigenza, si rese conto che occorreva affiancare a un percorso di formazione religiosa (per orientare al senso della vita) e a momenti ricreativi (per abolire ogni forma di isolamento) anche un’azione a favore di quanti, versando in «stato di necessità», erano particolarmente vulnerabili.
Per tale motivo Don Bosco volle realizzare un disegno di promozione umana con la costituzione di una società di mutuo soccorso (1850-1851), con la stipula di contratti di apprendistato (1852, 1853, 1855…), con la promozione di laboratori di calzolai e sarti (1853), legatori (1854), falegnami (1856), tipografi (1861), fabbri ferrai (1862).[15]
In presenza di una situazione socio-politica che di fatto non tutelava l’adolescente e il giovane apprendista, Don Bosco reagì in modo molto concreto. Volle avvicinare alcuni titolari di botteghe e di officine che conosceva, e propose loro di firmare dei contratti di apprendistato a favore di quanti partecipavano alla vita dell’Oratorio di Valdocco. Attualmente, nell’archivio generale della Congregazione Salesiana, si conservano alcuni documenti rari: un contratto di «apprendizzaggio» in carta semplice, datato novembre 1851; un secondo contratto, pure di «apprendizzaggio», in carta bollata da centesimi 40, con data 8 febbraio 1852 ed altri datati intorno al 1855, già ben strutturati e quasi standardizzati in numeri e paragrafi.
Il contratto di apprendistato del 1851 è particolarmente significativo perché definisce un tipo di impostazione utilizzata in seguito, e perché attesta in Don Bosco una tenacia e una concretezza che lo resero un interlocutore molto deciso nei suoi propositi. Egli, per tutelare i suoi giovani, non aggredì mai nessuno, ma – contemporaneamente – non indietreggiò davanti alle difficoltà. Il documento qui di seguito riportato, che coinvolge un vetraio, ne è un esempio.
«In virtù della presente scrittura da potersi insinuare [«rompere», Nota dell’Autore] a semplice richiesta di una delle parti fatta nella casa dell’Oratorio di San Francesco di Sales tra il signor Carlo Aimino ed il giovane Giuseppe Bordone allievo di detto Oratorio, assistito dal suo cauzionario Signor Ritner Vittorio, si è convenuto quanto segue:
1. Il signor Carlo Aimino riceve come apprendizzo [«apprendista», Nota dell’Autore] nell’arte sua di vetraio il giovane Giuseppe Bordone figlio del fu Giuseppe nativo di Biella, promette e si obbliga di insegnargli la medesima nello spazio di tre anni, i quali avranno il loro termine con tutto il 1854 il primo dicembre e di dargli durante il corso del suo apprendizzaggio le necessarie istruzioni e le migliori regole riguardanti l’arte sua ed insieme gli opportuni avvisi relativi alla sua buona condotta, con corregerlo [correggerlo], nel caso di qualche mancamento, con parole e non altrimenti; e si obbliga pure di occuparlo continuamente in lavori relativi all’arte sua e non estranei ad essa, con avere cura che non eccedano le sue forze.
2. Lo stesso mastro [«maestro», Nota dell’Autore] dovrà lasciare per intiero liberi tutti li giorni festivi dell’anno all’apprendizzo acciocché [affinché] possa in essi attendere alle sacre funzioni, scuola domenicale ed altri suoi doveri come allievo di detto Oratorio.[16]
Qualora l’apprendizzo per causa di malattia si assentasse dal suo dovere, il mastro avrà diritto a buonificazione per tutto quello spazio di tempo che eccederà li quindici giorni nel corso dell’anno. Tale indennità verrà fatta dall’apprendizzo con altrettanti giorni [«di lavoro», Nota dell’Autore] quando sarà finito l’apprendizzaggio.
3. Lo stesso mastro si obbliga di corrispondere giornalmente all’apprendizzo negli anni suddetti, cioè il primo, lire una, [il] secondo lire una e cinquanta, come terzo lire due, in ciascuna settimana [e secondo la consuetudine gli si concedono ciascun anno 15 giorni di vacanza].[17]
4. Lo stesso signor padrone si obbliga in fine di ciascun mese di segnare schiettamente la condotta del suo apprendizzo sopra di un foglio che a tale oggetto gli verrà presentato.
5. Il giovane Giu. [Giuseppe] Bordone promette e si obbliga durante il suo apprendizzaggio in servizio del mastro suo padrone [di lavorare, Nota dell’Autore] con prontezza, assiduità ed attenzione; di essere docile, rispettoso ed ubbidiente al medesimo e comportarsi verso di esso come il dovere di buon apprendizzo richiede, e per cautela e garanzia di questa sua obbligazione, presta in sua sicurtà il qui presente ed accettante Signor Ritner Vittorio Orefice, il quale si obbliga al ristoro di ogni danno verso il padron mastro, qualora questo danno avvenga per colpa dell’apprendizzo.
6. Se venisse il caso che l’apprendizzo incorresse in qualche colpa, per cui fosse mandato via dall’Oratorio, cesserà allora anche ogni influenza e relazione tra il Direttore di detto Oratorio ed il mastro padrone, ma se la colpa dell’apprendizzo non riflettesse particolarmente [«non dovesse essere particolarmente grave», Nota dell’Autore] il mastro, dovrà esso ciò non ostante dare esecuzione al presente contratto fatto coll’apprendizzo, e questi compiere ad ogni suo dovere verso [«nei confronti», Nota dell’Autore) del mastro sino al termine convenuto sotto la sola fidejussione sopra prestata.
7. Il Direttore dell’Oratorio promette di prestare la sua assistenza pel buon esito della condotta dell’apprendizzo e di accogliere con premura qualsiasi lagnanza, che al rispettivo padrone accadesse di fare a cagione dell’apprendizzo presso di lui ricoverato.
Locchè tutto tanto il mastro padrone, che l’apprendizzo allievo, assistito come sopra, per quanto a ciascuno di essi spetta ed appartiene, promettono d’attendere ed osservare sotto pena dei danni.
Torino, 3 novembre 1851.
Carlo Aimino.
Giuseppe Bordone.
D. Gio. Batt.a Vola Teol.
Ritner Vittorio Cauzionario.
D. Bosco Gio. Direttore dell’Oratorio”.[18]
L’8 febbraio 1852 a Torino, nella casa dell’Oratorio di San Francesco di Sales, il giovane apprendista falegname Giuseppe Odasso firmava un contratto di «apprendizzaggio» [«apprendistato», Nota dell’Autore] in carta bollata da 40 centesimi, garante Don Giovanni Bosco. L’atto obbligava il datore di lavoro, Giuseppe Bertolino, a impiegare l’apprendista solo nel suo mestiere e non in servizi «estranei alla professione», correggendolo solo a parole senza percosse, rispettandone salute, età, capacità, riposo festivo e i doveri di allievo della casa dell’Oratorio. Progressivo lo stipendio settimanale nel corso dei due anni di apprendistato. Il giovane si impegnava a comportarsi «come dovere di buon apprendista richiede». Garantivano per il ragazzo: il direttore della casa dell’Oratorio (Don Bosco) e il padre con una fideiussione in caso di danni non dovuti a «un semplice effetto di accidentalità o per conseguenza d’imperizia nell’arte». Se l’apprendista veniva espulso dalla casa dell’Oratorio, il direttore era libero da ogni impegno contrattuale, che invece poteva persistere tra le altre parti contraenti.
Anche in questo caso la diretta conoscenza del contratto di apprendistato aiuta a meglio comprendere il tipo di tutela che si voleva porre in essere a favore dei giovani che stavano entrando nel mondo del lavoro.
