Onore ad Anita e a tutte le donne del
Risorgimento Italiano
Relazione di Roberto Pizzi svolta nel
Convegno di giovedì 19 settembre 2024, nel Palazzo Ducale,
Lucca, promosso dalla Provincia di Lucca, dal Museo del
Risorgimento e dal Sistema Museale Territoriale della
Provincia, in occasione del 175° anniversario della morte
della moglie dell’Eroe dei Due Mondi, Anita Garibaldi
(1821-1849)
Gli artefici del nostro Risorgimento dimostrarono sempre il massimo rispetto e l’apprezzamento per la figura della Donna, principio di ogni esistenza.
«Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente il conforto, ma una forza, un’ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna». Così scriveva, nel lontano 1860, Giuseppe Mazzini, morto a Pisa il 10 marzo del 1872, amorevolmente assistito dalle donne della famiglia Rosselli-Nathan nella loro abitazione di Via della Maddalena.
Lo stesso Giuseppe Garibaldi fu sempre dalla parte delle donne. Il suo grande amore, Anita, è storia e poesia fuse insieme. Il 4 agosto di quest’anno è ricorso il 175° anniversario del suo sacrificio nella drammatica fuga verso Venezia, dopo la fine della gloriosa Repubblica Romana.
Dell’Eroe dei Due Mondi si ricorda anche l’amicizia con la sensitiva madame Blavatsky (1831-1891), teosofa, occultista, medium ucraina, la quale partecipò alle battaglie di Monterotondo e di Mentana del 1867, venendo colpita al torace da due pallottole, creduta morta e gettata in una fossa comune, poi salvata in extremis per puro caso. Garibaldi sempre sostenne che le coraggiose donne del Risorgimento fossero tutte degne di essere riconosciute alla pari degli uomini. Questo impegno a favore dell’emancipazione della donna e dell’associazionismo femminile nel mondo laico non può prescindere dal ricordo di un altro uomo di quell’epoca, a molti sconosciuto, ma non di minore importanza, del quale è giusto ricordare la nobiltà. Intendo parlare di Salvatore Morelli, testardo, appassionato, bizzarro, dal cui nome emana un «forte odore di bucato», nato a Carovigno, Brindisi, nel 1824 (morirà a Pozzuoli nel 1880). Fu iscritto alla «Giovane Italia» di Mazzini, fu massone e libero pensatore; venne condannato a otto anni di carcere, rinchiuso dai Borboni nella fortezza di Ischia, subì torture e vessazioni e anche una finta fucilazione. Venne inviato, poi, al confino di Ventotene, vale a dire nell’isola in cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, più di 80 anni dopo, avrebbero scritto il maggiore documento dell’europeismo italiano. Fatta l’Italia, fu eletto alla Camera dei Deputati per il collegio di Sessa Aurunca, nel giugno del 1867, venendo confermato per quattro legislature. Appassionato riformatore sociale, non perdeva occasione di riportare l’attenzione del Parlamento sulla funzione della donna, fra l’indifferenza dei deputati, rappresentanti di un’opinione pubblica benpensante, misogina e retriva. I temi che gli stavano maggiormente a cuore erano la cremazione, l’istruzione, la riforma del diritto di famiglia, la parità dei diritti fra marito e moglie, il divorzio, l’abolizione di ogni discriminazione fra figli legittimi e naturali. Morì in condizioni di grave indigenza, perché era libero nel pensiero e incapace di vendersi. La sua povertà resta come un fatto incredibile, ma vero. Basti pensare che i deputati, allora, non avevano le ricche prebende attuali e Morelli, non avendo soldi per l’albergo, spesso dormiva in treno adattandosi a passare la notte in una carrozza ferroviaria sulla tratta Roma-Napoli, andata e ritorno. Qualche volta passava la sua giornata con un soldo di castagne lesse, o quando voleva rifarsi un po’ prendeva il battello da Genova a Napoli, perché come deputato gli era riconosciuto il viaggio e il vitto gratis.
Fra le donne battagliere che prepararono e poi parteciparono al nostro Risorgimento ne ricordo alcune: partendo da Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), intellettuale di spicco della Repubblica Partenopea del 1799, impiccata dai sanfedisti e lasciata appesa in Piazza del Mercato a Napoli, a subire le offese del «popolaccio», eccitato anche dallo spregio fatto al cadavere al quale erano state tolte le coulotte. Poi vi furono Teresa Confalonieri (1787-1830) e Cristina di Belgioioso (1808-1871). In quell’ambiente combatteva la stessa battaglia Giorgina Saffi (1827-1911), l’autorevole moglie di Aurelio Saffi e Adelaide Bono Cairoli (1806-1871), esempio morale per intere generazioni. Garibaldi scrisse di lei: «Con donne simili una Nazione non può morire». Ebbe otto figli e per quattro dei cinque maschi dovette subire lo strazio della morte durante le varie campagne risorgimentali (solo Benedetto scampò a questa sorte).
Rose Montmasson (1823-1904), detta Rosalia, nativa della Savoia, quando la regione era ancora sotto il Regno di Sardegna, fu l’unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille, imbarcandosi travestita da uomo sul battello Piemonte. Fu la moglie di Francesco Crispi, futuro Presidente del Consiglio del nuovo Regno d’Italia.
