La Grande Italia calcistica degli anni Trenta
Dal 1927 al 1938 la Nazionale Italiana di
calcio visse un periodo d’oro, con numeri da record
Non esiste, in Italia, uno sport tanto popolare quanto il calcio: gli Italiani, lo si è detto spesso, fanno poco sport (anche se negli ultimi anni sembra fortunatamente che si stia cambiando tendenza), ma tutti lo seguono, ed ognuno ha la sua formula particolare per rendere imbattibile la propria squadra del cuore… si potrebbe dire che nella Penisola vi siano più «consiglieri tecnici» che giocatori.
Gli anni che vanno dal 1927 al 1938 rappresentano l’«età d’oro» del calcio italiano: la nostra Nazionale vinse due Coppe Internazionali, un oro olimpico e due Coppe del Mondo (le cosiddette Coppe Rimet). Anzi, l’Italia inaugurerà con la vittoria nella terza Coppa Internazionale (1935) una serie record: trenta partite senza sconfitte che la vedranno imbattuta su tutti i campi per oltre quattro anni.
Probabilmente non è casuale che una simile stagione sia fiorita sotto il regime fascista: a differenza di oggi, dove l’educazione fisica è considerata una materia di second’ordine, il fascismo aveva dato grande impulso a tutte le espressioni e manifestazioni ginniche. Inquadrati in quelle formazioni giovanili con cui il Regime intendeva plasmare il carattere dei nuovi Italiani, fin da piccoli maschi e femmine si esibivano in esercizi ginnici intrecciando complesse coreografie con l’aiuto di aste di giunco flessibile, cerchi, clavette di legno, dando vita a spettacoli di quella che più tardi sarebbe stata definita «ginnastica artistica»; per irrobustire i bambini più deboli, gracili e malaticci, erano state istituite colonie idroterapiche sul greto sassoso dei fiumi e sulle assolate spiagge bagnate dal mare. Grande impulso era stato dato alla sanità e ad una migliore alimentazione. Che di tutto questo ne beneficiasse anche lo sport, è cosa ovvia!
La prima Coppa Internazionale (quella che più tardi sarebbe stata sostituita dal Campionato Europeo per Nazioni organizzato direttamente dalla federazione continentale) si svolse dal 18 settembre 1927 all’11 maggio 1930: vi parteciparono quelle che erano considerate le più forti squadre d’Europa, Italia, Austria, Cecoslovacchia ed Ungheria, a cui si associò anche la Svizzera; all’appello mancavano gli Inglesi, che si ostinavano a non partecipare ad alcuna competizione ufficiale, ad eccezione del tradizionale «Home championship» che li vedeva contrapposti alle altre Nazionali Britanniche. La formula, che rimase immutata nelle edizioni successive, prevedeva la disputa di un doppio girone all’italiana: ciascuna delle squadre nazionali si incontrava due volte con le altre, disputando con ciascuna squadra una partita in casa ed una in trasferta. Il calendario degli incontri non era rigidamente prefissato né organizzato in «giornate», dipendendo piuttosto dalle disponibilità delle varie federazioni ad organizzare ogni singolo incontro. La vincente di ogni partita totalizzava due punti, mentre il pareggio dava luogo alla spartizione della posta. Risultava vincitrice del trofeo la squadra che al termine del doppio ciclo di incontri possedeva più punti in classifica. Il calcio cosiddetto «danubiano», fondato sul dinamismo dei ruoli e sul possesso di palla, era additato come esempio di stile e di eleganza, anche se sarebbe stato quello italiano, forse più utilitaristico, a mietere i maggiori allori planetari.
L’Italia giocò la sua prima partita il 23 ottobre a Praga con i Cecoslovacchi, ottenendo un pareggio per 2-2, mentre il 6 novembre a Bologna fu sconfitta per 1-0 dall’Austria (che in precedenza era stata battuta sia dalla Cecoslovacchia che dall’Ungheria); gli Austriaci ebbero anche il coraggio di lamentarsi dell’arbitraggio, secondo loro non completamente imparziale. L’anno successivo l’Italia si riscattò battendo in casa prima la Svizzera (3-2) e poi l’Ungheria (4-3). Allenati poi dal nuovo commissario tecnico Vittorio Pozzo, gli Azzurri batterono la Svizzera (con un altro 3-2) e, nel 1929, la Cecoslovacchia (4-2). A Vienna, però, il 7 aprile subirono un pesantissimo 3-0. Alla fine dell’anno, la Svizzera si trovava all’ultimo posto, dopo aver perso tutte le otto partite disputate; Austriaci e Cecoslovacchi si trovavano appaiati con dieci punti alla testa del torneo, seguiti da Italia e Ungheria con nove.