«Convenzione tra il Signor Giuseppe Bertolino Mastro Minusiere[19] dimorante in Torino ed il giovane Giuseppe Odasso natìo di Mondovì, con intervento del Reverendo Sacerdote Giovanni Bosco, e coll’assistenza e fidejussione del padre del detto giovane Vincenzo Odasso natìo di Garessio, domiciliato in questa capitale.
Per la presente scrittura a doppio originale da potersi insinuare [«rompere», Nota dell’Autore] a semplice richiesta d’una delle parti fattasi nella Casa dell’Oratorio esistente in Torino sotto il titolo di San Francesco di Sales venne pattuito quanto infra:
1. Il Signor Bertolino Giuseppe Mastro Minusiere esercente tal professione in Torino, riceve nella qualità di apprendista nell’arte di falegname il giovane Giuseppe Odasso natìo di Mondovì, del vivente Vincenzo natìo di Garessio ed in questa capitale domiciliato, e si obbliga d’insegnargli l’arte suddetta, per lo spazio d’anni due che si dichiarano aver avuto principio [«inizio», Nota dell’Autore] col primo del corrente anno, ed aver termine con tutto il 1853; di dare al medesimo nel corso del suo apprendimento, le necessarie istruzioni e le migliori regole onde ben imparare ed esercitare l’arte suddetta di Minusiere; di dargli relativamente alla sua condotta morale e civile quegli opportuni salutari avvisi che darebbe un buon padre al proprio figlio; correggerlo amorevolmente in caso di qualche suo mancamento, sempre però con semplici parole di ammonizione, e non mai con atto alcuno di maletrattamento [«maltrattamento», Nota dell’Autore]; occuparlo inoltre continuamente in lavori proprii dell’arte sua, e proporzionati alla di lui età e capacità, ed alle fisiche sue forze, ed escluso ogni qualunque altro servizio che fosse estraneo alla professione.
2. Dichiara formalmente e si obbliga l’anzidetto Mastro di lasciar liberi per intiero tutti i giorni festivi dell’anno, onde l’apprendista possa attendere alle sacre funzioni, alla scuola Domenicale, e ad ogni altro dovere che gli incombe come allievo dell’Oratorio anzidetto.
Qualora l’apprendista dovesse per ragione di malattia od altro legittimo impedimento assentarsi dal suo dovere per uno spazio di tempo eccedente li giorni quindici, s’intenderà in tal caso dovuta al Mastro una buonificazione, alla quale soddisferà l’apprendista mediante l’attendenza al lavoro, terminati li due anni dell’apprendimento, per altrettanti giorni a servizio dello stesso Mastro, quanti si farà risultare essere stati quelli della detta di lui assenza.
3. Lo stesso Mastro si obbliga di corrispondere settimanalmente all’apprendista l’importare della sua mercede, stata convenuta in centesimi trenta al giorno per li primi sei mesi, ed in centesimi quaranta per il secondo semestre del corrente anno 1852; ed in centesimi sessanta, a principiare [«iniziando», Nota dell’Autore] dal primo gennaio 1853, fino al terminare dell’apprendimento.
Si obbliga inoltre di segnare, al fine di ciaschedun mese, in un apposito foglio che gli verrà presentato, e schiettamente [«con sincerità», Nota dell’Autore] dichiarare quale sia stata la condotta durante il mese tenuta dall’apprendista.
4. Il giovane Odasso promette e si obbliga di prestare, per tutto il tempo dell’apprendimento, il suo servizio al detto Mastro Minusiere, con prontezza, assiduità ed attenzione; di essere docile, rispettoso, ed obbediente al med.mo [«medesimo», Nota dell’Autore], comportandosi verso di lui come il dovere di buon apprendista richiede. E per cautela e guarentigia di tale obbligazione, presta per sicurtà il qui presente ed accettante suo padre, Vincenzo Odasso il quale si obbliga al ristoro verso l’anzidetto Mastro di ogni danno che per causa dell’apprendista venisse a sofrire [«soffrire»], semprechè però tale danno potesse all’apprendista giustamente venir imputato, fosse cioè per risultar proveniente da volontà spiegata [«manifesta», Nota dell’Autore] e maliziosa [«dolosa», Nota dell’Autore], e non quale un semplice efetto «effetto» di accidentalità, o per conseguenza d’imperizia nell’arte.
5. Avvenendo il caso in cui l’apprendista fosse per venire espulso, in seguito a qualche suo mancamento [«sua mancanza», Nota dell’Autore], dalla Casa dell’Oratorio di cui presentemente è allievo, cessando allora ogni suo rapporto col Direttore dell’Oratorio, si intenderà conseguentemente anche cessata ogni influenza e relazione tra esso Signor Direttore ed il Mastro Minusiere summentovato. Ma quando il commesso mancamento riguardasse soltanto l’Oratorio, e non riflettesse particolarmente il Mastro suddetto, s’intenderà ciò non ostante durativa ed obbligatoria nel resto la presente convenzione, fino al compimento dello stabilito termine dei due anni, relativamente ad ogni altra condizione concernente esso Mastro, l’apprendista, ed il fideiussore.
6. Il Signor Direttore dell’Oratorio summentorato [«succitato», Nota dell’Autore] promette di prestare la sua assistenza per la buona condotta dell’apprendista infinattantoché [«fino a che», Nota dell’Autore] continuerà questi ad appartenere all’Oratorio, epperò [«però», Nota dell’Autore] accoglierà sempre con premura qualunque lagnanza che occorresse al Signor Mastro di fare sui diportamenti [comportamenti] del detto giovane.
Locché tutto promettono i contraenti, ciascheduno per la parte che personalmente lo concerne, di attendere ed osservare esattamente, sotto pena del risarcimento dei danni. Ed infede si sono appié della [«sotto la», Nota dell’Autore] presente sottoscritti.
Torino, dalla Casa dell’Oratorio di San Francesco di Sales, addì 8 Febbrajo 1852
Giuseppe Bertolino
Odasso Giuseppe
Odasso Vinc.o
Sac. Bosco Gioanni».[20]
Nell’autunno del 1853 Don Bosco operò una scelta non semplice: fece costruire un nuovo edificio accanto alla casa Pinardi e dette inizio ai laboratori interni. Cominciò con i calzolai e i sarti, insegnando di persona quei mestieri. Era comunque deciso ad andare oltre. Il laboratorio dei calzolai lo collocò in un locale stretto, vicino alla chiesa di San Francesco di Sales. I sarti vennero sistemati nella stanza della cucina, mentre pentole e fornelli furono trasferiti nel nuovo edificio. Nel 1854 il Santo organizzò il terzo laboratorio, la legatoria dei libri. Nel 1856 il quarto, la falegnameria. Il quinto era il più desiderato: la tipografia. La licenza arrivò nel 1862. Il sesto iniziò l’anno dopo: era l’officina dei fabbri ferrai, una struttura che anticipò i laboratori di meccanica. In tal modo venne meno la necessità di affidare all’esterno i giovani dell’Oratorio. Essi lavorarono all’interno dell’Opera Salesiana, sostenuti da Don Bosco e dai suoi collaboratori. Il centro di Valdocco arrivò ad accogliere fino a 300 giovani. Comunque non venne meno un criterio-guida: dare la preferenza ai più poveri, ai soggetti in difficoltà, ai minori a rischio. Le Memorie dell’Oratorio e le Memorie Biografiche descrivono i primi passi compiuti dal fondatore e le difficoltà che dovettero essere superate. Tra il 1853 e il 1856 ebbe inizio, nella casa annessa all’Oratorio, l’attività dei laboratori dei calzolai, sarti e falegnami.[21]
«Allogata la [«trovato un luogo alla», Nota dell’Autore] comunità, volle subito attuare il disegno che aveva formato, di aprire, a costo di qualunque sacrificio, laboratorii interni nell’Oratorio. Quel mandare ogni giorno i giovanetti nelle officine della città, per quanto scelte, sorvegliate, mutate con ogni impegno, erano un pericolo se non un danno per la disciplina e per il profitto dei ricoverati. Il malcostume e l’irreligione purtroppo facevano progresso fra gli operai e Don Bosco si avvedeva che i motteggi a cui erano fatti segno i suoi allievi, miravano a distruggere in gran parte il frutto dell’educazione morale e religiosa che si studiava di loro impartire.
