La guerra civile siriana
Contesto storico e geopolitico della crisi

Nel corso degli ultimi sei anni sta imperversando in Siria una sanguinosa guerra civile, che vede il regime di Bashar al-Assad scontrarsi con le diverse fazioni che compongono l’opposizione. Gli scontri armati sono stati inizialmente sporadici per poi trasformarsi in una lunga guerra civile; la copertura internazionale del conflitto si è focalizzata sulla dimensione settaria della lotta, mettendo in luce i rapporti sempre più antagonistici tra la maggioranza sunnita e la minoranza alauita all’interno della Siria. Questa contrapposizione tra sunniti e sciiti è particolarmente importante data la dimensione regionale del conflitto siriano, che si è rapidamente evoluto in una «guerra per procura» tra le due principali potenze dell’area, Arabia Saudita ed Iran. Il settarismo all’interno della Siria sembra aver rafforzato le preesistenti divisioni settarie in tutto il Medio Oriente, in particolare nel vicino Libano. Più a lungo continuerà il conflitto, più sarà importante comprendere le spaccature non solo tra le parti in lotta, ma anche al loro interno e nella regione.

Questo contributo esplora i principali elementi storici e politici alla base del rafforzamento delle dinamiche settarie all’interno della Siria, concentrandosi sull’impatto regionale di tale tendenza. L’articolo cerca di inserire il settarismo nel suo contesto, rilevando i fattori politici nazionali e regionali alla base della rinascita di identità pre-assegnate. Inoltre, si cerca di integrare il concetto di settarismo all’interno di una spiegazione più ampia dell’antitesi sunniti-sciiti.

La storia della Siria moderna deriva dalla divisione della regione del Levante, conosciuta come Bilad al-Sham (in arabo il «Paese della Siria»), dopo la disgregazione dell’Impero Ottomano nel 1918 in stati più piccoli. Queste nuove entità statuali furono assegnate alla Gran Bretagna e alla Francia come mandati dalla Lega delle Nazioni. Tale decisione fu il diretto risultato dell’accordo segreto Sykes-Picot del 1916 che divideva la regione del Levante in due sfere di influenza, una francese e l’altra inglese. Durante la successiva dominazione francese in Siria e in Libano (1920-1946 nel primo caso e 1920-1943 nel secondo), le autorità francesi adottarono una linea politica focalizzata sulla divisione etnica e religiosa; infatti, i Francesi separarono il Libano dal territorio siriano costruendo il «grande Libano», dopo aver aggiunto il territorio ad Est del Monte Libano alla nuova entità statuale. Questa decisione produsse uno squilibrio demografico tra i Cristiani maroniti e i musulmani sciiti e sunniti, creando uno stato territoriale in cui la fedeltà della maggior parte dei Libanesi era rivolta non alla nazione, bensì alla propria parte religiosa.

È possibile fare considerazioni analoghe per il dominio francese nel resto del mandato siriano. Qui, la Francia si allineò con le minoranze druse ed alauite; infatti, a questi gruppi fu data la priorità nel corso della progettazione dell’armata coloniale francese. Gli strateghi francesi erano desiderosi di sperimentare un sistema di divisione del territorio per «cantoni». Pertanto, essi delegarono l’autorità ai vari leader locali, al fine di creare un equilibrio di potere basato su divisioni settarie e regionali. Questo avrebbe dovuto limitare l’attrazione derivante dal movimento nazionalista sunnita che chiedeva l’indipendenza della Siria dalla Francia e considerava la separazione dal Libano una costruzione artificiale. Nel 1938, l’esercito turco entrò nella provincia di Alessandretta, area costiera della Siria sul Mediterraneo Settentrionale, espellendo parti della popolazione araba e armena. Il territorio fu successivamente inglobato nella Turchia come provincia di Hatay. Questa annessione fu concordata con le autorità coloniali francesi che intendevano migliorare le relazioni con la Turchia kemalista.

È opportuno soffermarsi sulla minoranza alauita, data la sua importanza per la storia politica siriana. La setta alauita nacque nel IX secolo traendo le sue origini dagli insegnamenti dello studioso Muhammad ibn Nusayr. Generalmente, gli alauiti si identificano come un ramo dell’Islam sciita, data la loro venerazione per Alì, cugino e genero di Maometto e primo imam sciita, ma incorporano nella loro dottrina elementi di altre fedi. Varie pratiche alauite e la segretezza della loro teologia hanno condotto alcuni musulmani a rifiutare di riconoscerli come correligionari, trattandoli con diffidenza e, a volte, con violenza. Non sorprende che i membri della setta abbiano scelto il nome alauiti, perché sottolinea la loro venerazione per Alì, stimato anche dai tradizionalisti sciiti e sunniti. Considerati degli «outsiders», sono stati definiti per secoli «nusayri» dal nome del fondatore, un appellativo destinato a distinguerli dai musulmani. Gli alauiti subirono molte persecuzioni, per questo la loro presenza nel corso dei secoli si è limitata all’entroterra montuoso dell’attuale Nord-Ovest della Siria, essendo praticamente inesistente nelle zone urbane. Questo isolamento rurale li relegò allo status di reietti religiosi, contadini poveri e arretrati, privi di formazione e di organizzazione politica e militare. Questo status è stato mantenuto anche sotto l’Impero Ottomano, che conquistò le terre alauite nella metà del XIX secolo, trasformando la comunità in una classe di braccianti sottopagati al servizio dei proprietari arabi sunniti. Il cambiamento della loro posizione sociale avvenne con la creazione del mandato francese nel 1920; infatti, la Francia adottò politiche favorevoli nei confronti delle minoranze, concedendo autonomia politica e legale dagli oppressori sunniti di un tempo, insieme ad imposte limitate e a sovvenzioni governative. Essi acquisirono una notevole rappresentanza nelle forze francesi di occupazione. Questa forte presenza militare fu sostenuta anche da motivazioni socio-economiche: i membri delle minoranze rurali vedevano il servizio militare come un’opportunità per migliorare la propria posizione sociale, mentre i sunniti urbani guardavano spesso con disprezzo all’arruolamento, considerando l’esercito poco dignitoso e uno strumento dell’imperialismo francese. Inoltre, i sunniti urbani erano più spesso in grado di pagare la commissione di rimborso per l’esenzione dal servizio militare. Fu così che le minoranze, in particolare l’alauita, vennero a giocare un ruolo sproporzionato nelle forze armate rispetto al loro peso demografico nella società siriana.