Proprio tra Italia ed Ungheria si disputò, l’11 maggio 1930 a Budapest, la partita risolutiva. Prima di quell’ultimo incontro, Vittorio Pozzo portò i suoi giocatori a visitare i teatri di battaglia della Prima Guerra Mondiale: si trattava di battere nuovamente, e in un colpo solo, le due Nazioni eredi dell’Impero Austro-Ungarico, nemico nel passato conflitto in cui Pozzo e molti dei suoi atleti avevano combattuto come soldati. La partita terminò con un nettissimo 5-0 per gli Azzurri e sancì la vittoria italiana nella prima edizione della Coppa Internazionale. Il premio per i vincitori, una particolare coppa in cristallo di Boemia donata dall’ex Primo Ministro Cecoslovacco Antonín Švehla, si ruppe cadendo a terra poco dopo la vittoria, ma Pozzo ne conservò sempre una scheggia in tasca come portafortuna personale.
La prima Coppa Internazionale ebbe un enorme successo e ne fu subito organizzata una seconda edizione, disputata nel biennio 1931-1932, nella quale il Wunderteam austriaco rese la pariglia all’Italia vincendo il torneo e relegando gli Azzurri – che pure avevano iniziato a Milano con una bella vittoria proprio contro l’Austria – al secondo posto.
Dal 1933 al 1935 l’Italia di Pozzo fu impegnata nella terza Coppa Internazionale. Il 2 aprile 1933, una netta vittoria in casa degli Elvetici per 3-0 rilanciò le nostre quotazioni sulla vittoria finale. Per la prima volta in una gara ufficiale, Pozzo aveva schierato Meazza nel nuovo e decisivo ruolo di mezzala destra in coppia con Giovanni Ferrari. All’idolo dell’Ambrosiana-Inter il ruolo di coordinatore, mentre Ferrari continuava a costruire le trame di gioco a metà campo. Al centro dell’attacco il collaudato Schiavio. La nuova predisposizione tattica risulterà decisiva con una doppietta di Schiavio e la terza rete di Meazza.
Il 7 maggio per la prima volta la nostra Nazionale giocò nello stadio di Firenze «Giovanni Berta» contro la forte Cecoslovacchia. Meazza era assente per un serio infortunio alla caviglia, e al suo posto giocava Serantoni. La partita si decise nell’arco di soli tre minuti: al 41° passammo in vantaggio con Ferrari e poi al 44° Schiavio realizzò il bis con una grande azione personale. I nostri avversari, oltretutto, persero una pedina importante rimanendo in dieci a causa dell’infortunio del difensore Hess.
In terra magiara, il 22 ottobre, terza vittoria consecutiva in Coppa Internazionale: ancora senza Meazza, Vittorio Pozzo propose al centro dell’attacco Cesarini e il debuttante Felice Placido Borel (segnalato come Borel II negli almanacchi calcistici) – erano ben nove i giocatori della Juventus. La rete della vittoria fu proprio del giovane Borel.
Quarta partita, con la Svizzera a Firenze, e il ritorno di Giuseppe Meazza. Passati all’8° minuto in vantaggio con Ferrari, che concluse in rete un’azione ispirata da Borel, Meazza e Guarisi, gli Elvetici pareggiarono con Bossi su azione di calcio d’angolo, e poi con Kielholz riuscirono addirittura a portarsi in vantaggio. Pochi minuti dopo, sbagliarono una facile azione con Laude. Sul finire del primo tempo, Pizzaiolo pareggiò grazie ad un astuto passaggio di Meazza. La ripresa fu nettamente azzurra: al 4° minuto Orsi ci portò in vantaggio, e sei minuti dopo Meazza riprese e realizzò una sfortuna respinta del portiere Huber su tiro di Caligaris. Al 21° Monti mandò la palla in fondo alla rete con un forte tiro dalla distanza, chiudendo definitivamente l’incontro con un bel 5-2.
