Gabriele d’Annunzio, Soldato e Poeta
(1863-1938)
Commemorazione nel 150° Anniversario della
nascita; l’articolo si focalizza sull’Impresa di Fiume
Il silenzio della cultura ufficiale e della grande stampa sul centocinquantesimo anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio in terra d’Abruzzo (12 marzo 1863) e sul settantacinquesimo della sua scomparsa nell’eremo del Vittoriale (1° marzo 1938) ha tutta l’aria di non essere casuale, trovando motivazione prioritaria nella crisi, sempre più accentuata, di parecchi valori fondamentali, o meglio nella loro negazione programmata a favore di uno strisciante materialismo relativista, se non anche nichilista.
Al contrario, la vita del Comandante, interpretata alla luce di un modello «inimitabile» nella sua essenza etica, politica ed estetica, fu tale da esprimere «uno sforzo dello Spirito che si protende oltre ogni limite»[1] nel quadro di un’impostazione chiaramente idealistica, lontana anni luce dalla svendita di quei valori, e persino della stessa sovranità nazionale, ad un capitalismo gretto come non mai, orientato con crescente evidenza «all’interesse ed all’abuso individuali»[2].
Oggi, celebrare Gabriele d’Annunzio quale Uomo capace di coniugare al meglio il «nobile sentire» ed il «forte agire» prescinde dalle pur significative ricorrenze del marzo 2013 e propone agli Italiani degni di questo nome un esempio di riscatto umano e civile da cui «trarre gli auspici». In questo senso, si compie un atto dovuto, ma nello stesso tempo si coglie l’occasione per rammentare agli immemori, e suggerire agli ignari, un riferimento sempre attuale quando si voglia proporre una nuova e più compiuta esperienza «risorgimentale».
Nel 1863, quando il Soldato Poeta venne alla luce, l’unità nazionale era stata appena raggiunta, in modo ancora incompiuto e precario, mentre 75 anni dopo, allorché il Comandante si spense a Gardone, l’Italia era diventata una potenza generalmente riconosciuta ed aveva completato il disegno dei padri con l’acquisizione di Venezia e di Roma, poi di Trento e Trieste, ed infine di Fiume. Ebbene, non è certo un azzardo affermare che il contributo dannunziano a questo percorso di elevazione etica e politica, prima della Nazione e quindi dello Stato, abbia svolto un ruolo quanto meno ragguardevole, costituendo un paradigma di riferimento forte di adesioni diffuse e di notevole rilevanza culturale.
All’Impresa di Fiume, Gabriele d’Annunzio deve una fama di Soldato non certo inferiore a quella, ormai definitiva, acquisita in campo letterario. Del resto, si era già distinto come patriota e militare ben prima della Marcia di Ronchi compiuta alla testa dei suoi legionari il 12 settembre 1919, all’indomani dell’iniquo Trattato di Versailles che aveva sacrificato la città liburnica e la Dalmazia suscitando il «grido di dolore» dell’irredentismo, ed in primo luogo di quella che sarebbe passata alla storia quale «Olocausta».
Nel 1889 il giovane Gabriele si era arruolato da volontario nel XIV Reggimento di Cavalleria, ed il 24 maggio 1915, allo scoppio della Grande Guerra, fu pronto, ormai cinquantaduenne, ad onorare il richiamo della Patria con la divisa di tenente dei Lancieri di Novara. Poi, avrebbe combattuto anche in mare, distinguendosi nella famosa «Beffa di Buccari» ai danni della Marina Austro-Ungarica; ed in aria, negli altrettanto celebri voli sulle città irredente, per non dire di quello su Vienna dell’agosto 1918, quando la capitale asburgica fu inondata da una pioggia di messaggi tricolori, oggetto di stupore e di incredula ammirazione.
Per queste ed altre gesta che lo videro sfidare apertamente la morte e lo ridussero in condizioni di temporanea cecità cui si deve l’ardua stesura del Notturno, d’Annunzio venne decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare, e con cinque d’Argento, entrando a buon diritto nel mito.
