Islanda, l’ultima frontiera della storia
europea
La lontana isola europea nel corso degli
anni ha rivendicato il suo diritto alla libertà
Fra tutti i Paesi europei l’Islanda è senza dubbio quello che meno fa parlare di sé. In una posizione così defilata che spesso le definizioni di Europa dimenticano di includerla, è sempre rimasta ai margini dell’integrazione europea e non è stata in grado di sviluppare una industria turistica che le permettesse di farsi conoscere. Solo in tempi recentissimi, grazie alle ricerche delle industrie farmaceutiche nel campo della genetica, si è parlato del piccolo Paese sub-artico con maggior frequenza.
L'Islanda e la sua collocazione geografica
Da un punto di vista socio-culturale gli Islandesi, più che Europei, si considerano Scandinavi in senso stretto: infatti mantengono fortissimi legami con la comunità degli altri Stati nordici (con i quali condividono le radici della propria etnia, l’origine della lingua, le tradizioni e praticamente tutta la loro storia) e con questi Paesi hanno avviato da tempo progetti politici importanti come il «Nordic Council» o l’unione passaportuale; con il resto dell’Europa invece non hanno mai avuto rapporti di grande rilevanza, eccezion fatta per l’Inghilterra.
L’Islanda è un Paese assolutamente unico in Europa per molti motivi: è un Paese piuttosto esteso (circa centomila chilometri quadrati), ma abitato da appena 275.000 persone, con una densità che non ha simili nel resto del continente; circa la metà della popolazione vive nella zona della capitale, quindi il resto dell’isola è quasi disabitato. A causa del loro numero ridottissimo, spesso le statistiche perdono di valore ed è difficile scegliere dei dati oggettivi per tracciare un quadro esaustivo della società; comunque si può affermare con certezza che si tratta di un Paese ad altissima scolarizzazione, standard di vita elevati, ma dotatosi solo nel dopoguerra di una economia solida e prospera; potremmo dire che, come l’Italia seppure in tutt’altro contesto e condizioni, anche l’Islanda è stato uno dei miracoli della guerra fredda.
Paesaggisticamente è una terra selvaggia e bizzarra, una enorme distesa di lava coperta di muschi e licheni, ghiacciai, torrenti in enorme quantità e sorgenti di acqua calda quasi ovunque; la corrente del Golfo riesce a mitigare il clima, tanto che, statistiche alla mano, l’inverno di Zurigo o New York risulta ben più rigido. L’Islanda, spazzata dai venti, è priva di alberi ed oltre la metà del territorio è definito «wasteland»; le condizioni minime per l’esercizio dell’agricoltura sono oggi assicurate da modernissime serre, riscaldate dall’energia geotermica ed idroelettrica.
Dorsale medio-atlantica nel Sud dell'Islanda, presso il parco nazionale di Þingvellir
Ciò che rende unica in Europa la storia dell’Islanda è però la mancanza assoluta di qualunque tradizione militare: gli Islandesi non hanno mai partecipato attivamente ad alcuna guerra e sono privi di esercito.
Tutte queste caratteristiche culturali e politiche ovviamente hanno le loro ragioni storiche e non sarà inutile, per rendere più preciso il quadro, tracciare un breve riassunto dei passaggi fondamentali della storia islandese.
L’Islanda è uno dei pochi Paesi di cui si possono narrare le vicende «dall’inizio», essendo la colonizzazione evento assai recente nella storia. Il Vichingo Norvegese Ingolfur Arnason, tradizionalmente considerato il primo abitante dell’isola, vi si stabilì nell’874, con la sua famiglia ed il seguito di schiavi irlandesi, nella zona che chiamò Reykjavik (baia del fumo). Prima di Ingolfur l’Islanda era disabitata dagli uomini e dagli animali, solo alcuni uccelli marini componevano la fauna dell’isola.