Domenica 11 febbraio 1934, a Torino giocammo con l’Austria la nostra quinta gara. Il commissario tecnico del Wunderteam, Hugo Meisl, inserì nella Nazionale transalpina ben quattro debuttanti, giovani calciatori pronti a dare dinamicità alla manovra austriaca e a mettere in crisi la Nazionale Italiana, una squadra tattica ma lenta nel gioco. La scelta si rivelò azzeccata: solo nel primo tempo l’Italia subì tre reti, una dopo l’altra; al 3° minuto della ripresa Guaita accorciò le distanze e dopo due minuti girò in rete un passaggio di Monti, dopo una lunga corsa sulla fascia. Il gol del pareggio arrivò al 7° minuto, grazie a Ferrari, ma venne annullato per fuorigioco. Approfittando della delusione degli Azzurri, gli Austriaci portarono a quattro le loro reti con Zischek. Con questa sconfitta si interruppe una serie di otto risultati positivi (sette vittorie e lo storico pareggio con l’Inghilterra per 1-1). Pozzo giustificò alla stampa la dura sconfitta motivandola per le preziose assenze, confermando fiducia a tutta la squadra, ma i terzini della Juventus Rosetta e Caligaris, non giocheranno più insieme.
Il 24 marzo dell’anno successivo, a Vienna, le difficoltà si presentavano pesanti: erano ben quattro gli infortunati, Meazza a causa di uno stiramento in allenamento tre giorni prima, Guaita, Monti e Ferraris II; Orsi e Bertolini non erano nelle migliori condizioni. Debuttò Silvio Piola, che non era neanche stato convocato da Pozzo. Il primo tempo fu caratterizzato da una serie di attacchi austriaci, tutti neutralizzati dalla difesa italiana. Nella ripresa, la squadra di Pozzo continuò a fermare le azioni offensive avversarie diventando nel contempo sempre più pericolosa in attacco. Al 6° minuto triangolazione Faccio-De Maria-Ferrari e toccò a Piola realizzare con un tiro al volo da oltre venti metri. Mezz’ora dopo, Mascheroni lanciò per Piola, che arrivò fino alla porta di Platzer anticipandolo in uscita ed infilando di sinistro. L’Italia si era presa la rivincita proprio in casa dell’avversario, e con un netto 2-0. Ora era l’Ambrosiana-Inter la squadra cardine della Nazionale: erano ben cinque i giocatori della formazione milanese.
A Praga, il 27 ottobre del 1935, un’altra difficile trasferta: quella contro la Cecoslovacchia. In un campo reso fangoso dalla recente pioggia, Pozzo adottò la tattica di contenimento applicata contro l’Austria, schierando una squadra priva di giocatori della Juventus. Dopo un primo tempo terminato a reti inviolate, nella ripresa Horak sfuggì al controllo di Pitto scivolato per una pozza di fango e realizzò il gol del vantaggio. Lo stesso Pitto si fece perdonare lo svarione pareggiando al 31° minuto, ma quattro minuti dopo gli Slavi realizzarono la rete della vittoria sempre con Horak, che sfruttò un errore di Allemandi.
A Milano, il 24 novembre 1935, ultima e decisiva partita con l’Ungheria. Le cose si volsero subito al peggio: al 15° minuto Meazza subì un infortunio e, al 43°, gli Ungheresi passarono in vantaggio con Sarosi I, che girò a rete un calcio d’angolo tirato ad effetto da Titkos. Pozzo aveva fatto esordire un giovanissimo attaccante dell’Ambrosiana-Inter, il ventunenne Roberto Porta, che nella ripresa in sessanta secondi fornì due assist, uno per Colaussi (che fu bravo a mettere in rete) e uno per Ferrari che con un tiro potente da oltre venti metri batté nuovamente Szabo. (Nonostante le sue buone giocate, Porta non avrà comunque un futuro in Nazionale: questa sarà la sua prima ed unica presenza). Ma non era ancora finita, gli Ungheresi volevano vincere a tutti i costi: al 70° Sarosi I realizzò la sua personale doppietta pareggiando le sorti dell’incontro. Il risultato ci bastò comunque per vincere la nostra seconda Coppa Internazionale, staccando di due punti sia l’Austria che l’Ungheria, ed iniziando una serie record (trenta partite senza sconfitte) che ci vedrà imbattuti su tutti i campi per oltre quattro anni.