Prima ancora della guerra, il suo interventismo aveva portato un contributo di rilievo alla decisione di uscire dalla Triplice Alleanza che legava l’Italia agli Imperi Centrali, e di scendere in campo a fianco dell’Intesa. Ciò, con riguardo prioritario al discorso pronunciato presso lo scoglio di Quarto da cui la spedizione dei Mille aveva preso le mosse nel 1860; ed alle altre allocuzioni dell’epoca, tra cui quella – non meno vibrante – del Campidoglio.
In sintesi, il senso della Patria fu riferimento costante dell’avventura politica dannunziana e viatico per la sua massima esperienza, iniziata con la Marcia di Ronchi, proseguita con la Reggenza del Carnaro e conclusa con il dramma del Natale di Sangue. Tutto ciò, nell’ambito del forte spirito di cooperazione con una «squadra» assai unita, composta in larga misura da volontari; e nello stesso tempo, di un’eloquente attività di comunicazione, non solo letteraria, che diede luogo a crescenti adesioni.
La teoria delle «élites» politiche di Georges Sorel e le sue elaborazioni italiane di Enrico Corradini e Gaetano Mosca trovarono in d’Annunzio un interprete assai idoneo a tradurle nei fatti, e capace di dimostrare al mondo come la linea del possibile si potesse spostare grandemente grazie alla volontà di una minoranza illuminata ed alla decisione di un Capo. I legionari che marciarono da Ronchi a Fiume, al di là delle diverse e talvolta contraddittorie matrici, sopperirono alle naturali carenze del numero con la decisione e l’unità degli intenti immediati, sapientemente armonizzate dal Comandante, non senza una suggestiva reminiscenza napoleonica nell’incontro col Generale Pittaluga alla barra confinaria di Cantrida[3].
L’occupazione di Fiume in nome della «vera Italia» sarebbe durata sedici mesi, gli ultimi dei quali come Reggenza del Carnaro: nella sostanza delle cose, uno Stato con un proprio esercito, una propria Costituzione ed una propria struttura istituzionale. Alla luce delle opposizioni fronteggiate in Italia ed altrove, si può ben dire che Fiume abbia tratto dall’entusiasmo dei legionari, giunti rapidamente a quota diecimila, ed almeno in un primo tempo, dall’adesione popolare largamente maggioritaria, la forza indispensabile ad esprimere ben oltre il breve termine la realtà di un’Italia davvero diversa da quella «ufficiale rinunciataria e proclive»[4].
D’Annunzio si rese interprete di una «volontà generale» che non aveva alcun carattere elitario: non a caso, alla «sedizione» di Fiume parteciparono due soli Generali (Sante Ceccherini e Corrado Tamaio) ed otto ufficiali superiori. È un aspetto importante da sottolineare, tra le avvisaglie del «nuovo ordine» che parve emergere dall’esperienza fiumana, perché ribadisce le caratteristiche popolari della Reggenza, a cominciare dalle sue fondamenta militari.
Taluni storici hanno voluto minimizzare l’Impresa di Fiume oltre ogni limite ragionevole, liquidandola con brevi parole quasi sprezzanti ed affermando sbrigativamente che «con un paio di cannonate venne sbaraccata»[5]: giudizio quanto meno impertinente, se è vero che l’azione di forza voluta dal governo Giolitti dopo il Trattato di Rapallo del novembre 1920 sarebbe costata la vita ad oltre cinquanta caduti di entrambe le parti, nonché ad alcuni civili (tra cui una bambina), in una sorta di guerra civile ante litteram, e che lo scontro avrebbe avuto termine non già con una scaramuccia, ma dopo diversi giorni di confronto armato.
La parabola di Fiume ebbe connotazioni diverse nell’ambito di una tempistica tumultuosa. Infatti, le componenti «irriducibili» del movimento dannunziano finirono per prendere il sopravvento, simboleggiato ai massimi livelli della Segreteria di Stato dalla sostituzione di Giovanni Giuriati con Alceste De Ambris, e dalla progressiva emarginazione della componente monarchica che nella prima fase era stata maggioritaria[6]. Considerazioni analoghe si possono formulare per l’adesione della cittadinanza fiumana, che dopo l’entusiasmo dei primi mesi venne condizionata dalle incertezze per il futuro e dalle difficoltà contingenti (comprese quelle alimentari), per tornare a livelli nuovamente elevati dopo il Natale di Sangue in occasione del celebre «Alalà funebre» pronunciato dal Comandante nel Cimitero di Cosala a suffragio unanime di tutti i caduti, e del commiato legionario da Fiume[7].