Le stesse vie che dovevano percorrere erano ingombre dai venditori di una moltitudine di giornali che erano banditori perpetui e sistematici di licenza e di empietà. Nelle vetrine dei librai e mercivendoli facevano scandalosa mostra di sé una colluvie di sconce incisioni, di laide statuette, di romanzacci, di altre produzioni schifose ed anche di libri eretici.
Per tutti questi incentivi, correva eziandio rischio la loro fede, benché Don Bosco, oltre a varie prescrizioni, e ammonimenti, loro indirizzasse il sermoncino della sera, collo scopo appunto di esporre e confermare qualche verità che per avventura fosse stata contraddetta nel corso della giornata. E non solo in pubblico, ma anche in privato parlava continuamente degli errori dei protestanti e delle tristi loro conseguenze, esortandoli a starne in guardia.
Don Bosco adunque volle sottrarre la parte che poté de’ suoi artigiani ai lamentati inconvenienti. Perciò, col soccorso dei benefattori, comprati alcuni deschetti e gli attrezzi necessarii, collocò il laboratorio dei calzolai in un piccolo corridoio di casa Pinardi presso il campanile della chiesa».[22]
Don Bosco, alla fine, grazie all’esperienza lavorativa che aveva acquisito in anni precedenti, decise di incominciare a insegnare ad alcuni giovani dell’Oratorio di Valdocco. Divenne il loro «mastro», ma non il loro «padrone».
«Don Bosco fu il primo maestro dei sarti, avendo già esercitata quell’arte quando era studente; così pure di quando in quando, allorché gli studenti erano a scuola in città, andava a sedersi al deschetto per insegnare ai giovani il maneggio della lesina e dello spago impeciato per rattoppare le scarpe. Così provvedeva ai bisogni dei giovani con minor spesa, poiché per le calzature e per i vestiti in breve non si sarebbe più dovuto richiedere l’opera di estranei».[23]
La struttura dei primi laboratori era quella antica e pre-industriale: capi d’arte, operai e apprendisti insieme in locali posti a disposizione da Don Bosco. Il capo-calzolaio del 1853-1854 faceva anche da portinaio della casa. Nel 1854 chiedendo sul giornale «L’Armonia» lavoro per i suoi legatori, il fondatore esplicitamente indicava due motivi: la convenienza dei prezzi e la carità verso i giovani.[24] Ecco il testo di un altro «Avviso»:
«AVVISO. Nella casa annessa all’Oratorio di San Francesco di Sales furono aperti i seguenti laboratori: 1° Legatoria da libri in tutte qualità. 2° Sartoria per abiti da ecclesiastico e da borghese. 3° Calzoleria per ogni genere di lavoro. 4° Falegname e minusiere. – Le persone che vorranno somministrare lavoro a questi laboratori, oltre la speciale agevolezza dei prezzi, avranno il conforto di prender parte a sostenere un’Opera di beneficenza, che tende a dare pane e professione a giovani poveri ed abbandonati».[25]
Con l’argomento della convenienza dei prezzi Don Bosco si pose nell’ambito della concorrenza di mercato. Sul piano del profilo economico, però, il disegno di laboratori interni al centro di Valdocco, con capi d’arte esterni, non si prospettava incoraggiante. Il Santo era infatti a conoscenza di due fatti, avvenuti a Torino, che riguardavano l’Albergo di Virtù[26] e la Generala.[27] Il primo istituto, per rientrare nei bilanci, si era visto costretto a diminuire il numero dei giovani convittori apprendisti. La Generala nel 1854 aveva i laboratori in passivo, e nel 1855 i bilanci erano peggiorati.[28]
Uno dei motivi dei succitati regressi economici era legato al fatto che i laboratori non erano concepiti come vere e proprie scuole di apprendimento per le quali l’investimento finanziario era motivato da ragioni sociali, ma piuttosto erano pensati come aziende artigianali capaci di offrire in ultimo dei prodotti finiti e redditizi. In tempi in cui il prodotto artigianale cominciava a non reggere alla concorrenza di quello industriale, ai capi d’arte non conveniva più impiantare la propria bottega all’Albergo di Virtù o alla Generala, dove poi ci si perdeva nei materiali e nel prodotto. Giovenale Vegezzi-Ruscalla (1799-1885)[29] suggeriva di spostare allora i giovani detenuti dalla città a zone industrialmente meno avanzate, come l’Eremo di Lanzo.[30] Là si sarebbero potute attivare «le professioni di fabbro, di falegname e tessitore, ma di manufatti che non esigano gran perizia e possano quindi in breve rendersene abili i giovanetti; cosa di molta importanza, giacché se si vogliono indirizzare i ragazzi alla costruzione di arnesi, strumenti o tessuti complicati e di squisito lavoro, si richiederebbe un lungo tirocinio, e per l’imperizia degli allievi l’amministrazione dovrebbe sottostare a gravi perdite, come sperimenta nello stabilimento della Generala».[31]
Presso l’Oratorio di San Francesco di Sales non si potevano affrontare alti investimenti economici. I suoi primi laboratori molto probabilmente risposero a esigenze limitate delle zone circostanti (Valdocco, Borgo Dora), nonché a quelle altrettanto modeste di giovani convittori i quali, accettando di vestire i giacconi militari forniti dal Santo, erano disposti a portare scarpe e indumenti di tipo inusuale. La legatoria, poi, non esigeva, per quel che doveva eseguire, tecniche specialistiche. Bisognava comporre le brossure semplicissime delle Letture Cattoliche o le rilegature cartonate e in mezza pelle di operette come il Giovane provveduto. Gli apprendisti più preparati erano in grado di stampare i titoli su qualche dorso in pelle. Infine, garzoni falegnami trovavano lavoro nella stessa Torino sia nel settore edilizio che in quello del mobile.
Uno dei desideri più intensi di Don Bosco fu quello di trasmettere un insegnamento religioso e civile anche attraverso la stampa. Egli si rese conto che le prediche, le meditazioni in occasione di esercizi spirituali, gli interventi nell’Oratorio e in altri luoghi di Torino, i colloqui presso diversi interlocutori (benefattori, politici, autorità della pubblica amministrazione) raggiungevano, comunque, un limitato numero di persone. Per far arrivare un contributo spirituale, sociale e culturale a un più esteso numero di persone era necessario l’uso di strumenti adatti alla comunicazione, ad esempio piccoli stampati, libretti, testi inerenti materie scolastiche, opere a sfondo devozionale. Per arrivare a tale obiettivo il Santo si era già recato presso alcuni stampatori della città, ma il suo desiderio era quello di promuovere una tipografia all’interno dell’Oratorio di Valdocco. Contemporaneamente, un altro suo obiettivo fu quello di aumentare il numero dei laboratori interni creando spazi per i fabbri ferrai e per i tipografi.