Nel 1928 la nostra Nazionale partecipò al torneo di calcio della IX Olimpiade, che si svolse dal 27 maggio al 13 giugno ad Amsterdam in un clima abbastanza tranquillo: gli echi di guerra erano ancora lontani, la Germania era una democrazia e l’economia non aveva conosciuto le difficoltà che sarebbero conseguite al «Martedì nero» (il giorno del crollo della borsa valori avvenuto il 29 ottobre 1929 a New York, sede del mercato finanziario più importante per volume degli Stati Uniti, che diede inizio alla «Grande depressione», una delle più gravi crisi economiche della storia del mondo industrializzato). Nonostante alcuni problemi di organizzazione (la costruzione del villaggio olimpico non venne terminata in tempo, l’Italia si arrangiò alloggiando in un piroscafo), l’edizione riscosse un buon successo di critica e pubblico: per la prima volta, le donne vennero ammesse alle gare di atletica leggera. La prestazione dell’Italia, che con le sue 19 medaglie (7 d’oro, 5 d’argento e 7 di bronzo) si piazzò al quinto posto – dopo Stati Uniti d’America, Germania, Finlandia e Svezia – non soddisfece appieno Benito Mussolini, che perciò estromise Lando Ferretti dalla carica di presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Sul piano calcistico, l’Italia si piazzò al terzo posto cedendo solo all’Uruguay (vincitore del torneo) e condannando al quarto posto l’Egitto con un’autentica goleada: 11-3.
Nel 1932 le Olimpiadi si svolsero a Los Angeles: vennero costruiti diversi luoghi, come il velodromo, altri vennero notevolmente ampliati, come il Los Angeles Memorial Coliseum, il gigantesco stadio da 105.000 posti che all’epoca fu lo stadio più grande ad avere mai ospitato un’Olimpiade. Il villaggio olimpico era costituito da 550 casette in legno di colore bianco e rosa, immerse nel verde e con una stupenda vista sull’Oceano Pacifico (solo per gli uomini: alle donne era riservato un albergo); inoltre vi erano dodici campi da tennis e dodici piscine.
La nostra Nazionale di calcio non partecipò… semplicemente perché il calcio verrà escluso dalle discipline. Nel medagliere, l’Italia occupò la seconda posizione, dietro gli Stati Uniti d’America, con un totale di 36 medaglie egualmente distribuite tra oro, argento e bronzo. Il successo della spedizione italiana fu causato da alcuni fattori, tra i quali il nuovo costume del regime fascista che previde di mantenere a spese dello Stato gli atleti emergenti per consentire loro di allenarsi a tempo pieno senza preoccupazioni economiche: nonostante risultassero impiegati in vari enti, in realtà il loro compito era, fondamentalmente, quello di prepararsi alle gare (in seguito altre Nazioni, come la Germania hitleriana e l’Unione Sovietica, seguiranno la prassi del «dilettantismo di Stato»).
Nel 1936 fu Berlino ad ospitare i giochi olimpici, reintroducendo il calcio. Adolf Hitler volle che le Olimpiadi colpissero il mondo con forza, come strumento eccezionale di propaganda. L’organizzazione e gli impianti furono in effetti monumentali: l’Olympiastadion, che poteva contenere più di 100.000 spettatori, venne realizzato in materiali pregiati con una struttura dalle forme classiche di memoria greco-romana e accanto fu eretto un enorme campo di parata dove potevano riunirsi circa 500.000 persone; la piscina fu ampliata e il villaggio olimpico maschile era formato da tante pittoresche villette e altrettanti campi di allenamento (le donne risiedevano invece vicino allo stadio in un complesso detto «Casa della pace»). Ma la scena la rubò tutta Jesse Owens, al secolo James Cleveland, ventitreenne freccia d’ebano dell’Alabama, che vinse l’oro nei 100 metri, nei 200 metri, nel salto in lungo e nella staffetta 4x100, in barba alle teorie teutoniche che propugnavano la superiorità della razza ariana (è invece una leggenda priva di fondamento, come dichiarato dallo stesso Owens, il rifiuto di Hitler di riconoscerne le vittorie: anzi, mentre l’atleta statunitense passava sotto la tribuna d’onore venne salutato da Hitler con un gesto della mano, al quale egli rispose). Nel medagliere l’Italia si piazzò al quarto posto dopo Germania, Stati Uniti d’America ed Ungheria, con 22 medaglie (8 d’oro, 9 d’argento e 5 di bronzo). Una delle medaglie d’oro era quella conquistata nel calcio!
In realtà il trionfo della nostra Nazionale, allenata sempre da Vittorio Pozzo, fu inatteso: egli aveva convocato giocatori iscritti ufficialmente all’Università (Foni, Negro, Scarabello, Bertoni e Frossi in seguito conseguiranno il dottorato) oppure Istituti Superiori; non c’erano figure di primissimo piano, i calciatori erano tutti esordienti e con scarsa esperienza. Gli stipendi dei giocatori venivano definiti «assegni di studio», per mantenere lo spirito dilettantistico: non si giocava per lucro, ma per diporto. Si trattava comunque sempre di atleti lautamente ricompensati, come Foni e Rava, che negli anni a venire saranno i grandi terzini della Juventus.