Anna Pallavicino Trivulzio (da nubile Anna Koppmann: 1819-1885) fu la nobildonna che raccolse 40.000 firme per chiedere inutilmente la grazia per il giovane Lucchese Pietro Barsanti, che è stato ricordato il 27 agosto scorso. Non può essere ignorata, poi, Anna Maria Mozzoni (1837-1920), inserita attivamente nei gruppi mazziniani, la quale, ottima giornalista, nel 1878 fondò a Milano la «Lega promotrice degli interessi femminili».
È importante far tesoro, anche, di ciò che scrisse Benedetto Croce in merito alla Storia, che va fatta non trascurando le tante microstorie spesso sconosciute. Mi guardo quindi intorno, a livello locale, e non posso non accennare alle nostre «eroine invisibili» della Lucchesia, che furono protagoniste di questa epopea alla quale contribuirono con passione, intelligenza e sensibilità. Fra esse molte donne di cultura, poetesse, pedagoghe, che iniziarono un percorso destinato ad andare oltre e che porterà all’attuazione dei diritti civili per la parità tra uomo e donna.
La realtà femminile lucchese e la sua tradizione associativa vantano antiche origini, grazie anche a un certo grado di emancipazione già espresso dalla società lucchese.
Mi soffermo solo su quelle donne che furono definite dalla penna del letterato lucchese Luigi Fornaciari, «tirteiche», ossia che infiammavano col loro agire i cospiratori (come il poeta greco Tirteo, che coi suoi versi, spingeva i soldati alla lotta). A seguito della calata di Napoleone in Italia, a Lucca, nel periodo che preparò l’avvento della Repubblica Giacobina del 1799, si distingueva Benedetta Toti, che superò gli uomini per energia e audacia. La giacobina lucchese venne arrestata, per la sua irruenza, e rinchiusa nell’Ospedale dei Pazzi di Fregionaia (Maggiano) alla fine del 1798. Questa sua detenzione durò poco, perché il 6 gennaio del 1799 i Francesi che avevano occupato Lucca, la liberarono dal manicomio, portandola in trionfo in città. Le donne confermeranno ancora nelle fasi storiche successive il loro impegno politico e sociale: in particolare, quelle della famiglia Cotenna, che nella loro villa di Monte San Quirico, organizzavano cospirazioni non di poco conto. Si chiamavano Gaetana Del Rosso e Cleobulina Cotenna, madre e figlia. Di loro si ritiene verosimile l’appartenenza a quella categoria delle cosiddette Donne Giardiniere (decise cospiratrici che si diceva portassero un pugnale nella giarretteria), figure organiche alla Carboneria e, per induzione, alla Massoneria. In quella casa trovarono ospitalità sia Mazzini che la sua amante Giuditta Sidoli, la quale, è certo, si trattenne per una quarantina di giorni a Lucca, con grave preoccupazione delle autorità.
Gaetana Del Rosso (1783-1862), Fiorentina, moglie del giacobino lucchese Vincenzo Cotenna, operò sul terreno civile ispirandosi a Mazzini e a Garibaldi.
Infine, Cleobulina (1810-1874), la figlia, la quale ebbe un intenso rapporto epistolare con Mazzini, anche se gran parte della sua corrispondenza venne distrutta per paura delle frequenti perquisizioni a cui era soggetta la casa. La polizia irruppe più volte nella sua abitazione, anche alla ricerca di Garibaldi, in base a false spiate. Furono ospiti certi, a Monte San Quirico, Silvio Pellico, Guerrazzi e Giacomo Medici. Cleobulina fu sempre pronta, senza risparmiarsi, ad assistere famiglie in difficoltà. Fortissima fisicamente, anche se esile (mangiava pochissimo, trascurando la sua persona), era in grado di mostrare un coraggio ai limiti dell’audacia, come nell’occasione che la vide sfidare l’ira superstiziosa della massa rurale inferocita che voleva dare fuoco alla sua casa, alla caduta del Governo del Guerrazzi e che, di fronte alla sua decisa calma, rinunciò al proposito. Una delle sue caratteristiche – non esclusiva se pensiamo al Risorgimento come a un processo in cui si fusero calcoli politici e suggestioni romantiche – fu la preveggenza. Come quella dettatale dalla visione di un gabbiano sul Serchio, con parte del collo rosso, visto dalla sua terrazza, che le fece presentire le gravi difficoltà di Garibaldi nella difesa della Repubblica Romana del 1849. Cleobulina fu letterata di rilievo, ebbe una buona cultura musicale e fu dotata di bellissima voce, grazie alle cure che le dedicò il maestro Michele Puccini, il padre del più conosciuto compositore Giacomo. Autrice di versi poetici, e di vari scritti patriottici, Cleobulina viene indicata come donna di profonda «ma libera» religiosità, pronta, come tutta la sua famiglia, a prodigarsi per gli altri, a discapito della sua salute e spendendo buona parte del suo patrimonio, che impiegato per il progetto patriottico, si ridusse, alla fine della sua vita, a poca cosa.