Una statua rappresentante Ingolfur Arnason, Reykjavik (Islanda)
L’instaurazione delle prime fattorie ebbe successo, e dal 930 l’Islanda si considera stabilmente colonizzata; poche migliaia di persone, che vivevano soprattutto di allevamento e di pesca, in prossimità di sorgenti di acqua potabile e di acqua calda per le proprie attività. I capi e gli esponenti della nobiltà si radunavano periodicamente nella piana di Þingvellir, quaranta chilometri a Ovest di Reykjavik; da questi incontri, successivamente istituzionalizzati, ebbe vita l’Alþing, una sorta di parlamento, che fungeva anche da tribunale supremo e luogo di incontro di tutta la popolazione ad ogni estate. Ancor oggi il parlamento islandese si considera erede dell’Alþing, di cui ha mantenuto il nome, e viene fieramente considerato dagli Islandesi il più antico Parlamento in attività del mondo. Questo rudimentale assetto istituzionale fu la struttura portante dello Stato islandese durante i tre secoli a seguire: è il periodo d’oro della libertà e della letteratura, in cui vennero redatte le saghe per cui il Paese è tuttora noto. Questi scritti, con la loro storia, le loro leggende, tradizioni ed eroi, nonché l’idioma quasi immutato, rappresentano l’essenza dell’identità nazionale e del patrimonio culturale di una Nazione.
Þingvellir, antica sede dell'Alþing (Islanda)
A partire dal XIII secolo la situazione va complicandosi: la popolazione, sempre più dedita alle attività stanziali, vede declinare il proprio naviglio, con conseguente difficoltà di mantenere i contatti con le terre scandinave, e la dipendenza, per i trasporti e le rotte commerciali, da soggetti esterni. L’Alþing poi non riusciva a far fronte alle esigenze di una società più complessa in quanto, raccogliendo le funzioni legislative e giudiziarie, lasciava l’esecutivo ai singoli capi clan, che non organizzati in un sistema centralizzato, agivano perseguendo interessi particolari. Questi furono i motivi che portarono alla perdita dell’indipendenza ad opera della corona norvegese; nel «Patto di Fedeltà» del 1262, il Re Haakon IV Haakonson (1204-1263), oltre ad imporre la propria autorità sull’isola, molto significativamente dava garanzia che almeno sei navi sarebbero salpate dalla Norvegia per l’Islanda ogni anno. Da questo momento le sorti degli Islandesi saranno quindi sempre legate a chi esercita il predominio sui mari del Nord Atlantico.
Nel 1380, quando Norvegia e Danimarca saranno riunite sotto la Corona Danese, anche l’Islanda passò a quest’ultima.
Durante il XIV-XV secolo navi della lega hanseatica e inglesi cominciarono a frequentare le pescosissime acque del Nord Atlantico; lo sfruttamento del mare diviene, e rimarrà sempre, la prima fonte di approvvigionamento, anche se gli stranieri si mostreranno dediti tanto al semplice commercio come alla pirateria.
Tra il XV ed il XVI secolo i pirati che giungevano in Islanda non trovavano resistenza in mare, mentre sulla terraferma gli Islandesi si dimostrarono i validi eredi delle tradizioni vichinghe. Le cronache del 1431 riportano la notizia di una sanguinosa battaglia fra pirati inglesi e Islandesi a Skagafjordur, dove ottanta pirati vennero uccisi. Non sembrano certo cifre paragonabili agli scontri degli eserciti europei sul continente, ma questo episodio diviene significativo alla luce di quanto diremo tra breve.
Curiosamente, una delle prime mappe geografiche del Paese che si conoscono risulta ad opera del cartografo veneziano Benedetto Bordone: una piccola mappa di 7,4 per 14,6 centimetri raccolta nell’Isolario, trattato geografico del 1547. È un disegno molto semplice, con l’effigie di piccole torri in luogo delle città senza nome, recante la scritta «Islanda».
Durante il XVI secolo gli Islandesi subirono una pesante umiliazione che modificò radicalmente la società per tutta la storia successiva: vennero disarmati e persero la loro forza militare. A grandi linee gli eventi si svolsero in questi termini: i Danesi cominciarono a sottoporre i commerci dei locali con Britannici e Tedeschi ad un rigido monopolio, attraverso il quale conseguire il massimo profitto; gli Islandesi si mostrarono assai reticenti nell’eseguire questo tipo di ordini e la Corona agì d’astuzia: anziché mandare un forte contingente militare per sedare le rivolte ed imporre il proprio volere con la forza, optò per la confisca di tutte le armi. Nessun Islandese poteva possederne e a partire dal 1570 essi vennero materialmente disarmati, nonostante gli appelli contro le imprevedibili conseguenze di questa politica che si alzavano da più parti.