Il disegno di Don Bosco riguardo a una tipografia a Valdocco è delineato anche in una delle diverse lettere che il Santo scrisse all’Abate Antonio Rosmini, datata 29 dicembre 1853. Già il 15 ottobre dello stesso anno il fondatore aveva scritto all’amico perché impossibilitato a restituire nel tempo stabilito una somma presa a prestito. Per questo motivo aveva chiesto la dilazione di alcuni mesi.[32]
«Prima di rispondere alla venerata lettera di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima ho voluto fare un calcolo sul mio presente stato finanziario, e sulle difficoltà che si potrebbero incontrare per mettere in opera una tipografia nel senso che noi intendiamo. Comincio per dirle che tale idea forma un oggetto principale de’ miei pensieri da più anni, e la sola mancanza di mezzi e di locale me ne ha fatto sospendere la esecuzione. Perciocché manchiamo difatti di una tipografia in cui ci siano confidenza, economia e perfezione.
Non ci sarebbero difficoltà da parte del proto, e credo nemmeno di un buono ed attivo direttore; ciò che mi si oppone sono le spese che dovrei fare per ridurre una parte del locale in costruzione a questo uso, e le spese di primo impianto. Tuttavia poiché ella sarebbe disposta di somministrare un discreto capitale, io mi metterei quando che sia all’opera; ma mi fa mestieri che Vostra Signoria voglia degnarsi di significarmi fino a qual somma ella possa e intenda far montare questo capitale, e con quali condizioni mi verrebbe somministrato.
Se queste due ultime clausole saranno compatibili col mio stato presente di cose, credo che la cosa si potrà effettuare; e che il lavoro non mancherà e che io potrò procacciar lavoro ad un buon numero de’ miei ragazzi; ben inteso che mi è indispensabile il suo aiuto morale forse più del materiale. La ringrazio di tutto cuore della bontà e della memoria che nutre per me e per questi miei poveretti, e non potendole altrimenti dimostrare la mia gratitudine, prego il Signore Iddio a voler colmare di sue celesti benedizioni Lei e tutto il benemerito istituto della carità».[33]
Il 26 ottobre del 1861, nonostante il regio decreto legislativo del 13 novembre 1859 (legge Casati) prevedesse altrimenti, Don Bosco non si rivolse al provveditore degli studi per ottenere l’autorizzazione all’apertura di una scuola tecnica con l’insegnamento dell’arte tipografica, ma al governatore della provincia, il prefetto conte Giuseppe Pasolini (1815-1876). Si decideva in tal modo a realizzare il progetto ideato tra il 1853-1855 insieme all’Abate Rosmini (deceduto nel luglio del 1855).
«Illustrissimo Signore,
il Sacerdote Bosco Gioanni Direttore dell’Oratorio di San Francesco di Sales espone rispettosamente a Vostra Eminenza come il numero accresciuto de’ giovani ricoverati in questa casa importerebbe di avere qualche altra professione oltre quelle che già ivi si esercitano di falegname, sarto, calzolaio e legatore di libri. Sembra che tornerebbe di vistosa utilità l’iniziare una piccola tipografia. A tale oggetto ricorre a Vostra Signoria Illustrissima per essere autorizzato:
1. Di aprire in questa casa una tipografia sotto al tito(lo) di Tipografia dell’Orat(orio) di San Francesco di Sales.
2. Atteso lo scopo di questa piccola tipografia esclusivamente benefico, e la tenuità de’ mezzi e dei lavori cui quella deve restringersi, permettere che si apra in capo del direttore dell’Oratorio medesimo.
3. Prima di dare cominciamento ai lavori tipografici il ricorrente si obbliga di provvedere una persona dell’arte, che possa garantire i lavori che si dovessero intraprendere.
Siccome questa piccola tipografia tende a dar lavoro ed a beneficare i giovani più poveri e i più abbandonati della società, il sottoscritto confidando nella nota di Lei bontà spera che la sua dimanda sarà presa in benigna e favorevole considerazione mentre colla massima stima ha l’onore di professarsi
Di Vostra Signoria Illustrissima
Umile ricorrente
Sacerdote Bosco Gioanni».[34]
Dall’ufficio del governatore venne risposto (29 ottobre 1861) che, a termini di legge, potevano essere autorizzate solo persone che avessero fatto un tirocinio di almeno tre anni presso un tipografo approvato dal Governo e avessero ottenuto un certificato d’idoneità nell’arte.[35] Dopo ulteriori trattative, il 31 dicembre 1861 la licenza fu accordata dal prefetto di Torino Costantino Radicati (1812-1895), e controfirmata lo stesso giorno dal questore Giacinto Chiapussi (1815-?). In tal modo Don Bosco ottenne di aprire all’Oratorio, nel «suo stabilimento», «un esercizio di tipografia sotto la materiale direzione del signor Giardino Andrea».[36] Sul piano legale Don Bosco figurò proprietario di una tipografia, a livello sociale ed economico assunse il ruolo di imprenditore che investiva propri capitali a scopi filantropici.
Il primo libro stampato dalla Tipografia dell’Oratorio di San Francesco di Sales fu un libretto del canonico Cristoph von Schmid (1768-1854): Teofilo, ossia il giovane romito, ameno racconto. Uscì come fascicolo delle Letture Cattoliche nel maggio del 1862. Da allora queste Letture vennero sempre stampate nella «Tipografia dell’Oratorio», con poche eccezioni.
Il lavoro a Valdocco non ci fu sempre. Dopo il trasferimento della capitale, la crisi economica colpì l’Oratorio anche nel settore tipografico ed editoriale. Nel 1868 al cavaliere Federico Oreglia di Santo Stefano (1830-1912) che si attardava a Roma, ma che a Torino era il responsabile fiduciario della tipografia e della libreria, il Santo scrisse che il lavoro mancava.[37] Non bastavano, in definitiva, le commesse del latinista professor Tommaso Vallauri (1805-1897), del domenicano Monsignor Tommaso Ghilardi (1799-1873), Vescovo di Mondovì, e di pochi altri; non erano sufficienti le sole Letture Cattoliche. Per questo motivo, inaugurare le collane dei «Selecta ex latinis scriptoribus» e della «Biblioteca della gioventù italiana» costituì anche la ricerca di nuovi sbocchi di mercato.
La congiuntura economica favorevole del 1872 poté permettere anche un rilancio delle Letture Cattoliche. Ad esse in quegli anni venne data una nuova veste tipografica, ne fu migliorata la confezione in brossura; le copie di stampa di ciascun fascicolo mensile arrivarono a circa 12.000 copie. Fu allora che la tipografia dell’Oratorio, insieme a quella – a quanto pare – degli Artigianelli, suscitò le gelosie dei tipografi e librai torinesi.[38] La direzione della tipografia Favale e l’editore libraio Innocenzo Vigliardi (1822-1896), in una riunione delle due categorie avvenuta il 21 ottobre del 1872, sostennero che le tipografie degli «istituti pii» conducevano una concorrenza sleale nei confronti delle tipografie e librerie private e che era necessario sopprimerle. Gli «istituti pii» presi di mira erano in pratica la Tipografia Salesiana e quella del Collegio Artigianelli. Il calendario delle audizioni dei rappresentanti dei vari settori industriali si può leggere sulla «Gazzetta del Popolo»[39] e sull’«Unità Cattolica».[40] La deposizione di Favale e Vigliardi venne preannunciata per il 21 ottobre dalla «Gazzetta del Popolo».[41] Ne fu pubblicata una sintesi sullo stesso giornale il 23 ottobre:
«Simondetti, Pomba, Favale, Vigliardi, Doyen, Martin sono esaminati sulle materie librarie, litografiche e sulla fabbricazione della carta. Pomba, il Nestore dei tipografi italiani, vuole che il Governo protegga maggiormente il commercio librario, e a questo fine sono a desiderarsi una buona legge sulla proprietà letteraria e sull’esercizio della stampa. Si sofferma sulle cause, che a suo credere hanno influito sulla decadenza della professione tipografica. Favale esamina la questione sotto un altro punto di vista, sotto il punto della concorrenza governativa cogli stabilimenti penitenziari e colla cattiva organizzazione dell’Economato Generale, che, tra parentesi, economizza ben poco. Vigliardi s’associa ai reclami del Favale […]».[42]
La relazione del giornale non fece riferimento esplicito alla Tipografia Salesiana e a quella degli Artigianelli. Secondo tale sintesi, Favale e Vigliardi si sarebbero limitati a lamentare la concorrenza delle tipografie degli stabilimenti penitenziari governativi che, comunque, nel caso dei riformatori, erano non di rado affidati a congregazioni religiose. Tuttavia, Valdocco e Artigianelli non rientravano nella tipologia degli stabilimenti penitenziari.