La Costituzione di Fiume, che fu opera principale del De Ambris, echeggiando motivi conseguenti del sindacalismo rivoluzionario, ma venne revisionata significativamente dallo stesso d’Annunzio, è un documento giuridicamente avanzato e politicamente straordinario per una serie di motivazioni da individuare, quanto alle maggiori, in democrazia diretta, equilibrio tra poteri dello Stato, riconoscimento delle minoranze etniche, ruolo sociale della proprietà, sviluppo della cultura popolare, uguaglianza effettiva tra uomo e donna[8], valorizzazione delle arti[9].
Oggi si potrebbe dire che la Carta intendeva rispondere ad esigenze trasversali in cui l’utopia progressista spinta a disegno di palingenesi socio-economica si coniuga con l’affermazione di una nazionalità capace di mediare fra diritti ed interessi di tutti, e nello stesso tempo con un profondo senso dello Stato, in chiave istituzionale e prima ancora, etica[10]. Quello dannunziano, peraltro, non è uno Stato totalitario, come a volte si è inteso presumere, ma un Soggetto giuridico in cui l’ethos coincide con i canoni della democrazia moderna, espressa dalla divisione dei poteri e dalla presenza, fra l’altro, di una «Corte della Ragione» preposta ai giudizi in materia di costituzionalità.
Quelle della Carta non sono semplici dichiarazioni a carattere generale, anche se la breve vita della Reggenza ne impedì la traduzione in fatti concreti e funzionali: a titolo di esempio, basti rammentare che alle «pari opportunità» corrispondevano obblighi inderogabili anche per quanto riguarda il servizio femminile in armi; ovvero, che il disposto costituzionale circa la musica come strumento di vita dello Spirito avrebbe dovuto indurre, fra l’altro, la costruzione di un grande teatro capace di diecimila presenze.
Il solo istituto di immediata applicazione nella vicenda di Fiume fu quello del Comandante, ispirato al dittatore dell’antica Repubblica Romana, investito di pieni poteri nelle situazioni di conclamato pericolo, ed in ogni caso a breve termine: si tratta di un «quid novi» nella storia costituzionale delle democrazie, che obbedisce alle precise necessità di una fase d’emergenza come quella di uno Stato-città in condizioni oggettive di assedio. In questo senso, il richiamo alla dittatura non affievolisce le garanzie implicite nell’equilibrio dei poteri ma si limita a sospenderle nel solo interesse della collettività nazionale, con un provvedimento tanto più accettabile perché Fiume doveva confrontarsi con il dichiarato ostracismo di Roma, poi spinto fino allo scontro militare, e con l’assenza di apprezzabili solidarietà internazionali (fatta eccezione per talune manifestazioni di simpatia pervenute da Mosca e da Budapest).
Nel 1897 Gabriele d’Annunzio entrò a Montecitorio quale parlamentare della Destra, ma dopo breve tempo si rese protagonista di un gesto destinato a produrre grande impressione, attraversando l’emiciclo ed andando a sedersi negli scranni della Sinistra. Non venne apprezzato, anche se esprimeva il principio di rappresentanza senza vincolo di mandato e prima ancora, il distacco di uno spirito indipendente, per molti aspetti «super partes», da un sistema di governo che non esitava a colpire coi cannoni di Bava Beccaris[11] un popolo senz’altra colpa all’infuori della richiesta di un tozzo di pane per sopravvivere. In questo senso, il gesto di Gabriele d’Annunzio non sembra catalogabile alla luce degli schieramenti politici, ma si può dire che preluda ad una più moderna propensione universalistica[12].
In quel deputato che dichiarava di scegliere la vita non è difficile intuire il futuro Comandante e l’artefice politico di una Costituzione come quella di Fiume, capace di tutelare, ad un tempo, la maggioranza italiana e le minoranze slave, tedesche ed ungheresi, con una trasversalità tanto più apprezzabile visto che, soprattutto nei confronti dei Croati[13], il divario di cultura e di preparazione etico-politica non era certamente marginale.