La partenza fu sotto tono, con una vittoria risicata (1-0) contro i mediocri Stati Uniti in una gara che prevedeva l’eliminazione diretta e che quindi creò apprensione per tutti i 90 minuti di gioco.
Pozzo strigliò i suoi e nella partita successiva il Giappone, che pure aveva sconfitto la ben quotata Svezia, si prese una grandinata di colpi (nell’ordine, tre reti di Frossi, quattro di Biagi ed una di Cappelli).
In semifinale, davanti ai 90.000 spettatori dell’Olympiastadion, l’Italia ebbe la meglio per 2-1 sulla favorita Norvegia, che aveva estromesso la Germania padrona di casa. L’incontro sul campo fu duro, e l’Italia fu costretta a chiudersi in difesa negli ultimi minuti. Una battaglia fisica, ma non c’era astio tra le due antagoniste: il giorno dopo Pozzo offrì un passaggio sul proprio pullman agli Scandinavi, che lo accettarono volentieri, nonostante i timori della polizia tedesca sulla possibilità dello scoppio di una rissa (timori rivelatisi infondati).
L’ultimo atto, il 15 agosto, fu con la grande avversaria di sempre, l’Austria. In realtà, la squadra centroeuropea era stata sconfitta nei quarti di finale dal Perù, per 4-2. Ma per festeggiare la vittoria della loro squadra, alcuni tifosi sudamericani avevano invaso il campo; invasione pacifica, certo, tuttavia sufficiente per spingere gli organizzatori ad annullare la partita ed ordinarne la ripetizione – ed il Perù, offeso per quella che ritenne una prevaricazione, preferì ritirarsi.
L’Italia, davanti ad un pubblico schierato con l’Austria prossima all’Anschluss (l’annessione alla Germania), si prese l’oro grazie a una doppietta del solito Frossi, dopo 120 minuti di sofferenza (si dovette andare ai tempi supplementari, e l’Italia piegò gli avversari per 2-1). Appena acquistato dall’Ambrosiana-Inter, capocannoniere del torneo, sette pesantissimi gol per lui alla fine, Frossi, Friulano, ala destra, giocò con un paio di occhiali dotati di lenti infrangibili, procuratigli dallo stesso Pozzo, fissati dietro alle orecchie da un elastico: diventeranno immediatamente il suo marchio di fabbrica e lui, che sarà anni più tardi un allenatore di successo con il modulo a M, verrà chiamato «il dottor sottile» per le sue originali intuizioni tattiche.
Negli anni successivi, se Foni sarebbe diventato un campione, sul campo e in panchina, molti dei quattordici olimpionici rimasero nell’oscurità dopo i lampi d’oro di Berlino: Scarabello, addirittura, si sarebbe dedicato alla carriera cinematografica.
L’idea di un campionato di calcio che mettesse in campo le più forti Nazionali di tutto il mondo (oggi l’evento sportivo più seguito in assoluto) era nato già nel 1920 ad Anversa, dopo la VI Olimpiade che nell’estate vi aveva avuto luogo, ma bisognò attendere sei anni prima che la F.I.F.A. («Fédération Internationale de Football Association») mettesse allo studio un progetto dettagliato: ormai aveva preso piede il calcio professionistico e non si poteva più lasciare allo pseudo dilettantismo olimpico il compito di rappresentare il calcio a livello mondiale. Nel 1929, venne assegnato all’Uruguay il compito di organizzare il primo campionato di calcio per l’estate dell’anno successivo: alla Nazionale vincitrice sarebbe stata assegnata una bellissima coppa pesante quattro chili, quasi metà dei quali in oro, che sarebbe diventata proprietà definitiva della squadra che avesse vinto per tre volte il campionato.
Le Nazioni Europee disertarono il Mondiale: ritenevano più significativa la Coppa Internazionale, e oltretutto giudicavano troppo alte le spese di viaggio e di soggiorno, così partirono per il Sudamerica soltanto le squadre di Francia, Jugoslavia, Belgio e Romania (ma solo la Jugoslavia riuscì a farsi onore). Quando quattro anni dopo, nel 1934, toccò all’Italia organizzare il Mondiale, l’Uruguay non volle partecipare perché, si disse, gli Europei avevano schifato il «suo» campionato (in realtà, sembra che la Nazionale Uruguayana non fosse proprio in forma).