Pochi episodi ci fanno capire come nel giro di qualche anno questa decisione andava lasciando segni indelebili. Stando ad alcune cronache del 1578, al largo delle coste occidentali apparve una nave pirata con una settantina di uomini a bordo. Furono in grado di attaccare e di terrorizzare larga parte della popolazione senza incontrare alcuna resistenza per settimane. Nel 1627 due imbarcazioni provenienti dal Nord Africa saccheggiarono diversi villaggi, specie nelle isole Vestmann, al largo della costa meridionale; anche stavolta i locali non poterono esercitare che una minima resistenza; i razziatori agirono indisturbati, rapinando ed uccidendo circa quattrocento persone.
Con l’ascesa della potenza inglese vi fu una maggiore stabilità nel Nord Atlantico, e l’Islanda non fu più vittima della pirateria. I Danesi comunque protrassero a lungo la politica monopolistica, aggravando le condizioni di vita della popolazione, già messe a dura prova dal clima e dall’isolamento; si stima che durante il diciottesimo secolo la popolazione fosse ridotta ad appena trentacinquemila-cinquantamila abitanti, e si toccò probabilmente il punto più basso degli standard di vita del Paese. Nel 1800 il Re danese Cristiano VII (1766-1808) giunse a togliere qualunque autorità all’Alþing, ormai l’unico simbolo della tradizione.
Pochi anni dopo la situazione si aggravò ulteriormente. Nel 1807 gli Inglesi, temendo un appoggio della marina danese all’esercito di Napoleone, attaccarono Copenaghen e sedici battelli diretti in Islanda vennero requisiti e portati in Inghilterra. Ciò che sembrava un piccolo episodio di guerra rischiava di essere la pietra tombale di un intero popolo; gli Islandesi sarebbero presto stati isolati e vittime di una brutale carestia se non avessero goduto dell’appoggio di un influente inglese, sir Joseph Banks; costui persuase il governo a rilasciare i battelli diretti in Islanda e a concedere a questa, sebbene parte della Corona Danese, lo status di neutralità.
Durante l’estate del 1809 navi da guerra inglesi giunsero in Islanda. Il Paese era totalmente sguarnito, e la Royal Navy avrebbe potuto facilmente incorporarlo all’Impero Britannico. Nel rapporto del capitano Francis Knott dell’HMS Rover egli avanzava seri dubbi sull’opportunità di questa azione: le condizioni di vita e le difficoltà cui la popolazione era soggetta, faceva temere che inglobare questi territori avrebbe portato alla corona più spese che profitti; comunque, concludeva sicuro, anche la più piccola nave inglese lo avrebbe potuto fare in qualsiasi momento.
In questo scenario visse l’avventuriero e faccendiere di origini danesi Jørgen Jørgensen (1780-1841); imbarcato su un mercantile del Londinese Samuel Phelps, arrivò a Reykjavik il 21 giugno 1809. Al rifiuto delle autorità danesi di concedere l’autorizzazione a commerciare con la popolazione, i suoi uomini arrestarono gli ufficiali danesi ed occuparono la capitale, mentre Jørgensen si proclamava «lord protettore della Nazione». Dando l’impressione di agire sotto l’egida inglese, il novello Cromwell dichiarò l’Islanda indipendente e neutrale, comportandosi come se ne fosse divenuto il Re. Il mese successivo il capitano Alexander Jones della HMS Talbot attraccò al porto di Reykjavik e rimosse quest’impostore.
Christoffer Wilhelm Eckersberg, Ritratto di Jørgen Jørgensen, 1808
L’episodio di Jørgensen, al limite del grottesco, comunque ripropone la difficile situazione dell’isola, completamente disarmata e in una posizione assai precaria per la propria sicurezza; nel febbraio del 1810 l’Islanda ottenne anche dalla Danimarca lo status di territorio neutrale (ciò non aveva alcuna implicazione di indipendenza, ma si riconosceva semplicemente che l’Islanda non voleva, né avrebbe potuto avere, un ruolo attivo in nessun conflitto).
