La politica estera della Turchia in Medio Oriente
Un’analisi storica della nascita della leadership politica neo-ottomana

Dopo molti decenni di passività e negligenza verso il Medio Oriente, la Turchia è divenuta un attore fondamentale della regione. Per la maggior parte della sua storia nazionale repubblicana, la Turchia non ha considerato il Medio Oriente una priorità della sua politica estera; l’ideologia ufficiale della Repubblica, il Kemalismo, respingeva il mondo islamico perseguendo un percorso esclusivamente occidentale. Questo orientamento unilaterale ha iniziato a modificarsi con la fine della Guerra Fredda, parallelamente al configurarsi dei nuovi contesti geostrategici, con le minacce e le opportunità provenienti dagli Stati che circondavano il Paese. Di conseguenza, prima sotto la leadership di Turgut Özal (Primo Ministro 1983-1989, Presidente 1989-1993), poi sotto la guida del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, AKP Adalet ve Kalkinma Partisi, la Turchia è stata progressivamente sempre più coinvolta nelle vicende mediorientali. Negli anni più recenti, Ankara ha adottato un approccio più attivo verso il conflitto israelo-palestinese; ha partecipato alle missioni NATO e ONU rispettivamente in Afghanistan e in Libano; ha assunto una posizione di leadership all’interno della Conferenza dell’Organizzazione Islamica; ha partecipato a diverse conferenze della Lega Araba; ha stabilito legami sempre più stretti con l’Iran, l’Iraq, la Siria; e ha migliorato le sue performance economiche, politiche e diplomatiche con la maggior parte degli Stati arabi e musulmani.

Tutto questo è avvenuto in un periodo storico in cui il Medio Oriente sta affrontando grandi sfide e trasformazioni significative.

Il presente contributo intende analizzare la nuova politica estera della Turchia partendo dal principio che il posizionamento geopolitico di uno Stato è forgiato internamente dall’ambiente politico e a livello sovranazionale dalle minacce e dalle opportunità presentate dal contesto geostrategico regionale e globale; la quantità di potere conferito ad un Governo e l’opinione pubblica interna influenzano altresì in modo significativo l’approccio internazionale di un Paese.

L’impulso iniziale per la democratizzazione in Turchia ebbe luogo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. La minaccia sovietica rese l’alleanza occidentale guidata dagli Stati Uniti indispensabile per la sicurezza della Turchia. In questo contesto geopolitico, l’introduzione di un regime parlamentare fu facilitata dalla rivalità tra le élite politiche, le cui differenze ideologiche non fecero diminuire l’impegno condiviso verso l’ideale repubblicano di occidentalizzazione. Il Partito Democratico, formato da un gruppo di politici che si era distaccato dal Partito Popolare Repubblicano che aveva fondato la Repubblica, costituì il primo Governo eletto democraticamente nel 1950 e governò il Paese fino al colpo di Stato militare del 1960. Il brand populista del Partito Democratico glorificò «l’uomo comune» e corresse gli «eccessi» del Governo a Partito unico del Partito Popolare Repubblicano (1922-1950), soprattutto attraverso varie restrizioni alla predicazione pubblica e alle espressioni dell’Islam sunnita.

I Partiti che hanno rivendicato l’eredità del Partito Democratico hanno vinto la maggior parte delle elezioni in Turchia nei decenni successivi, ad eccezione degli anni Settanta. Infatti, i Partiti di destra, di vario tipo, hanno governato la Turchia per la maggior parte del tempo dall’introduzione della democrazia elettorale. Al contrario, i Partiti di sinistra non sono mai riusciti ad ottenere le maggioranze parlamentari necessarie per un Governo a Partito-unico. Gli anni Ottanta vedono l’ascesa del Partito della Madrepatria, ANAP Anavatan Partisi, di Turgut Özal, che rimase al potere dal 1983 al 1991. Il periodo dal 1991 al 2002 è conosciuto come l’era delle coalizioni di Governo. Mentre nessun Partito di centro-destra riuscì ad ottenere l’egemonia elettorale in questo arco temporale, sia l’ANAP sia il Partito della Giustizia, AP Adalet Partisi, successore del Partito della Verità, rimasero al Governo del Paese. La vittoria del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo nelle elezioni del 2002 ha condotto al ritorno della regola del Governo di un singolo Partito, che ricorda gli anni di gloria del DP, dell’AP e dell’ANAP. L’AKP è stato fondato da politici che hanno trascorso i loro anni formativi negli ambienti islamici, acquisendo l’eredità del Partito Democratico.