Questa situazione provocò una notevole amarezza tra l’élite sunnita, poiché essa riteneva che la Francia avesse utilizzato le minoranze al fine di sopprimere le aspirazioni della maggioranza per una Siria unita a guida sunnita. In effetti, gli alauiti erano fermamente contrari al movimento per l’indipendenza e l’unificazione alla fine degli anni Trenta e Quaranta. Questa opposizione prese la forma di petizioni a favore della continuazione del Governo Francese, ma anche di una ribellione armata nel 1939. Tuttavia, l’indipendenza siriana del 1946 significò la presa del potere, momentanea, dell’élite sunnita. Nonostante questa vittoria, gli alauiti e le altre minoranze conservarono la loro rappresentanza schiacciante in campo militare.

Mentre gli Inglesi e i Francesi desideravano delle entità statuali di dimensioni ridotte per meglio esercitare su di esse un controllo efficace, l’emergente movimento nazionalista sottolineava l’unità della nazione araba; infatti, il nazionalismo iniziò a basarsi sulla condivisione e sull’uso della lingua araba, piuttosto che sull’unità territoriale della Penisola Arabica. Per questo, Paesi come l’Egitto e quelli del Maghreb iniziarono ad essere associati alle aspirazioni nazionaliste pan-arabe. Quando la Siria divenne indipendente nel 1946, lo stato era eccezionalmente fragile. In netto contrasto con il Libano, in cui un patto nazionale del 1943 tra il Cristiano maronita Bishara al-Khouri e il sunnita Riad el-Solh aveva permesso la costruzione di un sistema politico basato sulla condivisione del potere tra i diversi «credo», nessun accordo formale fu raggiunto in Siria. Come risultato, la politica post-coloniale rimase nelle mani dei notabili tradizionali e della nobiltà terriera. Inoltre, le divisioni regionali all’interno della Siria, come ad esempio il conflitto tra i leader politici di Damasco e Aleppo, insieme all’esclusione dall’effettiva partecipazione politica di vasti settori della popolazione, rendevano lo stato siriano post-coloniale un’entità piuttosto debole.

Tra il 1946 e il 1963, la Siria decadde dal ruolo di potenza regionale, soffrendo dell’ingerenza degli Stati Uniti e dei Paesi Arabi confinanti nella sua politica interna. È interessante notare come, nella saggistica di scienze politiche del tempo, la Siria fosse presentata quale il «Paese del colpo di stato per eccellenza», avendo sperimentato più di una dozzina di colpi di stato militari dalla sua indipendenza.

A causa della debolezza dello stato, l’esercito siriano era divenuto lo strumento più efficace per esercitare il potere politico. Dal momento che l’esercito era stato storicamente considerato una scelta di carriera non accettabile per i membri delle classi sociali superiori, erano stati i giovani appartenenti ai ceti meno abbienti e alle minoranze ad acquisire delle alte posizioni all’interno delle forze armate, avendo così la possibilità di competere per il potere statale.

Accanto all’aumento dell’influenza dell’esercito, dal 1950 la politica siriana fu caratterizzata anche dalla nascita di nuovi partiti politici che si allineavano con le ideologie dei settori popolari. Le tre forze più significative erano il Partito Baath, il Partito Nazionalista Sociale Siriano e il Partito Comunista Siriano. Le loro differenze ideologiche vertevano sul pan-arabismo e sul socialismo; il Partito Baath era ideologicamente impegnato per l’unità pan-araba, mentre il Partito Nazionalista Sociale Siriano, guidato dal greco-ortodosso Antun Saadeh, riteneva che un maggiore nazionalismo siriano avrebbe unito in una «mezzaluna fertile», che andava da Cipro al Libano via Siria fino all’Iraq, uno stato unico basato sulla condivisione di un patrimonio culturale comune, considerato sostanzialmente diverso da quello degli altri Stati Arabi. Secondo il Partito Nazionalista, questo avrebbe permesso la fondazione di una grande Siria. Per quanto concerneva la questione del socialismo, il Partito Baath si era impegnato per «l’unità, la libertà e il socialismo», ma rigettava le teorie marxiste.

In origine, il Partito Nazionalista Sociale Siriano non era una formazione politica di Sinistra, tuttavia in seguito acquisì una comunicazione più orientata verso un socialismo populista. Il Partito Comunista seguiva essenzialmente la leadership dell’Unione Sovietica, ma soffriva di divisioni interne causate dal rapporto con il Partito Baath.

Il nazionalismo arabo del Partito Baath, fondato dal Cristiano ortodosso Michel Aflaq (1910-1989) e dal musulmano sunnita Salah al-Din al-Bitar (1912-1980), si basava sull’obiettivo di unire tutti gli Arabi, definiti nei termini di un linguaggio e di una cultura comuni, in un singolo stato. Agli inizi, il Partito aspirava a sviluppare filiali in tutti i Paesi Arabi, la cui leadership era quindi suddivisa in un cosiddetto Comando Nazionale, una struttura di comando pan-araba fittiziamente responsabile di tutto il Partito, e un Comando Regionale, che concerneva la politica interna siriana. Tuttavia, dopo l’ascesa di Nasser in Egitto e la successiva ascesa del movimento pan-arabo nasseriano, la leadership storica del Partito Baath, che faceva riferimento ad Aflaq, decise di accettare il ruolo preponderante di Nasser. In seguito, il Partito si sciolse per preparare l’unificazione di Egitto e Siria durante la Repubblica Araba Unita, proclamata nel 1958 e dissolta nel 1961 dopo l’uscita della Siria. In seguito al fallimento di questo esperimento politico, i leader storici del Partito persero la maggior parte della loro precedente influenza.