Il XIX secolo fu il periodo del nazionalismo, quando cominciò la lotta non violenta per l’indipendenza vera e propria; inizialmente le posizioni espresse dalla ricca borghesia erano molto moderate, mirando non tanto ad una separazione netta dalla Corona, quanto piuttosto alla libertà di commercio e al controllo sugli affari locali. Non mancavano illustri esponenti che si sarebbero battuti per una completa indipendenza, ma a lasciare perplessi i più era proprio la debolezza militare dell’isola, che senza la protezione di una grande potenza sarebbe stata in balia degli eventi.
Già a partire dal 1843, con decreto del Re Cristiano VIII (1839-1848), l’Alþing era tornato ad esercitare le proprie funzioni, seppure come organo consultivo. Si aprì quindi una stagione di riforme in cui la Danimarca si impegnava a passare progressivamente nelle mani islandesi la maggior parte delle funzioni istituzionali e politiche via via che questi si dotavano delle strutture necessarie ad esercitarle. Nel 1903 le funzioni del governatore danese vennero assunte dal Primo Ministro Islandese e, nello stesso ambito, venne inoltre stabilito che la Corte Suprema Danese avrebbe continuato nel suo ruolo di ultimo grado di giudizio solo fintanto che gli Islandesi non si fossero dotati di un organismo autonomo (cosa che avvenne nel 1920). La Danimarca si impegnava a garantire la salvaguardia delle acque territoriali finché non fosse stata varata una guardia costiera nazionale. Gli affari internazionali dell’Islanda invece continuarono ad essere gestiti da Copenaghen, con la partecipazione di delegati.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale gli Islandesi godevano ancora dello status di neutralità acquisito un secolo prima, ma un prestigioso esponente dell’Alþingh, Guðmundur Björnson, sollevò con forza il problema dell’efficacia di questa condizione: «Crediamo davvero che l’assenza di difesa sia la miglior difesa? L’unica protezione del Lussemburgo fu l’assenza di difesa. La Germania e le altre potenze garantirono la sua sicurezza e il rispetto della sua neutralità, ma ora i dispacci ci dicono che la Germania ha incorporato il Lussemburgo nel Reich come Stato indipendente. […]. Chi garantisce per l’Islanda? Nessuno».
I timori di Guðmundur erano senza dubbio giustificati, eppure non solo l’Islanda rimase fuori dal conflitto, ma ne ebbe un vantaggio indiretto: nel maggio 1918, il Primo Ministro Danese annunciò l’istituzione di una commissione che avrebbe negoziato il futuro dell’isola, e che porterà allo storico «Atto d’Unione».
La Grande Guerra fu l’elemento che accelerò un processo di indipendenza già avviato da tempo, ed i Danesi, scossi dalle sorti dei propri compatrioti nello Schleswig-Holstein tedesco, non potevano rimanere insensibili alla causa della libertà nazionale.
I negoziati si aprirono in luglio e dopo poche settimane l’accordo era pronto, approvato dall’Alþing per trentasette voti favorevoli e due contrari e ratificato da un plebiscito popolare.
La solerzia con cui i lavori vennero conclusi non deve però ingannarci sulla difficoltà del negoziato. La fretta degli Islandesi nel chiudere il negoziato poteva ben spiegarsi con il timore che, a guerra ancora in corso, la questione dell’indipendenza potesse finire sul tavolo delle trattative fra le grandi potenze; la delegazione danese propose una federazione fra i due Stati, mantenendo quindi la gestione comune di alcuni campi. Gli Islandesi invece erano fermi sulla netta separazione. L’articolo diciannove dell’«Atto d’Unione» alla fine stabilì che la Danimarca riconosceva l’Islanda come Stato Sovrano, e questa si impegnava a garantire neutralità perpetua e a non istituire alcun vessillo di guerra.
I due parlamentari che votarono contro la ratifica furono l’editore Benedikt Sveinsson ed il giudice Magnus Þòrfason. Attraverso le trascrizioni delle sedute parlamentari (Alþingìstiðindi) dell’epoca si capisce come la loro dissidenza non fu basata sulla questione dell’indipendenza di per se stessa, ma su una neutralità che poteva facilmente tramutarsi in lettera morta: «Questo atto non ci difende, se una nazione belligerante ha intenzione di occupare il nostro territorio, lo farà senza alcuna considerazione di un accordo fra noi e i Danesi».