Con riferimento alla vicenda succitata, Don Bosco avvertì comunque una velata allusione alla tipografia di Valdocco. Per questo motivo ritenne necessario, con una lettera indirizzata al presidente del Comitato per l’inchiesta industriale di Torino, precisare la propria posizione. La sua linea fu la seguente: gli Artigianelli erano un pio istituto legalmente riconosciuto, mentre – al contrario – l’Oratorio era solo una «casa privata come qualunque altra tipografia, con questa sola diversità che nella tipografia i guadagni sono ordinariamente a vantaggio del padrone, e qui tornerebbero a bene dei poveri artigiani medesimi».
Gli operai presenti nell’Oratorio non erano tutti interni; diversi provenivano da fuori ed erano equamente remunerati. Inchiostro, carta, torchi, macchine erano cose che non si avevano gratuitamente. Gli apprendisti costavano il «consumo, o meglio» «distruzione di pagnottelle», nonché varie altre spese di alimentazione, istruzione e vestiti. I lavori tipografici offerti da terzi erano trattati a prezzo di concorrenza. Per questo Don Bosco annotò:
«Possiamo assicurare che lavori tra noi in trattative furono da altri tipografi eseguiti con notabile riduzione di prezzo. Quindi l’accusa di lavori fatti a prezzo vile cade sopra di altri, ma non sopra a questo istituto».
Concludeva il fondatore:
«Non abbiasi poi alcun timore che l’arte tipografica venga a patirne per le concorrenze degli istituti privati e governativi», questi infatti: «produssero ottimi proti[43] e compositori, cui mercè [«grazie a loro», Nota dell’Autore] si pubblicarono opere che la storia imparziale ha sempre commendato [«lodato», Nota dell’Autore]».
C’erano da sperare progressi nell’arte tipografica anche in avvenire anche grazie agli istituti ch’erano sotto accusa. Don Bosco si teneva fuori della categoria dei «pii istituti» legalmente approvati e si riconosceva in quella degli «istituti privati». Anche in questo campo accettava l’ipotesi delle istituzioni vigenti, si radicava nel proposito di conservare i diritti civili e di muoversi sulla piattaforma che essi offrivano.[44]
Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra il capo d’arte (padrone di bottega) e gli apprendisti, e il modello della scuola tecnica prevista dalla nuova legge organica sull’istruzione, Don Bosco preferì percorrere una terza via: quella dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti. Tra i tanti apprendistati che avrebbe potuto incrementare egli non scelse quelli che sfociavano nell’industria serica e cotoniera. Questi, infatti, a ben vedere, potevano disperderlo in campi discosti da quelli che aveva già incrementati. La tipografia, invece, gli permise una migliore articolazione del complesso d’iniziative gravitanti nel campo dell’istruzione classica e dell’educazione popolare. Quello dei tipografi divenne presto il centro propulsivo dei laboratori di Valdocco, ne fu l’elemento più appariscente e più conosciuto. Il Santo vi investì capitali notevoli per migliorare i macchinari e per stare, come ebbe a dire, all’avanguardia del progresso. Il pedagogista Vincenzo Garelli (1818-1878), anziano discepolo di Giovanni Antonio Rayneri (1809-1867) e provveditore degli studi a Torino, chiese a Don Bosco (1870) di esibirgli dati per una statistica da presentare a Napoli in una mostra sulle opere didattiche pubblicate nella provincia di Torino in quel decennio. Annoterà nella lettera:
«Non potevo certo dimenticare la Signoria Vostra Illustrissima, il cui nome figura a buon diritto tra coloro che onorano la nobilissima delle arti moderne».[45]
Nel 1884, fu organizzata l’«Esposizione Generale Italiana» di Torino per iniziativa di un gruppo di industriali e professionisti membri della «Società promotrice dell’industria nazionale». Il coinvolgimento delle autorità avvenne tuttavia fin dal principio, a partire dalla sovrapposizione di carriere private e pubbliche di molti suoi protagonisti fino ad arrivare al finanziamento e alla partecipazione capillare all’iniziativa da parte del Governo e del Municipio di Torino. In questa occasione un padiglione venne riservato alla Tipografia Salesiana e ai suoi lavori.
Accanto alla tipografia si sarebbe consolidato il laboratorio dei fabbri ferrai. Era anch’esso essenzialmente un tirocinio nel mestiere. Nel periodo 1857-1861 la categoria dei fabbri e dei magnani[46] era aumentata a Torino del 12,64%.[47] Era un dato che lasciava pronosticare un buon successo per chi vi s’inseriva come apprendista. Il laboratorio fu aperto a Valdocco nel 1862 e primo capo d’arte fu il più che sessantenne Giovanni Battista Garando (1796-1867).
«La Divina Provvidenza intanto aiutava Don Bosco mandandogli buoni capi d’arte ed alcuni veramente eccellenti, dei quali a suo tempo faremo menzione onorevole. Per ora ci contentiamo di nominare un solo, quello dei fabbri ferrai Garando Giovanni Battista. Era un bravo cristiano all’antica e vero artista nel suo mestiere. Per varii anni aveva accettati nella sua officina giovani raccomandati da Don Bosco e tutti furono molto contenti di un tale maestro. Per mancanza di committenti però e per disgrazie finanziarie aveva dovuto chiudere la sua bottega, costretto a lavorare come semplice operaio presso un padrone. Nel 1863 Pietro Enria[48] che aveva lavorato per tre anni sotto la sua maestranza, lo incontrò per Torino, e fattegli molte feste gli chiese sue notizie. Quegli rispose che di sanità grazie a Dio non c’era male: “ Ma vedi,” gli soggiunse, “a che punto sono ridotto a 70 anni! Mi tocca fare il garzone d’officina”. Enria gli rispose: “Caro Battista; vuol venire con me all’Oratorio? Sono sicuro che Don Bosco lo accetterà subito in casa tanto più che stenta ad avviare un laboratorio di fabbri”. “Ahi” esclamò Garando; “se il Signore e la Madonna mi faranno questa grazia, io non verrò mai più via da quel luogo”.