D’Annunzio fu paladino di giustizia e di umanità anche se non conobbe mezze misure nel prendere posizione contro un potere tradizionale incapace di capire lo slancio universalistico, se non addirittura messianico, del suo impegno a tutto campo[14], e come si diceva, seppe tradurre la sua filosofia in una comunicazione capace di valorizzare mezzi avanzati che avrebbero fatto rapidamente scuola[15], a cominciare dal dialogo diretto con la folla, poi ripreso in modo sistematico da Benito Mussolini, per giungere a più ardite suggestioni religiose, come accadde esponendo la bandiera di Giovanni Randaccio, l’Eroe di Bocche del Timavo, in alcune arringhe fiumane.
La vulgata storica e letteraria ha fatto del Comandante il prototipo del Superuomo di nietzschiana memoria e dai riferimenti quasi nibelungici, assai lontani, peraltro, dalla viva sensibilità latina e romana del Soldato Poeta. In Gabriele d’Annunzio, diventando realtà operante ed azione consapevole, quel mito ha superato ogni reminiscenza del panteismo naturalistico rinascimentale in un’avventura assolutamente eccezionale per la convergenza del pensiero nell’azione, e nel contempo, di estetica e politica nell’etica, alla stregua di un idealismo che non è più critico, ma assoluto; ed in quanto tale, appartiene a più forte ragione al mondo dello Spirito.
1 Plinio Carli ed Augusto Sainati, Storia della letteratura italiana, Edizioni Le Monnier, Firenze 1953, pagina 772. Nella medesima ottica, ma riferita a valutazioni prioritariamente etiche e politiche, confronta Amleto Ballarini, L’Olocausta sconosciuta: vita e morte di una città italiana, Edizioni Occidentale, Roma 1986, pagina 53: quella di Gabriele d’Annunzio fu in tutti i sensi una «vita eroica» ed in buona misura, una vera e propria «opera d’arte». A proposito dello scarso interesse manifestato, anche in campo culturale, per le ricorrenze dannunziane del marzo 2013, si deve ricordare che una commendevole eccezione è stata costituita dal Convegno storico, politico e letterario organizzato dal Comune di Pescara, città natale del Soldato-Poeta: ciò, con riguardo prioritario alla prolusione di Ernesto Galli della Loggia, recante un titolo particolarmente significativo: D’Annunzio Eroe, dalla Grande Guerra all’Impresa di Fiume.
2 Lutes, Un nuovo Governo, in «Italicum» – periodico di cultura, attualità ed informazione – anno XXVIII, Roma, gennaio/febbraio 2013, editoriale, pagina 1. In questo fondo di Luigi Tedeschi si mette opportunamente in luce come la politica contemporanea, di natura mediatica, abbia finito per creare soggetti virtuali, lontani «anni luce dalla realtà sociale» e dai veri problemi del popolo italiano: l’antitesi di una concezione idealistica (come quella posta alla base della Reggenza dannunziana di Fiume).
3 Iterando quanto aveva fatto Napoleone dopo lo sbarco dall’Elba, lungo la via del ritorno a Parigi, Gabriele d’Annunzio, giunto al posto di blocco, non si produsse in vane logomachie e confronti dialettici, invitando il proprio interlocutore ad aprire il fuoco su di lui, e sollevando l’entusiasmo degli astanti: quale effetto immediato, ottenne l’apertura «non violenta» del confine, ultimo ostacolo prima dell’ingresso a Fiume. Per quanto concerne la teoria della classe politica e la sua interpretazione italiana di maggiore notorietà, una sintesi efficace è quella di Gaetano Mosca, Storia delle dottrine politiche, settima edizione, Laterza, Bari 1957, pagine 295-307.
4 Carlo Montani, Venezia Giulia e Dalmazia: sommario storico, III edizione, Ades/Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste 2002, pagina 86. Per ogni maggiore dettaglio, si vedano, tra le tantissime testimonianze, in specie dell’epoca, quella assai dettagliata di Edoardo Susmel, La Marcia di Ronchi, Edizioni Hoepli, Milano 1941; e quella di Ferdinando Gerra, L’Impresa di Fiume, Edizioni Longanesi, Milano 1966. Ciò, sia per quanto riguarda l’Impresa fiumana in senso stretto, sia per quanto si riferisce alle sue implicazioni «dalmatiche» di Traù, Spalato e Zara.