Il dibattito fu vivace anche in sede extra-parlamentare. Il giurista Magnus Arnbjarnarson, prendendo spunto da alcuni commenti dell’allora Primo Ministro Sigurður Eggerz (che pure aveva votato favorevolmente), pubblicò un pamphlet in cui polemicamente ricordava le sorti del Belgio e della Grecia, la cui neutralità era stata tenuta in nessun conto.
Sigurður Eggerz nel 1914
Il giornale «Njördur», pubblicato regolarmente ad Isafjordur (fiordi Nord-Occidentali), nell’editoriale del 18 ottobre 1918 scrive: «Non c’è motivo di credere che gli Inglesi vogliano invadere l’Islanda, ma se lo volessero l’“Atto d’Unione” non può certo prevenirlo».
Alla fine, il 1° dicembre del 1918, lo stesso Eggerz poté annunciare alla folla il regio decreto che istituiva la bandiera nazionale islandese, e la firma dell’«Atto d’Unione» tra la Danimarca e l’Islanda; quest’ultima, seppure rimanendo formalmente associata alla corona danese, guadagnava lo status di nazione indipendente, sovrana ed eternamente neutrale. Dopo un periodo di venticinque anni entrambe le parti avrebbero potuto chiedere unilateralmente lo scioglimento dell’unione.
A questo punto il processo d’indipendenza poteva dirsi concluso perché nessuno dubitava che allo scadere dei venticinque anni i due Paesi si sarebbero definitivamente divisi. Le relazioni con i Danesi rimasero buone ed amichevoli, mentre durante tutti gli anni Venti gli Islandesi si affacciarono molto raramente al contesto internazionale. Raggiunto l’obiettivo dell’indipendenza i partiti si volsero ai problemi interni, per rinsaldare una economia debole e creare quelle infrastrutture di cui il Paese era pressoché privo.
In questi anni venne anche sollevata la questione di una partecipazione alla Società delle Nazioni. Ovviamente un passo del genere sarebbe stato prematuro, anche perché l’Islanda non aveva un esercito, né aveva intenzione di istituirlo (come fece, ad esempio, il Lussemburgo), quindi il tutto si risolse con un nulla di fatto.
Si potrebbe dire che il coinvolgimento dell’Islanda nelle relazioni internazionali e nella storia del mondo occidentale comincia solo quando decade la condizione di periferia che da sempre aveva segnato l’isolamento del popolo islandese.
Ad operare questo cambiamento furono due ordini di motivi, l’uno politico, l’altro tecnologico. Il primo si espresse nella crescente interazione fra Europa e Stati Uniti d’America, che rese le rotte atlantiche delle vie di comunicazione importantissime (che come è noto diventeranno, da un punto di vista militare, addirittura irrinunciabili). L’Islanda si trova a fiancheggiare fisicamente questi canali, e quindi il fattore geografico, che prima aveva relegato il Paese ai margini della storia, ne faceva un punto di importanza strategica. Da quella posizione l’isola inoltre poteva rappresentare una sorta di cancello al Nord Atlantico per il traffico in circolazione fra Oceano Artico, Mare di Barents e Mare del Nord.
A rendere davvero incisivi questi cambiamenti di natura geopolitica vanno segnalati i progressi tecnologici: mezzi di trasporto sempre più efficienti ed affidabili e, soprattutto, l’aviazione andavano riducendo le distanze fra i continenti.
In questo nuovo contesto tutto sarebbe mutato, e la neutralità che gli Islandesi avrebbero voluto «perpetua», durò appena ventidue anni: «Chiunque abbia l’Islanda, tiene una pistola puntata su Inghilterra, America e Canada».
Ben si esprime in questa frase, attribuita erroneamente a Winston Churchill, quanto stava accadendo: in tempo di guerra non solo vi fu l’occupazione dell’Islanda durante la Seconda Guerra Mondiale da parte di truppe alleate, ma vi fu un suo inserimento nel sistema difensivo del Nord Atlantico per tutto il periodo della guerra fredda fino ai giorni nostri.