Don Bosco l’accettò e il buon artista era così contento, che andava ripetendo: “Ma io sono entrato in Paradiso!”. Lavorava come un giovane sui vent’anni, addestrava con diligenza i suoi allievi, e vigilava perché non dessero mai alcun dispiacere a Don Bosco. Fu egli che preparò poi tutte le ferramenta della chiesa di Maria Ausiliatrice e specialmente le finestre. Visse quattro anni nell’Oratorio ripetendo fino nella estrema ora della sua vita: “Benedetto quel giorno nel quale Don Bosco mi accettò nella sua casa”».[49]
Negli ultimi anni di vita del fondatore, i Salesiani aprirono «scuole di arti e mestieri» a Sampierdarena-Genova e a San Benigno Canavese. In Francia videro la luce gli «Ateliers professionnels de l’Association du Patronage St-Pierre» (Nice, Marseille) e l’«Orphelinat Saint-Gabriel» (Lille).[50] In Argentina l’iniziativa riguardò i «Talleres» di Almagro, Buenos Aires. In Uruguay si organizzarono laboratori a Montevideo; in Brasile a Niteroi, Rio de Janeiro, São Paulo. In Spagna divennero operativi i «Talleres salesianos» di Sarriá-Barcelona. In tale contesto rilevano interesse due manoscritti conservati presso l’Archivio Salesiano Centrale. Nel primo documento «Maestri d’arte» (stilato da un amanuense non identificato), si avvertono numerose correzioni e aggiunte dovute alla mano di Don Bosco:
«Maestri d’arti
1. I maestri d’arti hanno carico di ammaestrare i giovani della casa nell’arte cui sono destinati dai superiori. Il loro principale dovere è la puntualità nel trovarsi in tempo debito nel laboratorio, e di fissare ai loro allievi di mano in mano che entrano nel laboratorio, e di non mai allontanarsene senza esserne intesi coll’assistente.
2. Si adoperino in modo che si trovino al tempo dell’entrata e di uscita dei giovani dal laboratorio e ciò per impedir i guasti o le risse che potrebbero in que’ momenti accadere.
3. Si mostrino premurosi per tutto ciò che riguarda il bene della Casa e si ricordino che è loro essenziale lavoro istruire gli apprendisti a far sì, che loro non manchi il lavoro. Osservino e per quanto è possibile facciano osservare il silenzio durante il lavoro, né permettano che alcuno si metta a parlare, ridere, scherzare o a cantare fuori del tempo di ricreazione.
Non permetteranno mai ai loro allievi di uscire per recarsi a far commissioni; essendo il caso, l’assistente ne dimanderà al prefetto l’opportuno permesso.
Non devono mai fare contratti coi giovani della Casa, né assumersi pel loro conto particolare alcun lavoro di lor professione. Prima di cominciar nel laboratorio qualche lavoro lo consegnino all’assistente affinché noti le intelligenze, prezzo convenuto, nome, cognome, dimora di colui pel quale si deve intraprendere.
4. Sono strettamente obbligati d’impedire ogni sorta di cattivi discorsi, e conosciuto qualcuno che ne sia colpevole dovranno immediatamente darne avviso al Superiore.
5. Ogni maestro, ogni allievo stia nel proprio laboratorio, né mai alcuno si rechi in quello degli altri senza assoluto bisogno.
6. È proibito il fumare tabacco, giuocare, bere vino nei laboratorii, dovendosi in questi lavorare e non divertirsi.
7. Il lavoro comincierà coll’“Actiones”[51] e coll’“Ave Maria”. A mezzodì si dirà sempre l’“Angelus Domini” prima di uscire dal laboratorio.
8. Gli apprendisti poi debbono essere docili e sottomessi ai loro maestri ed ai loro assistenti, come loro superiori, mostrando grande diligenza per compiacerli, e somma attenzione per imparare quelle cose che loro sono insegnate.
9. Si leggeranno questi articoli dal Capo o da chi per lui ogni 15 giorni a chiara voce, e si terrà sempre copia esposta nel laboratorio».[52]
«Assistenti
1. L’assistente de’ laboratori è da’ superiori incaricato di vegliar sulla moralità, sul lavoro, e su tutto quello che può tornar vantaggioso allo stabilimento.
2. Si troverà per tempo nel laboratorio, noterà chi ritarda ad intervenire; e mancandovi alcuno ne darà avviso al prefetto o a qualche altro superiore per saperne il motivo e provvedere se ciò avvenisse per causa di malattia; ma per quanto può non uscirà dal laboratorio.
3. Dovendosi allontanare dal laboratorio per motivo di lavoro, provviste od altro ne darà avviso al capo d’arte. Qualora poi dovesse far provviste di oggetti di cui non avesse sufficiente cognizione condurrà seco il capo d’arte od altro individuo pratico dei prezzi e dei materiali che occorrono.
4. In fine di ogni settimana darà il suo parere su tutti gli individui dell’Oratorio ed avrà speciale riguardo alla diligenza nei lavori e al contegno nella moralità.
5. Metterà a registro ogni lavoro fatto nell’Oratorio, noterà se è pagato o non pagato; ma non farà cassa particolare. Consegnerà il denaro al prefetto, cui pure si indirizzerà qualora ne abbia bisogno.
6. Non si possono fare nei laboratori lavori di sorta senza il consenso del prefetto.
7. Questo regolamento sarà letto dall’assistente o dal Capo o da chi per lui ogni 15 giorni a chiara voce, e si terrà sempre copia esposta nel laboratorio».[53]
Accanto a tale linea operativa a favore di apprendisti e di giovani lavoratori Don Bosco dette impulso anche a progetti a favore di studenti (istituzione di un ginnasio e, in seguito, di altre scuole), giovani interni al centro di Valdocco (costruzione di alloggi), seminaristi, minori da accogliere e sostenere in collegi. Osservando, allora, l’intera dinamica salesiana, può essere utile sottolineare un punto: il dato che più emerge non è legato a una cronologia di iniziative, ma allo spirito del fondatore, così come si espresse in «quelle ore iniziali» ove non poteva esistere un programma totalmente realizzato. Tutto ciò trasmette un insegnamento per i tempi attuali: quella di Don Bosco è stata una vita in Dio che ha condotto «naturalmente» a una sintonia con i segni dei tempi, con le necessità del momento storico (travagliato), con i vissuti di quei progetti di vita in crescita (adolescenti e giovani) che, senza un aiuto, sarebbero rimasti dei cammini senza luce.
Ne derivano due considerazioni. Da una parte si può parlare di un «Don Bosco segreto». Segreto non vuol dire nascosto ma denso piuttosto di aspetti esistenziali che ancora oggi non conosciamo del tutto ma che – come insegna la stessa pubblicazione delle Lettere[54] – si vanno gradualmente acquisendo. In altri termini, dietro alle realizzazioni salesiane dei primi tempi esiste:
1. una rete di contatti (Don Cafasso, Don Guala, Don Borel, Monsignor Fransoni, Abate Rosmini, religiosi di varie congregazioni, laicato cattolico proveniente da tutti i ceti sociali, Vescovi, Beato Pio IX…),
2. un insieme di riflessioni personali (anni in famiglia, esperienze lavorative, studi in seminario, convitto ecclesiastico, esercizi spirituali…),
3. di tentativi (il Rifugio, locali trovati presso il cimitero di San Pietro in Vincoli, i Molini Dora, la casa Moretta, il prato dei fratelli Filippi…),
4. di insuccessi (per esempio il periodico «L’Amico della gioventù»),
5. di confronti di idee con altri fondatori (Don Guala, Giulia di Barolo, Don Cottolengo, Abate Rosmini…),
6. di osservazione di esperienze altrui (Don Cocchi, Don Murialdo, Don Cottolengo, Don Pestarino…),
7. di amarezze (incomprensioni con alcuni Vescovi, provvedimenti ecclesiastici, uscita volontaria di giovani dall’Oratorio, allontanamento di interni per motivi disciplinari, un tentato omicidio e aggressioni al fondatore, vertenze in tribunale…),
8. di condizionamenti (Michele Benso di Cavour, Monsignor Lorenzo Gastaldi, attacchi della stampa laicista…),
9. di gioie intense, talvolta improvvise (mamma Margherita, Don Calosso, Don Rua, Domenico Savio, fondazione della Società di San Francesco di Sales…),
che costituiscono quell’«humus» all’interno del quale l’intuizione diventa consapevolezza, la consapevolezza si fa sperimentazione, questa lascia il passo alla realizzazione, la realizzazione mostra un disegno compiuto.