Il tradizionale approccio della sociologia politica è quello di cercare le cause di questo vantaggio dei Partiti di destra turchi nelle configurazioni storiche delle relazioni statali e sociali, che pongono una élite con una stretta base sociale e un’agenda modernizzante in contrapposizione alle grandi masse che risentono di certi aspetti di questo programma. Mentre questa distinzione binaria semplificata non riesce a far luce sulla complessità della democratizzazione in Turchia, la sua attenzione specifica su una delle principali spaccature della Turchia si mostra molto acuta. Finché le forze politiche di destra si uniscono intorno ad un singolo Partito ed evitano la frammentazione non sono soggette a sconfitte elettorali. I Partiti di sinistra associati a questo programma modernizzante non hanno avuto successo nel raggiungere quei segmenti della società che conservavano valori conservatori e restavano credenti. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo appare come la più efficace formazione politica di destra.

Il dominio elettorale dei Partiti politici di destra ha implicazioni contradditorie per la democrazia turca, storicamente afflitta in primo luogo da esplicite disuguaglianze nell’accesso e nella rappresentanza del sistema politico e, in secondo luogo, da potentissimi poteri extra parlamentari che limitano i diritti dei parlamentari eletti. Per quanto concerne lo Stato turco esso conserva dei pregiudizi etnici, settari e secolari che ostacolano – a diversi livelli – la rappresentanza politica di un gran numero di cittadini. Riguardo a quest’ultimo aspetto, l’autonomia politica dell’esercito turco è stata una minaccia costante per la stabilità del sistema parlamentare e il rispetto dei diritti umani. Una sfida più recente è rappresentata da networks clandestini che esercitano un’indebita influenza sulla politica e sulla società civile. Un esempio di questi networks è il movimento del magnate Fethullah Gülen, il cui attivismo civile globalizzato è oscurato da schemi e cospirazioni perseguiti dai suoi membri negli apparati chiave della burocrazia, così come nel sistema giudiziario e tra le forze dell’ordine.

Come i Partiti di centro-destra dei decenni precedenti, come il DP di Adnan Menderes negli anni Cinquanta, l’AP di Süleyman Demirel negli anni Sessanta e l’ANAP di Turgut Özal negli anni Ottanta, l’AKP ha perseguito due obiettivi che tendevano alla democratizzazione del Paese. Tuttavia, a differenza dei predecessori, è riuscito ad ottenere un maggiore successo. In primo luogo, l’AKP ha revocato le leggi laiciste che ostacolavano la partecipazione pubblica dei credenti musulmani, un decennio dopo il 1997 quando l’intervento militare cercò di eliminare l’influenza islamica sulla politica nazionale. Strategicamente, l’AKP ha fatto suo il senso di vittimizzazione dei credenti musulmani, ottenendo la loro fedeltà incrollabile e rappresentandoli a tutti i livelli della società e dello Stato. Il breve periodo di detenzione di Erdoğan ha senza dubbio dato più autenticità alla pretesa del suo Partito di rappresentare i musulmani praticanti che erano stati i paria della Repubblica. L’AKP ha anche delimitato il potere dei militari, una forza che ha rappresentato una minaccia costante al pluralismo politico con la sua storia di ripetuti interventi e pratiche extragiudiziali. Nella sua lotta contro i militari, l’AKP ha avuto un sostegno significativo anche dal movimento di Gülen, dall’intellighenzia liberale e dall’opinione pubblica curda, e da attori stranieri chiave come l’Unione Europea (UE).