L’Italia fece di tutto per organizzare bene il Mondiale: il regime fascista vedeva in una buona e minuziosa preparazione dell’evento, la possibilità di propagandare la propria forza e il proprio potere. Non turbati da possibili difficoltà economiche, i preparativi del Mondiale furono realizzati senza badare a spese: furono potenziate le infrastrutture e creati imponenti impianti sportivi, secondi solo a quelli inglesi (si giocò in otto città diverse, in stadi moderni e capaci, come quello di Torino che contava 70.000 posti); le federazioni estere ebbero il rimborso di ogni spesa e una percentuale sugli incassi (per esempio, gli Austriaci ricevettero 118.000 lire, i Cecoslovacchi 99.000, gli Svizzeri 4.000). Il clima era ben diverso da quello attuale: il commissario tecnico Vittorio Pozzo pretendeva (si dice) che i nostri, prima di entrare in campo, baciassero la maglia azzurra ed intonassero un inno patriottico; l’inno nazionale era ascoltato sull’attenti. Mussolini aveva promosso lo sport, e in particolare il gioco del calcio, anche a scopi propagandistici e nazionalistici: in un’Italia rurale e caratterizzata ancora dal campanilismo, il calcio era visto come strumento per favorire l’unità nazionale.
Si giocò con la formula dell’eliminazione diretta: dopo due facili vittorie, per 4-0 sulla Grecia (Nereo Rocco, futuro «paron» del Milan, vi giocò i suoi unici 45 minuti in maglia azzurra) e per 7-1 sugli Stati Uniti, l’Italia si trovò di fronte un avversario ostico: la Spagna. Oltretutto, sembra che la nostra Nazionale non fosse granché, come qualità di gioco. Come già successo altre volte in passato, la prima partita finì in parità, 1-1, e sembrò più simile ad una battaglia che ad un incontro sportivo, con vari giocatori di entrambe le formazioni messi fuori combattimento. Il giorno dopo, il 1° giugno, si ripeté la partita con molti nuovi innesti per entrambe le squadre a causa di stanchezza ed infortuni (l’Italia era rinnovata per quattro giocatori su undici, la Spagna per ben sette) e fu un incontro allo spasimo, descritto dalle cronache del tempo come decisamente duro e violento, e con una rete spagnola annullata dall’arbitro; fu risolto da un gol di Giuseppe Meazza, a cui sarà intitolato lo stadio di San Siro a Milano.
In semifinale incrociammo la nostra più temibile avversaria, la Nazionale Austriaca, che aveva appena ottenuto la vittoria sull’Ungheria in un incontro che il commissario tecnico austriaco Hugo Meisl aveva definito «una rissa, non una partita di calcio»: nelle tredici partite precedenti, l’Austria ci aveva sconfitti ben otto volte; formidabile il loro centravanti Matthias Sindelar – detto «papieren» («fatto di carta») e, da noi, «Cartavelina» per l’esile aspetto – che avrà addirittura un monumento al Prater di Vienna. La partita terminò 1-0 grazie a Guaita, che accelerò la corsa di un pallone già indirizzato in rete da Meazza.
Si arrivò così alla finale, domenica 10 giugno 1934, allo stadio del Partito Nazionale Fascista di Roma, davanti a 50.000 spettatori, con in tribuna d’onore Benito Mussolini e Jules Rimet (ideatore dei Mondiali di Calcio insieme ad Henri Delaunay): avversaria un’altra formazione centroeuropea che conoscevamo bene, la Cecoslovacchia, reduce dalla vittoria contro la Germania – una compagine di alto livello tecnico che poteva contare su campioni come il portiere Planicka, la mezzala Svoboda, gli attaccanti Neyedly e Puc.
L’incontro iniziò in modo guardingo da parte di entrambe le squadre, che parevano studiarsi. Si andò al riposo sullo 0-0. Ecco che al 71° minuto il Boemo Puc sorprese il nostro portiere Combi con un tiro dalla parabola diabolica, ma dieci minuti dopo Orsi mise in parità il risultato. Si passò ai tempi supplementari. Nell’intervallo, Vittorio Pozzo conversò con i giocatori Eraldo Monzeglio e Luigi Bertolini, che aveva l’abitudine di giocare con la fronte cinta da un fazzoletto; accanto il portiere Giampiero Combi e il centromediano Luisito Monti, detto «l’uomo che cammina» per la calma con cui dominava il centrocampo – tutti con l’espressione stravolta, il volto grondante di sudore.