Dall’altra parte, la presenza di Don Bosco in alcune iniziative legate al mondo del lavoro, e il suo desiderio di non separare i valori religiosi da quelli civili, non deve suggerire considerazioni insistenti su uno stile «paternalistico» e su un’impronta marcatamente «clericale». Al contrario, studiando le carte del tempo presso Istituzioni pubbliche e private (dall’Archivio di Stato alle Fondazioni Piemontesi), si comprende un dato essenziale: Don Bosco fu sempre «dietro» ai suoi protetti per un motivo chiaro. I ragazzi, in assenza di una figura «autorevole» a loro difesa, potevano essere oggetto di violenza e di esclusione, con morti premature. Far riferimento «a quel prete» di Valdocco significava, piuttosto, avere una garanzia: se il ragazzo era bastonato o cadeva a terra per scarsa alimentazione, un aiuto «sicuro» poteva arrivare da un sacerdote capace di affrontare prepotenti e sfruttatori. Non è quindi esatto parlare di «paternalismo» ma è storicamente corretto indicare piuttosto una «difesa sociale». In realtà, questo è solo un aspetto. Ne esiste un secondo. La religione per Don Bosco non fu espressione di un «clericalismo» soffocante, ma era (e lo è tuttora) un elemento-chiave in un disegno globale di promozione umana. Togliendo il riferimento al Dio della Vita e della Storia la fatica di ogni persona restava legata a un oggi segnato solo da angosce, da avversità, da vicende momentanee, da conquiste contingenti. Per questo motivo il fondatore, se da una parte si unì a quanti operavano per una tutela sociale (oratori, scuole, laboratori, officine, attività professionali sempre meglio organizzate, lavoro per tutti, atti di garanzia, protezione di chi subiva torti, aiuto verso chi era in carcere), dall’altra non ebbe timore a indicare nei percorsi spirituali una strada di affermazione della dignità umana. Per Don Bosco, non era quindi la potenza economica o la forza di una coalizione politica a «rendere forte» una collettività, ma lo era – al contrario – la capacità a camminare insieme in un disegno di vita. Tutto ciò poteva trasformare l’esperienza terrena in un valore, in un’esperienza significativa, in un dono, in un superamento di rapporti di forza. In tal senso la giustizia, per Don Bosco, non fu un qualcosa che nasceva dalla legge e che rimaneva tutelata solo da quest’ultima, ma era piuttosto uno stato di equilibrio, di armonia, di positiva convivenza, di rispetto reciproco, di attenzione all’altro, che derivava prima di tutto da un imperativo morale. Solo in caso di accentuato squilibrio si era costretti a percorrere la strada del diritto e quindi quella del conseguente intervento.
1 Nato a Castelnuovo d’Asti e morto a Torino, operò nella capitale del Regno di Sardegna e in diversi altri territori. Promotore di molte opere religiose, sociali e culturali, fondò le congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Venne canonizzato da Pio XI nel 1934. Al riguardo confronta: D. Agasso, San Giovanni Bosco, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005. P. Braido, Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, LAS, Roma 1987. Idem, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS, Roma 2002-2003. A. Giraudo-G. Biancardi, Qui è vissuto Don Bosco. Itinerari storico-geografici e spirituali, Elledici, Leumann 2004. A. J. Lenti, Don Bosco, edizione italiana e inglese, LAS, Roma 2010. P. Stella, Don Bosco, Il Mulino, Bologna 2001. Idem, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, tre volumi, LAS, Roma 1988.
2 Come ad esempio i combustibili fossili.
3 La spoletta volante o navetta lanciata (in inglese «flying shuttle») è un congegno inventato nel 1733 da John Kay (1704-1780) per consentire la tessitura automatica.
4 R. C. Allen, La rivoluzione industriale inglese. Una prospettiva globale, Il Mulino, Bologna 2011.
5 Con il termine «enclosures» ci si riferisce alla recinzione dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri avvenuta in Inghilterra tra il XVII ed il XIX secolo. Gli Enclosure Acts danneggiarono principalmente i contadini, che non potevano più usufruire dei benefici ricavati da quei terreni, a favore dei grandi proprietari: per le recinzioni era necessario sostenere spese di tipo privato ma anche legali, che scoraggiavano i piccoli proprietari.
6 L. Tomassini, L’associazionismo operaio: aspetti e problemi della diffusione del mutualismo nell’Italia liberale, in S. Musso, Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, in «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, XXXIII, 1997, Milano 1999, pagina 9.
7 12 gennaio (ha inizio la rivoluzione siciliana che porterà all’indipendenza dell’isola per sedici mesi). 11 febbraio (Ferdinando II promulga la Costituzione del Regno delle Due Sicilie; lo stesso avverrà successivamente in Toscana, nel Piemonte e nello Stato della Chiesa). 22 febbraio (Parigi: rivoluzione che porterà alla Seconda Repubblica). 13 marzo (rivoluzione anti-asburgica a Vienna). 15 marzo (Budapest: rivoluzione anti-asburgica in Ungheria). 15 marzo (Berlino: rivoluzione – poi fallita – nella Confederazione Tedesca). 17 marzo (inizio dei movimenti popolari a Venezia). 18-22 marzo (Cinque Giornate di Milano). 23 marzo (il Regno di Sardegna dichiara guerra all’Austria). 19 aprile (ha inizio la guerra della Prussia contro il Comitato Nazionale Polacco che lottava per l’indipendenza del proprio Paese).
8 In precedenza la libertà di associazione era stata limitata e ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima della Restaurazione.
9 L’«Associazione Internazionale dei Lavoratori», conosciuta anche come «Prima Internazionale, fu fondata a Londra il 28 settembre del 1864 durante un comizio di solidarietà con la Polonia oppressa. Si proponeva di realizzare un collegamento tra i gruppi operai dei vari Paesi. Fu approvato il programma elaborato da Karl Marx (1818-1883). Punti-chiave furono l’auto-emancipazione dei salariati, la collaborazione internazionale, la conquista del potere politico da parte del proletariato.
10 È la prima associazione di giovani impegnati che sorse nell’Oratorio San Francesco di Sales, a Valdocco, il 12 aprile del 1847.
11 Rerum Novarum («Delle Cose Nuove») è il titolo dell’enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1891 da Leone XIII (1878-1903) con la quale la Chiesa dettò il proprio orientamento in materia di questioni sociali, sviluppando una dottrina sociale cristiana. Al riguardo si rimanda a: Autori Vari, I tempi della «Rerum Novarum», Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Autori Vari, La «Rerum Novarum» e il movimento cattolico italiano, Morcelliana, Brescia 2000.
12 Il sistema di previdenza sociale.
13 Società di mutuo soccorso di alcuni individui della Compagnia di San Luigi eretta nell’Oratorio di San Francesco di Sales…, Tipografia Speirani e Ferrero, Torino 1850.
14 G. Bracco, Torino e Don Bosco, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 1989. U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale, Istituto per la Storia del Risorgimento, Torino 1988. D. Maldini, Pauperismo e mendicità a Torino nel periodo napoleonico, in «Studi Piemontesi», VIII, 1979, numero 1, pagine 50-64. J. M. Prellezo, Valdocco nell’Ottocento tra reale e ideale (1866-1889). Documenti e testimonianze, LAS, Roma 1992.
15 Al riguardo si rimanda a: J. M. Prellezo, Le scuole di arti e mestieri: l’origine della formazione professionale, in G. Rossi (a cura), «“Fare gli Italiani” con l’educazione. L’apporto di Don Bosco e dei Salesiani, in 150 anni di storia», CNOS-FAP – Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Roma 2011. Idem, Scuole Professionali Salesiane. Momenti della loro storia (1853-1953), CNOS-FAP – Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Roma 2010, pagine 11-28.
