La Marcia su Roma
Fu atto di coraggio, colossale sbruffonata
o mossa d’azzardo? Calcolo o improvvisazione?
Uno dei problemi storiografici più dibattuti negli ultimi tempi riguarda la Marcia su Roma, ovvero l’espediente con cui, nel 1922, il fascismo arrivò al potere. Ci si chiede se fu una «vera» marcia, pianificata in tutti i suoi particolari, o un semplice espediente che solo per una serie di coincidenze raggiunse i propri obiettivi. In altre parole, Mussolini era realmente cosciente di ciò che stava per fare?
Le posizioni sono varie e inconciliabili: si va da chi, apologeticamente, esalta il «genio» mussoliniano e il suo spirito d’iniziativa, a chi ritiene la Marcia nient’altro che una «buffonata». Spesso, sia gli «apologeti» che i «detrattori» non si basano affatto su uno studio serio dei documenti dell’epoca, ma partono dalle proprie posizioni ideologiche e, da lì, si sforzano di trovare conferme alla personale visione delle cose.
Cerchiamo, perciò, di guardare ai fatti incontestabili senza alcun preconcetto o pregiudizio.
Un primo dato di fatto è che la Marcia su Roma venne frettolosamente ma realmente organizzata, tra il 24 ed il 27 ottobre 1922, affinché Mussolini se ne servisse come mezzo di minaccia e di pressione. Già il 22 ottobre si erano concentrate, a Perugia, oltre 10.000 camicie nere umbre. Da un albergo della città, l’Hotel Brufani, cinque giorni dopo fu diramato dal «Quadrumvirato» (De Vecchi, De Bono, Balbo, Bianchi) il proclama ufficiale che dava avvio alla mobilitazione generale: «Il fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all’esercito di Vittorio Veneto. Né contro gli agenti della forza pubblica marcia il fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che da quattro anni non ha saputo dare un governo alla Nazione. Le classi che compongono la borghesia produttrice sappiano che il fascismo vuole imporre una disciplina sola alla Nazione, e aiutare tutte le forze che ne aumentino l’espansione economica ed il benessere. Le genti del lavoro, dei campi e delle officine, dei trasporti e dell’impiego, nulla hanno da temere dal potere fascista… Il fascismo snoda la sua spada lucente per tagliare i troppi nodi di Gordio che intristiscono la vita italiana…».
La mattina del 27 ottobre 1922, quando tre colonne fasciste erano in marcia da Monterotondo, Santa Marinella e Tivoli alla volta della capitale, ed il Consiglio dei Ministri aveva unanimemente deciso lo stato d’assedio, l’allora Capo del Governo Facta si recò da Vittorio Emanuele III per la firma del provvedimento. Ma il Re non firmò.
Ci si è sempre chiesti il perché di tale decisione. Che in caso di scontro con l’esercito, 28.000 fascisti affamati e male armati sarebbero stati dispersi in poco tempo è ipotesi verosimile. Le truppe dell’esercito poste a difesa di Roma ammontavano a circa 30.000 unità; tutte le porte d’accesso alla capitale erano piantonate e difese con reticolati e cavalli di frisia; le linee ferroviarie nell’immediata vicinanza di Roma erano state divelte per impedire l’ingresso in città via treno ai fascisti.
Mussolini era sicuro che lo scontro con la forza pubblica non sarebbe in realtà avvenuto, e il prosieguo degli avvenimenti gli avrebbe dato ragione. Ma la sua non era un’intuizione caduta dall’alto quasi divinamente, o una mossa d’azzardo, bensì si basava su delle semplici constatazioni: da un lato, la pavidità ministeriale; dall’altro, il timore del Sovrano di vedersi sfilar da sotto il bacino la poltrona (ipotesi tutt’altro che improbabile a giudicare dalla febbre che pervadeva ampi strati dell’opinione pubblica da un lato, degli apparati militari e soprattutto del mondo capitalista dall’altro; la maggior parte degli alti gradi dell’esercito – anche tra quelli che difendevano la capitale – era di nette simpatie fasciste, così come il duca d’Aosta, cugino del Re, che ambiva al trono). Inoltre, forse c’era anche la volontà d’impedire spargimenti di sangue tanto alle porte dell’Urbe che nel resto d’Italia, dove squadre fasciste avevano già occupato prefetture, centrali elettriche, stazioni ferroviarie ed altri centri nevralgici.