Il Partito fu progressivamente sempre più controllato da un Comitato di ufficiali dell’esercito, di cui faceva parte Hafiz al-Assad. Questo gruppo prese il potere in Siria attraverso un colpo di stato l’8 marzo 1963. Un altro colpo di stato, il 23 febbraio 1966, consolidò l’ascesa del cosiddetto nuovo Baath e sbaragliò la vecchia leadership.

Il colpo di stato del 1966, in particolare, portò al potere un corpo collettivo di ufficiali baathisti, in maggioranza alauiti, guidati da Salah Jadid, in cui al-Assad aveva servito come Ministro della Difesa.

Sotto la guida di Jadid, il Partito Baath adottò un profilo di Sinistra, impegnandosi nella riforma agraria e nella confisca delle terre ai grandi proprietari terrieri. Questa scelta fu sostenuta dalla fondazione dell’Unione dei Contadini nel 1964, che divenne un pilastro dell’influenza baathista nel Paese.

Per quanto riguardava gli affari arabi, Jadid promosse l’impegno per una «guerra popolare» al fine di liberare la Palestina, offrendo supporto logistico ai militanti palestinesi nel loro conflitto con le autorità della Giordania. Questa alleanza non fu abbastanza forte da impedire la sconfitta militare di Egitto e Siria nella guerra dei Sei Giorni del 1967, con la grave perdita economica e strategica delle alture del Golan, da allora occupate da Israele.

Il 16 novembre del 1970, Hafiz al-Assad, di fede alauita, portò a compimento un altro colpo di stato, definito il Movimento Correttivo, che rimosse dal potere le sezioni più radicali del Partito Baath sotto la guida di Jadid. Ciò si rilevò una svolta decisiva per la storia della Siria moderna, infatti, in netto contrasto con i precedenti leader baathisti, al-Assad si mostrò in grado di costruire un sistema politico stabile che permise alla Siria di divenire un attore regionale influente. Al fine di spiegare questa trasformazione dello stato e della società, i fattori economici e politici devono essere considerati congiuntamente. In termini economici, la Siria iniziò a progredire dai primi anni Settanta, grazie all’espansione dei proventi derivanti dal petrolio, che beneficiavano dell’aumento del prezzo del greggio e delle migliori relazioni con i ricchi Paesi del Golfo, consentendo una rapida espansione del settore pubblico siriano. Successivamente, i lavoratori del settore pubblico usufruirono di un accesso privilegiato alle politiche sociali, quali l’assistenza sanitaria gratuita, il sistema pensionistico, i mezzi di trasporto pubblici, servizi sociali e alcuni alloggi pubblici. Inoltre, lo stato controllava i prezzi dei beni di prima necessità, come carburante, benzina, pane ed altri alimenti. In campagna, i proventi del petrolio furono utilizzati per fornire garanzie di prezzo per i produttori agricoli, permettendo così ai lavoratori rurali di partecipare alla crescita del tenore di vita. Nel complesso, gli anni Settanta si caratterizzarono per una rapida urbanizzazione e una transizione nel mercato del lavoro; infatti, agli inizi degli anni Settanta un lavoratore su due era impiegato nell’agricoltura, mentre alla fine del decennio era uno su quattro.

In termini di riorganizzazione politica, al-Assad impresse un cambiamento notevole, spostandosi da una leadership condivisa ad una autorità politica unica. Il nuovo sistema fu caratterizzato dal predominio del Presidente, che da solo assumeva la posizione di controllo di tutte le altre istituzioni. Molto probabilmente Assad era stato ispirato dall’esempio di Nasser in Egitto, che aveva avuto molto successo nello stabilizzare il suo Governo, impegnandosi a distribuire incarichi ad importanti funzionari, ma riservando a se stesso un esclusivo potere di coordinamento politico.

Con il nuovo sistema presidenziale, lo stato siriano si definì attraverso queste istituzioni: il Presidente, responsabile della Presidenza della Repubblica Araba Siriana, la cui carica aveva dei confini volutamente sfumati; l’esercito; i servizi di sicurezza, operanti in modo indipendente gli uni dagli altri e senza alcun coordinamento tra le agenzie; altre istituzioni convenzionali, che consistevano in un Governo con dei Ministri, guidato da un Primo Ministro e assistito da un Parlamento, l’Assemblea del Popolo; istituzioni corporativistiche del regime, quali il Partito Baath, gli altri partiti politici legali organizzati nel Fronte Nazionale Progressivo, fondato nel 1972, l’Unione dei Contadini, sindacati e corpi similari.

Pertanto, la caratteristica più significativa del sistema politico siriano fu la concentrazione del potere nella Presidenza. Il Presidente era il comandante in capo delle Forze Armate, controllava i servizi di sicurezza ed era il Segretario Generale del Partito Baath. Mentre il dominio politico del Presidente fu codificato formalmente nella Costituzione siriana del 1973, è importante considerare che tale carica si caratterizzava per la coesistenza di poteri formali e informali: il Presidente poteva governare per mezzo di ordinanze e decreti, avendo inoltre il diritto di presentare le leggi in Parlamento. Il Governo e i 14 governatori provinciali erano nominati dal Presidente e direttamente responsabili verso di lui. L’Esecutivo era costituito da un Primo Ministro e da un numero variabile di Ministri. La possibilità per il Presidente di intervenire nell’agenda politica dell’Esecutivo non si basava su istituzioni presidenziali determinate, in quanto le decisioni erano prese sulla base delle consultazioni con i consiglieri e con i gruppi di lavoro «ad hoc». Ne conseguiva che il Presidente Siriano era libero di plasmare autonomamente le prerogative del suo incarico; una leadership diretta poteva essere esercitata in ogni momento ritenuto idoneo, mentre l’autorità era delegata ad altre persone che detenevano tali posizioni in virtù della decisione presidenziale. Infatti, al-Assad decise di concentrare la sua attenzione sulla politica estera e sulla difesa, delegando la gestione economica e altre questioni interne ai consiglieri più stretti. In termini di effettivo esercizio del potere, alcuni osservatori hanno sottolineato come l’apparato informale di sicurezza, largamente basato su una lealtà settaria e direttamente responsabile verso il Presidente, si appoggiasse alle istituzioni formali dello stato. Per questo, molte cariche statali fungevano da facciata per i detentori del potere reale; in altre parole, il Governo ufficiale della Siria era una componente del regime siriano, ma non apparteneva necessariamente all’élite al potere. Inoltre, le diverse istituzioni formali e informali si sovrapponevano e si rafforzavano a vicenda; ad esempio, l’esercito godeva di una rappresentanza privilegiata nella direzione del Partito Baath che, a sua volta, si basava su una linea gerarchica in quanto sede di consultazione per il Presidente, che ne era il leader. Fino al 2012, anno della modifica della Costituzione, il Partito Baath, il «Partito guida nella società e nello stato» (articolo 8 della Costituzione siriana del 1973), fu spesso accusato di voler egemonizzare le istituzioni del settore pubblico, in ambito economico ed educativo, e le forze armate. In sintesi, il ruolo eccezionalmente forte del Presidente rendeva impossibile per le altre istituzioni formali applicare un sistema di pesi e contrappesi o porre il veto alle decisioni presidenziali.