5 Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Edizioni Il Mulino, Bologna 2011, pagina 159. L’Autrice ammette, peraltro, che l’Impresa di Fiume fu comunque «un successo diplomatico perché la città non venne assegnata alla Jugoslavia, ma trasformata in Stato Libero» (ibidem, pagina 372). Ciò, senza dire che l’annessione all’Italia venne soltanto rinviata, essendosi compiuta con il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924.
6 Simbolo significativo della mutazione intervenuta nel movimento legionario a fronte dell’intransigenza di Roma e delle intese internazionali nel frattempo intervenute fu l’ardimentoso volo sulla Capitale di Guido Keller, partito da Fiume con un aereo dalle dimensioni minime per sganciare su Montecitorio, in segno di dileggio, il «pitale più famoso della storia» (ma nello stesso tempo, un omaggio floreale sul palazzo del Quirinale, destinato alla Regina Elena, ed uno sul Vaticano).
7 L’analisi storica dell’Impresa e della Carta è stata particolarmente ampia e si è arricchita di un ampio ventaglio di contributi: fra quelli più esaurienti ed oggettivi, confronta Michael Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Bari 1975, che la definisce «genuina espressione non solo delle esigenze del mondo moderno a livello istituzionale, ma anche dei suoi bisogni e dei suoi sentimenti» (pagina 228); Francesco Perfetti, Fiumanesimo sindacalismo e fascismo, Edizioni Bonacci, Roma 1988, secondo cui la Costituzione di Fiume fu qualcosa «di più e di meglio» che non un semplice programma (pagina 33); Antonio Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, Editore Mondadori, Milano 1987, anche per averne messo in luce la singolare modernità dal punto di vista della comunicazione e la presenza di suggestivi spunti poetici (pagina 239). Non mancano giudizi di segno opposto: tra i più opinabili può essere ricordato quello che definisce «demente» l’intera vicenda fiumana vista quale tentativo di creare «una signoria rinascimentale truccata da Repubblica Sovietica» (Sergio Romano, Storia d’Italia, Editori Associati, Milano 2010, pagina 221).
8 Giova rammentare che, all’epoca della Reggenza, il suffragio universale maschile era stato introdotto in Italia soltanto da sette anni, coincidendo, fra l’altro, con la sostanziale catarsi dell’opposizione cattolica riveniente dal Patto Gentiloni. Nella Carta del Carnaro il diritto elettorale viene esteso per la prima volta a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, con obbligo speculare nell’ambito dei doveri, a cominciare da quello della difesa in armi: non più nell’ambito di un pur nobile volontariato (come quello cui avevano dato vita le 1437 portatrici carniche nel corso della Grande Guerra, a cominciare dalla Medaglia d’Oro Maria Plozner Mentil, o quello che sarebbe stato espresso in tempi successivi dal Servizio Ausiliario Femminile al comando del Generale Piera Gatteschi Fondelli), ma nel quadro di un servizio istituzionalizzato su basi di totale parità.
9 er quanto concerne i contenuti giuridici della Carta del Carnaro nell’ottica dei rapporti interni, delle relazioni estere, e della stessa storia delle Costituzioni, un contributo fondamentale è quello di Autori Vari, Lo Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro tra storia, diritto internazionale e diritto costituzionale, a cura di Augusto Sinagra, Giuffré Editore, Milano 2009: l’opera riporta gli Atti dell’omonimo Convegno tenutosi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma il 21 ottobre 2008, con sei relazioni, undici comunicazioni ed in appendice, il discorso di presentazione della Carta da parte del Comandante (30 agosto 1920), e il testo integrale dello Statuto.