Alla mezzanotte del 30 ottobre, dopo regolare invito del Sovrano a presiedere e comporre un nuovo governo (in cui il nuovo Presidente del Consiglio riservò al suo partito solo quattro Ministeri, suoi inclusi), le colonne fasciste ancora strematamente accampate alle porte di Roma fecero quell’ingresso celebrato negli anni a venire come trionfale (ed effettivamente lo fu, ma con la differenza che non risultò in alcun modo decisivo, ma poté svolgersi solo a seguito di legale autorizzazione): in questo senso, la Marcia risulterà totalmente ininfluente ai fini della presa del potere da parte dei fascisti.
Quando Roma venne pacificamente invasa dalle camicie nere, camicie azzurre nazionaliste e guardie regie ben felicemente accolsero lo scampato pericolo di dover fronteggiare in armi i fascisti, con cui sottobanco in ogni comune d’Italia avevano già da tempo fraternizzato; così, alle colonne in marcia se ne aggiunsero di altre dalla capitale (lo sport della corsa in soccorso al vincitore, che a parti invertite si riproporrà sugli scenari italici nella primavera del ’45, si confermava ancora una volta molto popolare nel nostro Paese; e già durante il viaggio di ritorno si canticchiava un’ironica stornellata che rimarcava la differenza tra il «fascista della prima ora» e l’opportunista, tiepido fino a che il futuro politico rimane incerto, per poi risvegliarsi zelantissimo camerata a giochi fatti: «Oggi tutti son fascisti / per miracoli divini, / i borghesi ed i pussisti / giuran fede a Mussolini. /// Ma fra tanta eletta schiera / ci siam noi della prim’ora, / vecchia guardia retta e fiera / del fascismo che non muor…»).
La Marcia su Roma fu, in realtà, un ottimo mezzo di propaganda pro-fascismo. In quest’ottica si può leggere l’intervista che un compiacente Mussolini concesse la sera stessa ai giornalisti del «Corriere della Sera»: «Dite la verità: abbiamo fatto una rivoluzione unica al mondo. Portandola a termine mentre i servizi funzionavano, i commerci continuavano, gli impiegati erano al loro posto, gli operai nelle officine, i contadini nei campi…».
Giacomo Balla, Marcia su Roma, 1931-1933, Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli al Lingotto, Torino (Italia)
La smobilitazione delle schiere fasciste cominciò il giorno seguente; il 1° novembre, le ultime camicie nere rimaste nella capitale, dopo gli omaggi al Sovrano e alla tomba del Milite Ignoto, lasciarono ordinatamente l’Urbe con gli stessi mezzi con cui erano arrivati: treno, camion, piedi, biciclette.
Sarà l’assassinio di Matteotti, un anno e mezzo dopo, a riproporre violenze su larga scala, com’erano state nel terribile biennio 1920-1921. Il timore di un nuovo caos generale nella vita del Paese, unitamente alla presa di posizione dei fascisti più intransigenti (il cosiddetto «pronunciamento dei consoli»), indurrà un fino ad allora titubante Mussolini ad instaurare gradatamente, e sempre col decisivo avallo di Casa Savoia, il regime dittatoriale. La pioggia di decreti-legge che inonderanno le prefetture di ogni comune daranno all’Italia una veste sino ad allora mai indossata: «L’Italia, oh signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi gliela daremo con l’amore se possibile, con la forza se sarà necessario. E tutti sappiano che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma soltanto amore sconfinato e possente per la Patria…» (discorso di Mussolini alla Camera, 3 gennaio 1925).
Dunque, né un atto di coraggio né una mossa d’azzardo, ma un piano tanto semplice quanto efficace. Che funzionò, ma che forse generò in Mussolini, come sostiene Luca Goldoni, «la pericolosa convinzione che per vincere le guerre non occorre farle, basta dichiararle». Una convinzione che si rivelerà in tutta la sua drammaticità quando, nemmeno vent’anni dopo, l’Italia si getterà nel baratro della Seconda Guerra Mondiale. E sarà la fine.