È possibile affermare che l’ambito economico e politico fu fortemente influenzato dal contesto geopolitico regionale e internazionale; i ricavi del petrolio iniziarono a scendere nel 1980, allorquando gli equilibri della regione divennero instabili. Per questo, la Siria usufruì dell’assistenza finanziaria dei ricchi Stati Arabi del Golfo: per esempio, dopo la guerra del Kippur contro Israele nel 1973, al fine di sostenere la dottrina siriana della «parità strategica» con lo stato ebraico in ambito militare. È importante evidenziare che, sebbene l’esercito siriano si sia sviluppato come uno dei più forti nella regione, le basi economiche della Siria non sono mai state abbastanza forti da permettere il raggiungimento dell’obiettivo della «parità strategica».

Per quanto concerne la gestione dell’economia nazionale, all’inizio della sua Presidenza nel 1971 Assad cercò di stabilire migliori relazioni con i rappresentanti sunniti della tradizionale borghesia urbana. Durante l’intero periodo del suo Governo fino al 2000, la politica economica oscillò tra una maggiore liberalizzazione, come auspicato dalla tradizionale e nuova borghesia (regime-dipendente), e i provvedimenti correttivi a sostegno del settore pubblico, richiesti dai baathisti statalisti, innescando una concorrenza ciclica tra queste due componenti del regime. È plausibile sostenere che questo meccanismo abbia contribuito a contenere i meccanismi di Destra e di Sinistra del regime, ripartendo il potere e gestendo le varie istanze provenienti dall’interno del regime stesso. Nel tempo, questo processo ha condotto ad un aumento di influenza dei fautori della liberalizzazione. Si possono evidenziare vari punti di svolta a favore della liberalizzazione; ad esempio, la prima Infitah, termine arabo per «apertura», dopo l’ascesa al potere di Hafiz al-Assad nei primi anni Settanta, e la seconda Infitah basata sulla Legge sugli investimenti del 1991 erano certamente passi significativi verso un pluralismo economico in molti settori. Tuttavia, il regime non adottò mai una linea economica in netto contrasto con il settore pubblico, perché la natura stessa dello stato siriano esigeva una leadership basata sulla politica del settore pubblico e sul mantenimento di istituzioni corporative. Per ciò, gli esperimenti di liberalizzazione dell’economia rimasero sotto il controllo politico dello stato, che così si garantiva la sopravvivenza politica.

Per quanto concerne le misure in materia di integrazione politica, al-Assad ampliò la rete delle organizzazioni corporativistiche sotto la guida del Partito Baath al Governo. Questo processo può essere definito di integrazione dall’alto: le organizzazioni nasseriane e comuniste furono invitate a partecipare al Fronte Nazionale Progressivo ed ebbero anche delle rappresentanze nel Parlamento, sebbene gli unici Partiti ad avere un certo sostegno popolare fossero due fazioni del Partito Comunista. Anche la minoranza curda ebbe una rappresentanza parlamentare. Nel 1990, fu permesso alla nuova borghesia di utilizzare la Camera di Commercio nella sua interazione con il Governo.

Tale integrazione dall’alto fu contestata dall’opposizione. Le principali forze di opposizione siriana erano i Partiti laici della Sinistra e la Fratellanza Musulmana. Nel caso delle forze di Sinistra, esse avevano sofferto l’intensa repressione da parte del regime agli inizi degli anni Ottanta, da cui non si erano risollevate.

La Fratellanza era in origine caratterizzata da un’ala più radicale e da una più moderata, inoltre, era anche divisa secondo linee regionali e generazionali. A causa di vari eventi esterni, quali l’intervento del Governo – originariamente a fianco dei Cristiani maroniti – nella guerra civile libanese, l’ala radicale della Fratellanza prese il sopravvento, impegnandosi in un’agitazione contro il regime secolare imposto dal Partito Baath e in una campagna settaria armata contro la minoranza alauita tra il 1976 e il 1982.

Durante questo conflitto, la Fratellanza fu in grado inizialmente di ottenere un certo sostegno da parte di alcune compagini sociali che comprendevano artigiani, commercianti, e gli elementi della tradizionale borghesia urbana sunnita. Inoltre, alcuni ordini professionali, tra cui quelli dei medici, degli ingegneri e degli avvocati, furono influenzati dalla Fratellanza. Tuttavia, la radicalizzata e armata Fratellanza fallì nella lotta per il potere con il regime, in gran parte perché l’appoggio della società siriana era di portata limitata, infatti, anche al suo apice alla fine degli anni Settanta, non superò mai i 30.000 aderenti.