Risulta importante soffermarsi sulle caratteristiche salienti del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. L’analisi della politica dell’AKP può essere divisa in due parti; durante il primo periodo, l’AKP si è rivelata una forza politica durevole adottando degli obiettivi difensivi e redistributivi, obiettivi che comportavano alcuni programmi riformisti per contenere e smantellare il potere dell’establishment secolare e creare spazi per l’identità islamista/conservatrice della Turchia all’interno del tessuto politico della nazione. Nel secondo periodo, l’AKP era preoccupato di mantenere la sua posizione di potere e di espandere i suoi spazi di controllo sfruttando e approfondendo le divisioni della società civile e il costo dell’opposizione.

Durante il primo periodo, l’AKP ha mantenuto una attrattiva di ampio raggio divenendo il patrono politico per la borghesia islamica e i poveri urbani, proteggendo l’identità islamica dalla minaccia di aggressione laicista. Questi strati sociali richiedevano alcune riforme europeizzanti, civilizzanti e neoliberiste volte a smantellare l’establishment kemalista dello status quo che, a quel tempo, non serviva veramente ai settori non secolari della società. Lo smantellamento dell’establishment kemalista è stato usato anche per ridefinire la democrazia e mascherare l’ideologia paternalistica dell’AKP e la sua ricerca di potere.

I fondatori e l’elettorato dell’AKP erano disposti ad abbracciare il paradigma economico neoliberista che, come nel caso del neo populismo latinoamericano, avrebbe costituito la base per la costruzione del potere economico. Un grande impulso alla privatizzazione, un’importante riforma del welfare e una serie di modifiche giuridiche specifiche hanno permesso all’AKP di integrare settori marginalizzati informali e la borghesia conservatrice dell’Anatolia. L’AKP ha anche affrontato gli effetti negativi del suo programma neoliberista mobilitando gli apparati dello Stato, le fondazioni e le Organizzazioni non governative amiche per la distribuzione di alcuni beni di prima necessità come il carbone e il cibo ai bisognosi. In molti casi, i beneficiari di questo tipo di aiuto sociale non avevano alcun diritto legale per l’assistenza che ricevevano e ciò li esponeva alle pressioni di parte e alle ricompense politiche.

L’elemento più critico che ha agevolato la prospettiva paternalistica dell’AKP fu la missione difensiva a cui erano costretti dall’opposizione secolare. L’opposizione laica ha utilizzato con modalità infruttuose la dicotomia Islam/laicità, riproducendo la mentalità militarista del processo del 28 febbraio, che risaliva all’ultima parte degli anni Novanta, definendo l’identità islamica un nemico interno e mirando ad eliminarlo in modo da ripristinare il centro politico lungo le tradizionali direttrici kemaliste. Ciò ha condotto ad un’opposizione ridotta al laicismo, e ad un laicismo che aveva come obiettivo esclusivamente l’allontanamento e l’intimidazione dell’AKP e del suo elettorato conservatore. Da qui, l’associazione del secolarismo con l’autoritarismo e la missione difensiva dell’AKP.

La natura militarista dell’opposizione laica ha facilitato lo sviluppo di un circolo vizioso del potere politico, nel quale l’AKP ha potuto garantirsi il supporto e la fedeltà dell’identità conservatrice semplicemente potenziando se stesso, per prevenire un’aggressione laicista nel confronto con l’establishment kemalista. Ciò ha reso l’AKP meno soggetto alle richieste dell’elettorato conservatore, facilitando lo strutturarsi di un’organizzazione estremamente gerarchica con un esplicito atteggiamento paternalistico.

Questo circolo di potere politico ha anche permesso all’AKP di presentarsi come campione della democrazia e della democratizzazione con un’identità «conservatrice democratica», ma senza proporre un’agenda politica di vera democratizzazione. Questo perché né il potere extra politico dell’establishment kemalista né la sua classificazione dell’AKP come illegittimo erano congrui con una politica democratica. In un certo senso, obbligando l’AKP ad una lotta di potere per la propria sopravvivenza, l’opposizione laica ha reso possibile l’equiparazione tra la ricerca egoistica del potere politico da parte di questo Partito di matrice islamista e la democratizzazione.