16 Per le ferie si faceva riferimento alla consuetudine.
17 Frase annotata a matita con grafia diversa.
18 Memorie Biografiche, volume 4, capitolo 25.
19 Il termine «minusiere», di origine francese, è da sempre, in Piemonte, sinonimo di falegname nel minuto, cioè di fino, in contrapposizione al mastro di «grosseria» ovvero il carpentiere.
20 «Convenzione tra il Signor Giuseppe Bertolino Mastro Minusiere, dimorante in Torino, ed il giovane Giuseppe Odasso natìo di Mondovì, con intervento del Reverendo Sacerdote Giovanni Bosco, e coll’assistenza e fidejussione del padre del detto giovane Vincenzo Odasso natìo di Garessio, domiciliato in questa capitale». Torino, 8 febbraio 1852. Archivio Generale della Congregazione Salesiana.
21 Gli artigiani, in quel periodo, erano chiamati anche «artisti».
22 G. Bosco, Memorie Biografiche, volume quarto, capitolo 56.
23 Idem, Memorie Biografiche, volume quarto, capitolo 56.
24 «L’Armonia», 9 novembre 1854.
25 Avviso stampato sulla copertina di C. Arvisenet, La guida della gioventù nelle vie della Salute, opera tradotta dal francese, (LC anno VI, fascicolo 7, settembre), Tipografia Salesiana Editore, Torino 1858.
26 L’opera pia Albergo di Virtù venne eretta dalla Compagnia di San Paolo nel 1580. Fine dell’istituzione fu il ricovero e l’istruzione professionale dei giovani poveri.
27 Il «Penitenziario industriale-agricolo detto della Generala» era un istituto correzionale per minori creato in base alla riforma carceraria del 1839, voluta da Re Carlo Alberto. Questo provvedimento, infatti, prevedeva la detenzione dei minorenni «discoli» in sezioni separate delle carceri o, di preferenza, in appositi istituti, al fine di evitare il contatto tra ragazzi e adulti, che rischiava di essere fortemente diseducativo. Il luogo prescelto fu la cascina detta della Generala, un’antica struttura agricola del XVII secolo situata a Mirafiori, che nei decenni precedenti aveva svolto la funzione di opificio, carcere femminile, ospedale per malattie infettive.
28 P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale…, opera citata, pagina 245.
29 Suocero di Costantino Nigra (1828-1907) e stretto amico di Camillo Benso di Cavour. Era stato prima seguace di Giuseppe Mazzini (1805-1872), si era poi avvicinato alle idee moderate e alla Monarchia Sabauda entrando nella Società Nazionale. Deputato al Parlamento nel 1860-1864.
30 Comune di Lanzo Torinese.
31 G. Vegezzi-Ruscalla, Della convenienza di erigere nell’eremo di Lanzo una scuola rurale di riforma pei giovani abbandonati, oziosi e vagabondi…, in «Calendario generale del Regno pel 1857», Appendice, pagina 31.
32 G. Bosco, Epistolario, volume primo, pagina 207, numero 172. In: G. Bosco, Epistolario, cinque volumi, introduzione, note critiche e storiche a cura di F. Motto, LAS, Roma 1992-2012.
33 Idem, Epistolario, opera citata, volume primo, pagina 211, numero 177.
34 Idem, Epistolario, opera citata, volume primo, pagina 465, numero 526.
35 Archivio Salesiano Centrale 126.2, Autorità, Prefetti, Pasolini.
36 Andrea Giardino aveva allora 26 anni. Era nato a Torino nel 1835, orfano di padre, era entrato nell’Oratorio l’11 dicembre del 1858 come artigiano ed era uscito nell’aprile del 1859. Non è nota la data di morte.
37 Don Bosco a Federico Oreglia, Torino, 21 gennaio 1868: «I tipografi sono senza lavoro; sempre si dimanda di lei…». In: G. Bosco, Epistolario, opera citata, volume secondo, pagine 487-489, numero 1142.
38 Su questo aspetto della vita di Don Bosco: P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale…, opera citata, pagina 247. Confronta anche: G. Dotta, Chiesa e mondo del lavoro in età liberale…, opera citata, pagina 63.
39 «Gazzetta del Popolo», anno 25, numero 292 del 19 ottobre 1872, pagine 4-5.
40 «Unità Cattolica», numero 246 del 20 ottobre 1872, pagina 3.
41 «Gazzetta del Popolo», anno 25, numero 294 del 21 ottobre 1872, pagina 2.
42 «Gazzetta del Popolo», anno 25, numero 296 del 23 ottobre 1872, pagina 4.
43 Il proto era il capo dei compositori.
44 G. Bosco, Lettera al presidente del Comitato per l’inchiesta industriale di Torino, posteriore al 21 ottobre 1872, manoscritto autografo di Don Bosco, Epistolario, opera citata, volume terzo, pagine 478-481, numero 1694.
45 Vincenzo Garelli a Don Bosco, Torino, 1° maggio 1870. Archivio Salesiano 7.011 Tipografia.
46 I magnani erano lavoratori che giravano nelle città e nei paesi. Il bagaglio di strumenti che portavano appresso era contenuto nella trida, una cassetta di legno, munita di coperchio e di una cinghia per poterla portare a spalla e comprendeva il martello per battere le lastre di rame, la mazzuola per togliere le ammaccature, le forbici per tagliare la lamiera, la ciodera, un attrezzo di ferro con buchi di diverso diametro, usato per confezionare i chiodi ricavati da pezzetti di rame, l’incudinella, piccola incudine d’acciaio fissata su un pezzo di legno, appoggiata per terra era tenuta tra le ginocchia, il polso, attrezzo di ferro, vagamente a forma di fungo, per ribattere i chiodi, la tenaglia, per mettere o togliere dal fuoco l’oggetto da riparare, il mantice, per ravvivare il fuoco necessario alle operazioni di saldatura e di stagnatura, oltre allo stagno, all’acido muriatico, all’ovatta e così via.
47 R. Luraghi, Agricoltura, industria e commercio in Piemonte dal 1848 al 1861, Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, Torino 1967, pagina 132 e seguenti.
48 Pietro Enria (1841-1898), coadiutore salesiano.
49 Memorie Biografiche, volume settimo, capitolo 12.
50 Y. Le Carrérés, Les colonies ou orphelinats agricoles tenus par les salésiens de Don Bosco en France de 1878 à 1914, in F. Motto (Ed.), Insediamenti e iniziative salesiane dopo Don Bosco. Saggi di storiografia, LAS, Roma 1996, pagine 137-144.
51 Le nostre azioni («Actiones nostras»): «Signore, previeni le nostre azioni con la Tua grazia, sostienile con il Tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera come ogni nostro lavoro trovi in Te il suo principio ed il suo compimento. Amen».
52 Archivio Salesiano Centrale, D483, manoscritto inedito allografo, con correzioni e aggiunte di Don Bosco.
53 Archivio Salesiano Centrale, D483, manoscritto di Don Bosco con aggiunte allografe, con correzioni ancora della mano di Don Bosco.
54 G. Bosco, Epistolario, opera citata. Il quinto volume è uscito nel novembre del 2012.
Guiducci P. L., Senza aggredire, senza indietreggiare. Don Bosco (1815-1888) e il mondo del lavoro. La difesa dei giovani, Elledici, Leumann (TO) 2013
Midali M. (a cura di), Don Bosco nella storia, LAS, Roma 1990
Motto F., Conoscere Don Bosco. Fonti, studi, bibliografia, CD-ROM, LAS Roma 2000
Stella P., Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), LAS, Roma 1980.