Né i lavoratori urbani impiegati nel settore pubblico né la popolazione rurale espressero mai un significativo sostegno alla Fratellanza. Inoltre, tale formazione politica non mise mai in campo dei seri tentativi per costruire una coalizione politica più ampia con le altre forze di opposizione; infatti, l’alleanza politica a breve termine con i Partiti laici di Sinistra agli inizi degli anni Ottanta mancò di credibilità, riflettendo in realtà una profonda scissione tra islamisti e laici, la cui coalizione si basava esclusivamente sull’ostilità verso il regime. Ancora più importante, gli islamisti accettarono l’assistenza finanziaria e militare straniera, principalmente dall’Iraq di Saddam Hussein, dalla Giordania, dall’Arabia Saudita e dagli stati conservatori del Golfo, per avviare una campagna di terrorismo urbano contro il regime, violenza che ebbe ben presto una rapida escalation con l’assassinio di un numero crescente di rappresentanti del regime e studiosi sunniti. Vi furono alcuni tentativi da parte del regime per addivenire ad un accordo con gli islamisti nel 1979, ma questi sforzi fallirono. Nel 1982, l’esercito siriano si scontrò con la Fratellanza nella città di Hama, mettendo fine all’insurrezione e sancendone la sconfitta. La sconfitta politica e militare della Fratellanza sottolineava la capacità del regime di Assad di contare ancora su un numero di sostenitori all’interno del Paese sufficientemente ampio e che la politica di auto-isolamento e di attacco armato degli islamisti era fallimentare, nonostante il notevole grado di supporto esterno che era stato offerto agli islamisti da una grande coalizione di potenze straniere desiderose di rimuovere Assad dal potere. Negli anni successivi al 1982 e fino alla sua morte nel 2000, Assad si impegnò per migliorare le relazioni con la comunità sunnita in generale e con i leader religiosi in particolare. Questa linea politica di accomodamento fu incentrata sugli sforzi per promuovere una leadership religiosa moderata, offrendo risorse statali per il programma di costruzione di una grande moschea. Uno dei risultati di questa linea politica, accompagnata da sforzi simili per sostenere delle buone relazioni con le altre religioni, fu un miglioramento del rapporto tra lo stato e i capi religiosi, relazioni messe da parte dall’ideologia secolarista del Partito Baath.

In sintesi, è possibile affermare che la prima decade del Governo di Hafiz al-Assad fu la più dinamica dal punto di vista economico, con alti tassi di crescita, tipici di quei Paesi che effettuano la transizione da un’economia prettamente agricola ad una industriale. In questo periodo, la Siria si impegnò nella riforma agraria e nell’industrializzazione, ma con risultati contrastanti: infatti, la portata della distribuzione della terra fu molto limitata, mentre ebbero maggior successo gli sforzi per aumentare la produttività dei terreni; al contempo, le numerose industrie di proprietà statale non erano abbastanza complete per creare dei legami forti tra i diversi settori, ed inoltre, molte erano in perdita fin dall’inizio della loro attività. Tuttavia, queste politiche rafforzarono l’autonomia economica del Paese e il compromesso sociale interno che si basava sul settore pubblico.

La successione del figlio di al-Assad, Bashar, alla carica di Presidente, dopo la morte del padre nel 2000, evidenziò come la classe dirigente siriana non desiderasse aprire alcuna contestazione per il potere tra i rappresentanti della vecchia leadership. Il nuovo Presidente, che al momento di assumere la carica aveva 34 anni, simboleggiava un cambiamento generazionale e l’apertura del Paese verso altre influenze culturali, dall’incremento dell’istruzione in lingua inglese nel sistema educativo all’introduzione di Internet. Subito dopo la successione presidenziale, i commentatori occidentali si focalizzarono sull’interrogativo se Bashar stesse semplicemente servendo le esigenze degli attuali detentori del potere. Tuttavia, divenne rapidamente evidente che era in corso un vero e proprio spostamento di autorità, dato che i ⅔ dei più importanti incarichi del regime furono riassegnati.

Una volta insediatosi, lo stile della leadership di Bashar si contraddistinse per un approccio graduale e misto; in termini di politica interna, rifiutò di impegnarsi in qualsiasi riforma politica fondamentale, sebbene un aumento della libertà dei media e la nascita di associazioni della società civile dimostravano un’apertura della società siriana, al contempo, in ambito economico continuò l’approccio graduale di liberalizzazione, già prevalso sotto suo padre. Tuttavia, è interessante notare come la liberalizzazione economica abbia conosciuto un significativo aumento dopo il 2005, sottolineando la deriva delle alte sfere della classe dirigente statale verso un’alleanza con la nuova borghesia.

In politica estera, la Siria continuò a far parte di un asse di resistenza con l’Iran e Hezbollah in Libano. Sostenitrice di un nazionalismo pan-arabo, supportava attivamente i movimenti palestinesi, richiedendo, inoltre, la restituzione delle alture del Golan da parte di Israele.

Subito dopo essersi insediato, il nuovo Presidente fu accolto da un movimento della società civile con un profilo di Sinistra, conosciuto come «primavera di Damasco». Questo movimento era guidato principalmente da intellettuali che chiedevano l’abolizione dello stato di emergenza, il rilascio dei prigionieri politici e l’introduzione di un sistema multipartitico in Siria. Tuttavia, gli intellettuali non furono in grado di raggiungere con le loro richieste i settori più ampi della popolazione e della classe dirigente statuale. Il movimento fu messo a tacere dalle forze di sicurezza nel 2001, con l’arresto di alcune persone con l’accusa di reati contro la nazione e contro le Leggi di sicurezza.