10 L’ethos dello Stato dannunziano non è di tipo «machiavellico» come talvolta si è affermato aprioristicamente. Ciò non significa che lo spirito della Reggenza non abbia mutuato alcuni spunti essenziali dal pensiero del Segretario fiorentino: non già che il fine giustifica i mezzi, cosa che Machiavelli non ha mai detto, ma che la salvezza dello Stato costituisce fine prioritario, e per certi aspetti categorico, dell’azione politica. Del resto, nella lettera all’amico Francesco Vettori scritta poco prima della morte, Machiavelli avrebbe affermato di avere amato la patria «più dell’anima»: ecco uno spunto che si può definire dannunziano e che non a caso venne ripreso con parole identiche da Maria Pasquinelli durante il processo del 1947, a seguito dell’estrema protesta che la giovane insegnante fiorentina aveva sollevato contro il diktat del 10 febbraio imposto dagli Alleati, colpendo nel Generale Robert De Winton il simbolo di tale iniquità.
11 La strage di Milano del 1898 non fu la sola perpetrata dall’Italia unita: tra il 1871 e l’inizio della Prima Guerra Mondiale se ne contarono almeno trenta, diffuse su tutto il territorio nazionale con prevalenza per il Mezzogiorno, ed un numero di vittime stimabile in qualche migliaio, cui si debbono aggiungere i circa 14.000 caduti della «guerra» decennale contro i cosiddetti «briganti» del Mezzogiorno (1861-1870). Salvo eccezioni, la causa scatenante di quelle stragi fu di natura socio-economica.
12 Prescindendo dal carattere spettacolare tipico di taluni comportamenti del Soldato-Poeta, nel rifiuto del subordine agli schieramenti parlamentari, sempre attuale nella dialettica delle democrazie rappresentative, e nell’esempio conseguentemente «ribelle» del deputato Gabriele d’Annunzio, non è azzardato cogliere un’anticipazione di tante e ben più drammatiche dissidenze, come quelle di coloro che avrebbero preso le distanze dal penultimo fascismo, non già attraverso il tradimento ma scegliendo di immolarsi volontariamente nella «guerra del sangue contro l’oro»: primo fra tutti, Berto Ricci, mente e braccio dell’Universale e del suo fondamento idealistico.
13 Amleto Ballarini, L’Olocausta sconosciuta, opera citata, pagina 63: secondo il censimento del 1919, a Fiume quattro quinti degli Slavi erano in condizione di analfabetismo, mentre gli Italiani incapaci di leggere e scrivere assommavano a non oltre un decimo. Cosa che la dice lunga, al di là di ogni interpretazione soggettiva, sul ruolo della cultura nella Fiume dannunziana come strumento di crescita umana e civile senza pregiudizi di parte e senza vincoli di lingua e di nazionalità.
14 Strali di particolare ed efficace durezza, fra gli altri, furono quelli che d’Annunzio rivolse nei confronti del Presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, emblematicamente gratificato con l’epiteto di «Cagoia». Nella fattispecie, fu ricambiato non senza commenti avventati anche a proposito della Carta: quando i contenuti del documento vennero conosciuti, lo stesso Nitti «diede in una risata» definendo la Costituzione di Fiume un «atto stupidissimo e degno di una riunione di mattoidi» (Antonio Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, opera citata, pagina 239).
15 La simbologia comunicativa dannunziana, con particolare riguardo al periodo interventista ed a quello fiumano, abbonda di riferimenti moderni non privi di richiami alla classicità antica: è il caso degli aforismi latini («Memento Audere Semper!», «Quis contra nos?») e dei motti coniati per la circostanza («Ardisco non ordisco!», «Ho quel che ho donato!»), in grado di sollecitare l’adesione e la fantasia di una cospicua maggioranza dell’uditorio. Del resto, non si deve credere che Gabriele d’Annunzio sia riuscito a conseguire il solo consenso popolare e non anche quello delle classi più alte e più acculturate: ad esempio, Fiume, fra le tante presenze legionarie, vide quella davvero entusiasta di Giuseppe Maranini, il futuro insigne costituzionalista teorico delle democrazie moderne e dei loro limiti nella cosiddetta «dittatura d’assemblea» ma testimone prezioso e sincero di quel periodo irripetibile, secondo cui «Fiume è il sogno più bello mai vissuto» (confronta Lettere da Fiume alla fidanzata, a cura di Elda Bossi, Pan Editrice, Milano 1973, pagina 112).