Si riprese. Al 95° minuto Angelo Schiavio, centravanti del Bologna, si portò all’ala destra per riprendere fiato. Proprio in quel momento, Orsi passò centralmente la palla a Guaita, che la indirizzò a lui. Il tiro in porta fu potente. Cambal e Ctyroky tentarono di intercettarlo, invano; il portiere Planika si tuffò, ma non poté nemmeno sfiorare il pallone. Era il trionfo, la prima Coppa Rimet per l’Italia: quel giorno stesso Schiavio, che aveva 29 anni (era nato nel 1905), si ritirò dall’attività agonistica.
Il successo azzurro era nato dalla straordinaria coesione e combattività del collettivo forgiato da Vittorio Pozzo, ma certo era stato determinante l’apporto di grandi individualità, come quelle degli oriundi Luigi Monti, Enrico Guaita, Raimundo Orsi, Attilio Demaria, tutti nati in Sudamerica ma Italiani al 100% anche secondo il parere dei nostri avversari, e di Giuseppe Meazza, uno dei più grandi calciatori italiani di ogni tempo. L’incasso totale per l’organizzazione fu di oltre un milione e mezzo di lire di allora (una cifra davvero considerevole); dopo la vittoria, i giocatori italiani ricevettero come premio una busta a testa, ciascuna contenente 20.000 lire.
Quattro anni dopo, nel 1838, l’Italia arrivò in Francia per la successiva edizione della Coppa Rimet forte della duplice vittoria alla terza Coppa Internazionale e alle Olimpiadi di Berlino, coi giocatori in ottima salute, pronti a dimostrare la loro classe e a difendere il nome e il prestigio del proprio Paese contro l’ostilità crescente di gran parte dell’Europa: il clima era infatti plumbeo per ragioni politiche – eravamo alleati della Germania di Hitler, che non faceva ormai più segreto delle sue mire espansionistiche; oltretutto la Francia pullulava di fuorusciti dall’Italia per motivi politici, inevitabilmente portati a sottolineare l’aspetto propagandistico che il calcio svolgeva per il regime fascista. Il Vecchio Continente era profondamente cambiato rispetto a quattro anni prima: la forte Austria di Hugo Meisl e di Matthias Sindelar non esisteva più, unita con l’Anschluss alla Germania nazista (che convocò per sé i migliori giocatori austriaci e ridusse Vienna, da fiorente e storica capitale europea, a capoluogo di provincia); la Spagna, lacerata dalla guerra civile, non poté neanche prendere parte alle qualificazioni.
Il nostro commissario tecnico Vittorio Pozzo poteva vantare un’imbattibilità di diciotto partite consecutive: la squadra azzurra non perdeva dal 4 novembre 1935. La Nazionale Italiana si presentava molto compatta ed arricchita da elementi di ben alto spessore tecnico – su tutti Giovanni Ferrari, Giuseppe Meazza e Silvio Piola.
Ma il percorso iniziò subito in salita, con gli Azzurri duramente contestati da una parte del pubblico, prima dell’inizio della prima partita, per il saluto romano: il 5 giugno a Marsiglia, contro la Norvegia, rischiammo grosso. La compagine nordica era modesta, tanto che al 2° minuto Ferraris II andò in gol, ma da lì in poi sembrò spegnersi l’entusiasmo: a sette minuti dal termine dell’incontro gli Scandinavi pareggiarono, costringendoci ai supplementari. Dinanzi ad un pubblico avverso riuscimmo comunque a siglare il definitivo 2-1 con un gol del venticinquenne Silvio Piola, il centravanti di classe mai eguagliata. Senza di lui, il nostro percorso si sarebbe fermato all’inizio.
Secondo Gianni Brera, la vittoria colta con grande sofferenza «fu una figuraccia. Dagli spalti di Marsiglia, non meno di 10.000 antifascisti fischiavano spietatamente gli Azzurri, colpevoli di vincere – male – per un regime antidemocratico...». Ricorda invece Pozzo (non iscritto al Partito Nazionale Fascista) che «la partita» con la Norvegia «viene avvolta immediatamente in uno sfondo polemico-politico. Ingiustamente. Perché i giocatori nostri non si sognano nemmeno di farne, della politica. Rappresentano il loro Paese, e ne portano naturalmente e degnamente i colori e le insegne». Prova ne è il fatto che, continuando prima dell’incontro la grandinata di insulti ed improperi, i tifosi francesi e quelli neutrali cominciarono a spazientirsi, essendo giunti lì per assistere ad una manifestazione sportiva, e non ad una protesta politica d’infimo livello.