È importante evidenziare che ben prima dell’inizio delle manifestazioni contro il regime, vi era un profondo malessere tra la popolazione siriana. Le radici della guerra civile siriana sono complesse e stratificate e non possono essere comprese basandosi su identità settarie preesistenti e sulla divisione fra sunniti e sciiti. Ci sono almeno altre tre spiegazioni per la rivolta in Siria. In primo luogo, le proteste anti-regime, viste nella più ampia onda regionale delle mobilitazioni sociali e politiche stimolate dalla primavera araba, erano una risposta ad un regime autoritario governato attraverso Leggi di emergenza, clientelismo e corruzione endemica. In secondo luogo, le manifestazioni iniziali del marzo del 2011 nacquero da un crescente senso di frustrazione per le crescenti disuguaglianze sociali e il malgoverno all’interno della Siria. Dopo aver preso possesso della carica presidenziale, Bashar al-Assad accelerò il processo di liberalizzazione economica del padre, avendo come obiettivo politiche neoliberiste più ampie, volte alla privatizzazione dei beni pubblici, del settore finanziario, e all’incoraggiamento degli investimenti di capitali stranieri in Siria. Queste riforme, che ebbero una trazione supplementare dopo il ritiro dal Libano nel 2005, condussero ad una crescita economica – in parte sostenuta dall’incremento globale dei prezzi del petrolio – e ad un picco di investimenti esteri. Tuttavia, come le contemporanee riforme liberiste in altri Paesi Arabi, il movimento verso il mercato trascurò una equa distribuzione del reddito e la protezione sociale. Di conseguenza, la liberalizzazione economica non portò ingenti fondi verso la produzione industriale e l’agricoltura locale, non riuscendo quindi a generare una sostanziale occupazione, ma facendo invece emergere una forte disuguaglianza reddituale tra i principali centri urbani e le periferie.

In terzo luogo, le condizioni di vita della classe media inferiore e della classe operaia siriana, soprattutto di coloro che vivevano nella periferia geografica del Paese, si erano già deteriorate negli anni precedenti il 2011, a seguito dell’inflazione, del calo del prezzo del petrolio, e della contrazione dei sussidi da parte di Damasco. Questo deterioramento fu aggravato da una «governance» fallimentare e dalla corruzione a livello locale.

Vi è stata, inoltre, una diminuzione dell’efficacia del settore della sicurezza, ma non della sua brutalità. Al contempo, il Governo locale era divenuto l’incarnazione di una cultura predatoria, in cui le risorse non erano distribuite ma scremate a beneficio di pochi. Questa dinamica di sviluppo ineguale, corruzione, e diseguaglianza centro-periferia spiega le radici della rivoluzione in Siria, mostrando dei parallelismi tra la manifestazione politica che scatenò il risveglio arabo in Tunisia e il ciclo iniziale di proteste in Siria. Allo stesso tempo, non possono essere trascurate le faglie settarie come ulteriore fattore che contribuì ad aumentare le tensioni interne, stimolate dalla combinazione di elementi strutturali, politici e economici.

Negli ultimi decenni, l’accesso individuale e comunitario al potere e ai privilegi si era correlato strettamente con le identità settarie. Storicamente, il regime di Hafiz al-Assad si basava su una combinazione di repressione e cooptazione per assicurare la permanenza al potere, mantenendo una forte aderenza di tutte le istituzioni di Governo e dell’apparato coercitivo. Una strategia chiave per il mantenimento del regime era stata quella di premiare minoranze come drusi, ismaeliti, e soprattutto alauiti – che rappresentano circa il 10% della popolazione siriana – con un accesso sproporzionato al potere e ai privilegi. Allo stesso tempo, il limite esclusione/inclusione non era determinato solo da politiche settarie e di identità; entrambi gli Assad usarono le riforme economiche per consolidare il potere, la stessa liberalizzazione fu uno strumento per ampliare le basi di sostegno del regime, garantendo la fedeltà dei beneficiari di tali riforme economiche, vale a dire la classe superiore urbana sunnita. Le élite economiche cristiane e sunnite di Damasco, e in misura minore di Aleppo, ottennero un maggior accesso al potere politico, processo facilitato dalla crescita di una generazione di ufficiali fedeli a Bashar ed impegnata nel suo progetto politico ed economico. Lo stesso matrimonio tra Bashar al-Assad e la Siro-Britannica Asma al-Akhras, appartenente ad una benestante famiglia sunnita originaria di Homs, simboleggiava l’alleanza tra l’élite militare e politica alauita e l’élite finanziaria sunnita.

Le proteste iniziali del 2011 non avevano come obiettivo delle richieste settarie, infatti il loro fine era un vero cambiamento sociale, economico e politico. Le proteste iniziarono nella periferia Sud-Ovest della città di Dara’a, una città rurale e povera, per poi diffondersi a macchia d’olio in tutta la Siria.

Incominciate come proteste non violente, il confronto si fece rapidamente violento, e ancora più rapidamente passò da una connotazione prettamente politica ad una confessionale. La comprensione di questa metamorfosi in un conflitto settario violento richiede un’analisi della strategia politica deliberatamente adoperata dal regime siriano e, forse meno deliberatamente, dalle potenze straniere presenti sui diversi fronti della guerra civile. Queste strategie politiche hanno mobilitato fratture settarie preesistenti, spinte in primo piano dal conflitto.

La strategia del regime di Assad per trattare con l’opposizione interna ebbe varie componenti: violenta repressione delle proteste, unita a vaghi cambiamenti politici, e una campagna mediatica che accusava l’opposizione di estremismo e terrorismo, al fine di mobilitare le minoranze a fianco del regime.

Se si guardano le proteste attraverso le lenti della sicurezza, il regime di Assad si basava su una strategia deliberata e abbastanza completa per indurre la paura. Questa strategia intendeva sopprimere tutti i tipi di mobilitazione, per mezzo di rappresaglie contro le comunità e le zone in cui si fosse verificato l’attivismo anti-regime, arrestando, torturando e uccidendo i leader della protesta, e intimidendo i sostenitori della rivolta. Questa campagna sempre più brutale giocò un ruolo chiave nello spingere l’opposizione da una protesta non violenta ad una violenta, inoltre, la militarizzazione del conflitto è servita ad Assad per avere opzioni più ampie nel trattare con l’opposizione, dal momento che un regime autoritario è meglio equipaggiato per affrontare un’opposizione violenta che una prolungata lotta non violenta.

L’escalation di violenza permise al regime di preservare le sue basi di sostegno, infatti, soffiando sul fuoco del settarismo, chiamò a raccolta le principali minoranze del Paese, con la notevole eccezione dei Curdi. Il regime affermò astutamente che, in caso di vittoria dell’opposizione estremista sunnita, vi sarebbero state notevoli minacce per la sopravvivenza di quelle comunità.

Lo spettro dell’estremismo settario sunnita era riuscito a garantire la fedeltà delle piccole ma importanti minoranze all’interno della Siria, tra cui i drusi, gli alauiti e crescenti porzioni della comunità cristiana. Assad rafforzò pericolosamente anche la dimensione settaria del conflitto basandosi su gruppi paramilitari di difesa, appartenenti per la maggior parte alla comunità alauita.

Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare il sorgere del settarismo come causato interamente dal regime; infatti, l’opposizione ad Assad ha fatto la sua parte per contribuire a questa tendenza, anche se la Coalizione Nazionale Siriana delle Forze dell’Opposizione e della Rivoluzione, organismo politico riconosciuto come il rappresentante del popolo siriano, e intellettuali come Radwan Ziadeh avessero sottolineato la dimensione inclusiva e non settaria del loro progetto. Tuttavia, nella pratica i gruppi jihadisti e salafiti hanno acquisito sempre maggior influenza, divenendo importanti settori dell’opposizione anti-Assad, di cui sono documentate le atrocità commesse contro le minoranze cristiane e alauite.

Il rafforzamento del campo radicale dell’opposizione è correlato ad un altro elemento principale del settarismo in Siria, l’influenza e il ruolo di attori esterni. Il sostegno finanziario e il supporto al campo islamista da parte dei Paesi del Golfo ha incrementato il potere degli islamisti rispetto ad altri settori dell’opposizione. Tale supporto contribuisce direttamente alle dinamiche settarie della guerra civile; in effetti, il settarismo in Siria e nella regione non può essere compreso senza studiare il ruolo che la geopolitica regionale ha giocato nel plasmare il conflitto siriano e le sue dinamiche interne, trasformando gradualmente la Siria in un campo di battaglia «per procura» e in una guerra settaria.

Il conflitto in Siria appare oggi come un’estensione della guerra fredda regionale tra Arabia Saudita e Iran, che li vede coinvolti anche nella contemporanea guerra civile dello Yemen. La politica estera dell’Arabia Saudita è divenuta sempre più assertiva, per quanto riguarda il risveglio arabo, dopo il suo intervento militare nel 2011 a sostegno della Monarchia sunnita del Bahrain contro un’opposizione politica sciita. Il crescente interesse e coinvolgimento dei Sauditi in Siria è una reazione ad una combinazione di tendenze che percepiscono come preoccupanti; queste includono l’avversione tradizionalista per l’ondata rivoluzionaria che stava agitando il mondo arabo nel 2011 e per le forze politiche che spingevano per la democratizzazione; la profonda apprensione per l’espansione del ruolo regionale dell’Iran. In questo contesto, Riad vede il supporto per l’opposizione anti-Assad e il cambio di regime in Siria come strumenti cruciali per indebolire l’influenza iraniana nella regione, privando Teheran del suo principale alleato arabo e tagliando le linee di supporto a Hezbollah in Libano.

Per l’Iran, sussiste un calcolo simile sulla necessità di preservare la sua influenza regionale, perciò ha investito pesantemente sulla sopravvivenza del regime di Bashar al-Assad. Nel caso di prevalenza dell’alleato di Teheran a Damasco, i Sauditi temono un cambiamento inarrestabile a favore dell’Iran e dei suoi alleati regionali, in particolare Siria e Hezbollah. La crescente instabilità della regione e l’ambizione nucleare iraniana spingono l’Arabia Saudita verso una politica più assertiva che utilizza il settarismo per galvanizzare gli Arabi sunniti contro gli sciiti, guidati dall’Iran.

Anche se le preesistenti tensioni tra sunniti e sciiti e tra l’Iran e l’Arabia Saudita contribuiscono all’animosità e agli attacchi al vetriolo da entrambe le parti, il loro attuale livello di coinvolgimento e l’impegno in Siria non possono essere compresi senza riconoscere la loro importanza strategica per entrambe le parti; in altre parole, il settarismo senza la geopolitica non è sufficiente a spiegare le politiche saudite e iraniane in Siria. Inoltre, più lungo sarà il conflitto, meno il prisma sunniti-sciiti sarà in grado di catturare la piena realtà siriana. La crescente frammentazione del conflitto all’interno della Siria va ben al di là della dimensione confessionale; infatti, tale frammentazione riflette e aumenta le dinamiche geostrategiche in Medio Oriente, contribuendo al ridisegno delle alleanze e al riequilibrio regionale del potere.

Attualmente ci sono tre blocchi principali all’interno della regione coinvolti nel conflitto siriano. Le linee di fratture tra questi blocchi sono determinate più dagli interessi geopolitici che dal settarismo. Il primo blocco, comunemente denominato «asse della resistenza», è composto da Iran, Siria e Hezbollah; dopo aver perso il sostegno dei sunniti di Hamas nel 2013, questo asse ha acquisito connotazioni sempre più settarie. Tuttavia, è importante osservare come gli alauiti non siano sciiti nel senso religioso del termine, infatti sono stati riconosciuti come sciiti dal punto di vista politico nel contesto della guerra civile libanese e con l’avvento dell’Iran di Khomeini nel 1980.

Il conflitto siriano ha anche galvanizzato un risveglio sunnita che ebbe inizio a Tunisi alla fine del 2010. In realtà, sono emersi due diversi campi sunniti regionali: un’alleanza rivoluzionaria a favore della Fratellanza Musulmana e un’alleanza rivoluzionaria contraria alla Fratellanza. Esaltata dalla primavera araba, l’alleanza rivoluzionaria ha inizialmente incluso l’Egitto di Morsi, la Turchia di Erdogan, il Qatar, e Hamas a Gaza. Tuttavia, questo campo appare decisamente fluido, soprattutto dopo la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e l’impatto negativo della transizione politica egiziana su Hamas.