La seconda partita, contro i padroni di casa, in cui gli Italiani si presentarono con la divisa di cortesia nera voluta dal regime fascista, benché dura andò sicuramente meglio: 3-1, con una magnifica doppietta di Piola – per lui, 16 gol in altrettante partite.
Tornati a Marsiglia, agli Azzurri toccò incontrare il Brasile, per la prima volta in assoluto. Dopo un primo tempo finito a reti inviolate, nella ripresa gli Italiani andarono in rete due volte nell’arco di soli cinque minuti con Colaussi e «Pepin» Meazza, che segnò l’ultimo dei suoi storici 33 gol azzurri realizzando un calcio di rigore, tirato mentre si reggeva con le mani i calzoncini, cui era saltato l’elastico in cintura. 2-1 per l’Italia. I Brasiliani, convinti di battere senza problemi la squadra azzurra, avevano già prenotato i biglietti aerei per Parigi e avevano lasciato a riposare il loro miglior giocatore, Leonidas, proprio in vista della finale; si vendicarono rifiutando di cedere i biglietti aerei agli Italiani, costretti a raggiungere la capitale francese in treno.
Si giunse così all’ultimo atto, il 19 giugno, allo Stade de Colombes di Parigi, lo stesso che una settimana prima ci aveva visto liquidare la Francia. Davanti a 60.000 spettatori ostili, si preparava un duello classico del calcio europeo: da un lato l’Italia, campione in carica con un’imbattibilità di 21 partite consecutive, dall’altra l’Ungheria, decisamente in gran forma, con 13 reti segnate contro una sola rete subita. Pozzo lavorò psicologicamente sui suoi giocatori cercando di far tramutare le critiche nei loro confronti in spinta per vincere e mantenere il titolo.
La partita iniziò subito con un buon ritmo, due gol (uno italiano ed uno magiaro) nei primi sette minuti. Al 16° l’interno Giovanni Ferrari scartò Lazar, passò a Piola ed entrò in area di rigore, ma già Piola aveva sparato in porta, all’incrocio, una bordata contro cui il portiere Szabo alzò vanamente una mano. Al 35° il Triestino Gino Colaussi, ala sinistra azzurra, si slanciò verso la porta avversaria, anticipò Polgar e Szucs e tirò in rete; Szabo si tuffò, ma non raggiunse il pallone. Anche il pubblico francese, a quel punto, prese ad applaudire gli Azzurri. L’Ungheria non si piegò e al 70° rimise in forse il risultato, fino a che, dodici minuti dopo, la botta finale di Piola siglò il 4-2 definitivo.
Fu una vera festa: il pubblico, inizialmente ancora ostile, fu conquistato dal gioco degli Azzurri, meritatamente campioni, e si sciolse in un lungo applauso. Persino i giornali francesi ebbero parole di ammirazione per «le duo le plus extraordinaire du monde», cioè le due mezzali Giuseppe Meazza detto «il Balilla» e Giovanni Ferrari di Alessandria, che sarà commissario tecnico della Nazionale nel 1961-1962.
L’Italia aveva avuto in Meazza e Andreolo gli architetti della vittoria, in Ferrari il lavoratore inesauribile. Ogni reparto era composto da autentici campioni. Alfredo Foni e Pietro Rava difensori perfetti, efficaci in ogni frangente del gioco, Serantoni instancabile rifornitore e marcatore attento e deciso, Locatelli elegante e tecnico. In avanti un trio caratterizzato dai cambi di velocità di Biavati e dalla potenza di Colaussi, ma soprattutto dalla grande energia di Silvio Piola, formidabile cacciatore di reti, abile in acrobazia, dalla falcata imperiosa e dal tiro folgorante.
Poi vennero la guerra e la caduta del Regime, che tanto aveva fatto per lo sport nostrano, ad infrangere per sempre l’illusione di una nuova, lunga serie di vittorie: bisognerà infatti attendere il 1970 per vedere nuovamente la nostra Nazionale ascendere ai gradini del podio mondiale (secondo posto, sconfitta dal Brasile dopo aver fermato in semifinale, per 4-3, la Germania in quella che sarebbe stata giudicata la più bella partita mai giocata) e addirittura il 1982 per vederla nuovamente campione del mondo…