Il campo contrario alla Fratellanza Musulmana comprende le Monarchie interessate al mantenimento dello status quo al proprio interno, Emirati Arabi, Kuwait e Giordania, oltre all’attuale Governo Egiziano del Generale el-Sisi. L’Autorità Palestinese, anche se marginale, è parte di questo blocco.

Per quanto riguarda il conflitto siriano, sia il campo rivoluzionario sia quello interessato al mantenimento dello status quo sunnita intendono rimuovere Assad dal potere, fornendo finanziamenti e supporto a diversi segmenti dell’opposizione, favorendone le divisioni interne. Il principale sostenitore estero dell’opposizione, l’Arabia Saudita, appoggia sia la Coalizione Nazionale e l’Esercito Libero Siriano, ufficiali che hanno disertato dall’esercito regolare e combattono contro il Governo, sia i loro rivali salafiti. Alcuni gruppi dell’opposizione hanno legami con network transnazionali jihadisti-salafiti, come il Fronte di Al-Nusra, l’ala fondamentalista del radicalismo sunnita, che intende rovesciare il regime siriano per instaurare uno stato islamico basato sulla Sharia e che rappresenta il braccio locale della rete di Al-Qaeda in Siria. Questi gruppi contribuiscono a rafforzare le linee di faglia esistenti nelle file dei ribelli, accrescendo ulteriormente la frammentazione dell’opposizione.

Risulta importante soffermarsi anche sull’ISIS, la formazione terroristica divenuta sempre più un attore fondamentale della crisi siriana. Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante è una organizzazione terrorista stanziatasi nel territorio desertico, ricco di petrolio e gas, che circonda i fiumi Eufrate e Tigri della Siria e dell’Iraq. L’ISIS è una mutazione dei gruppi salafiti-jihadisti guidati in Iraq da Abu Musab al-Zarqawi e da altri comandanti, la cui ultima iterazione è lo Stato Islamico in Iraq guidato dall’Iracheno Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato Islamico è entrato nel campo siriano dopo che il Fronte di Al-Nusra rifiutò di impegnarsi in una fedeltà esclusiva verso al-Baghdadi. Con una mossa audace, l’ISIS dichiarò unilateralmente che, nonostante la leadership di Al-Qaeda in Afghanistan, avrebbe avuto la responsabilità di guidare il Fronte Al-Nusra in Siria, da qui una profonda spaccatura con tale organizzazione che non ne riconosce l’autorità e ha dichiarato di seguire soltanto le direttive della centrale di Al-Qaeda. Come Al-Nusra, l’ISIS si è impegnata a stabilire uno stato islamico; per perseguire questo obiettivo ha dichiarato la fondazione del Califfato nel giugno del 2014, invitando i musulmani di tutto il mondo a migrare verso i suoi territori. A differenza del Fronte Al-Nusra, le ambizioni dell’ISIS sono esplicitamente più transnazionali, con un rifiuto completo del concetto di stato-nazione. Gli obiettivi a breve termine comprendono la distribuzione di risorse umane e materiali nel territorio che controlla, per consolidare il proprio potere, raccogliere fondi per l’acquisizione delle armi e costruire una base di appoggio in cui formare la futura generazione di combattenti. L’intento genocida nei confronti delle minoranze, basti ricordare le stragi di Cristiani e yazidi, la sua rapida espansione, e la minaccia dei confini internazionali hanno condotto ad un intervento internazionale nel settembre del 2014. Dal punto di vista prettamente politico, l’ISIS è un nemico comune per il regime di Assad e per i Curdi.

Questo breve excursus riguardante i diversi attori del Medio Oriente coinvolti nella guerra civile siriana mette in luce i limiti dell’approccio esclusivamente bipolare sunniti-sciiti per descrivere la realtà del conflitto. La geopolitica regionale detiene, quindi, strumenti più idonei per spiegare le dinamiche in evoluzione sul terreno. La guerra civile in Siria è oggi una «guerra per procura» regionale complessa e sempre più frammentata, in cui i principali blocchi hanno deciso che la loro vittoria sul campo di battaglia «per procura» migliorerà la loro potenza regionale e indebolirà gli avversari.

Il potente mix di settarismo, geopolitica, e frammentazione alimenta ripercussioni profonde e potenzialmente a lungo termine sia in Siria sia nella regione. La guerra civile si è evoluta in diverse lotte parallele: un conflitto verticale tra il regime e l’opposizione, una «guerra per procura» regionale tra Iran e Arabia Saudita, una lotta orizzontale tra le forze ribelli su chi rappresenti l’opposizione, una opportunità per i Curdi di ottenere l’autonomia.

La frammentazione influisce sulle prospettive per porre fine alla guerra e avviare una transizione politica. Al contempo, il settarismo, come la frammentazione, ha un effetto tossico sulla risoluzione del conflitto, tanto più che la convergenza di interessi geopolitici e nazionali ha aumentato la posta in gioco sia per Assad e i suoi sostenitori sia per i gruppi di opposizione. La guerra civile sta divenendo sempre più un conflitto a somma zero, per questo vi è un aumento delle atrocità di massa, di crimini contro l’umanità e di atti di vera e propria pulizia etnica.

I costi per il Medio Oriente sono stati notevoli; in Iraq, gli estremisti sunniti affiliati ad Al-Qaeda hanno ripreso vigore, aggravando pericolose divisione settarie, al contempo il Libano, divenuto sempre più instabile a causa della guerra in Siria, affronta una paralisi politica disfunzionale, con un inasprimento del settarismo e una crescente inquietudine all’interno delle comunità sunnite e sciite per l’aumento del salafismo e il massiccio afflusso di rifugiati siriani.

A livello geopolitico, le linee di faglia tra pro e anti-Assad hanno posto le basi per un equilibrio regionale particolarmente incerto, con implicazioni deleterie per la relazioni sciiti-sunniti.


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(aprile 2017)

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