Durante la seconda fase, dopo la vittoria dell’AKP contro l’establishment kemalista, il futuro della democrazia turca è stato lasciato alla mercé di questo partito, poiché tradizionalmente era l’apparato kemalista che fungeva da surrogato del meccanismo democratico di pesi e contrappesi, controllando l’apparato istituzionale da una posizione extra-politica per mantenere entro parametri predefiniti l’attività governativa. Anche l’opposizione laica, che si basava su questo apparato, ha dovuto attraversare un lungo processo di cambiamento prima di divenire un avversario valido per l’AKP. Inoltre, l’Unione Europea, mancando della volontà politica necessaria per l’adesione della Turchia nel 2004, ha perso la sua influenza politica sull’AKP e si è resa ridondante nell’interesse per la democratizzazione del Paese.

Dopo aver prevalso sull’apparato kemalista, l’AKP non era più in grado di presentare la ricerca personale del potere come democratizzazione. Questo ha reso il Partito ancora più esposto alle critiche, dall’interno e dall’esterno, per i suoi fallimenti, perdendo il sostegno di massa. Per ovviare a tale fragilità, l’AKP voleva che la popolazione affidasse ad esso la democratizzazione del Paese, ma l’elettorato non doveva valutarne la performance politica alla luce delle norme della democrazia. In effetti, il Partito ha elevato se stesso al di sopra delle critiche politiche democratiche, monopolizzando la democrazia e legando la stabilità democratica al mantenimento della propria posizione di potere. Per prolungare il potere politico ottenuto, l’AKP ha impiegato una strategia a tre livelli.

In primo luogo, il Partito ha evidenziato la performance passata come democratizzazione e modernizzazione del Paese, utilizzando slogan come «Target 2023» e «Nuova Turchia» per catturare l’immaginazione della popolazione. Così facendo, l’AKP ha enfatizzato lo sviluppo economico e l’ammodernamento delle infrastrutture: sono stati realizzati grandi progetti infrastrutturali come un terzo ponte sul Bosforo, gallerie autostradali e ferroviarie, un terzo aeroporto ad Istanbul, massicce iniziative di trasformazione urbana delle grandi città del Paese; frettolosamente si sono sviluppate produzioni di automobili e aeroplani nazionali, che rappresentavano la «Nuova Turchia».

La tradizione turca di Governi di centro-destra, che datava dal 1950 quando fu introdotto il multipartitismo, ha utilizzato lo sviluppo economico e la modernizzazione come progetti nazionali che, a differenza del progetto culturale modernizzante del regime a partito unico kemalista (1924-1946) alquanto impopolare, erano finalizzati al benessere della popolazione in quanto servizi alla nazione.

L’enfasi dell’AKP sul benessere economico e il miglioramento delle infrastrutture era in linea con la tradizione politica turca di centro-destra e certamente in consonanza con una parte considerevole della società turca.

Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo ha abusato della sua capacità e volontà di servire la nazione classificando il resto della classe politica come populista e anti-politica, rappresentando l’opposizione come ridondante e ostruttiva. Il principio del «servizio alla nazione» ha fornito all’AKP le basi attraverso le quali giustificare la ricerca di un Esecutivo predominante, essendo necessario, per il raggiungimento di questo grande balzo in avanti dell’economia, la possibilità di prendere decisioni molto velocemente senza vincoli giudiziari o di altro tipo. La ricerca di un Governo dominante ha ostacolato lo sviluppo di un’infrastruttura istituzionale basata su delle regole, nonché la realizzazione di riforme economiche molto necessarie. La gestione dell’economia è divenuta progressivamente più arbitraria, attraverso la distribuzione clientelare dei contratti statali con un conseguente aumento della corruzione.

Il secondo aspetto della strategia di potere dell’AKP è stato volto ad oscurare i suoi fallimenti democratici, disciplinare l’elettorato islamico/conservatore, prevenendo le critiche all’interno e all’esterno, e rendendo la critica politica incondizionatamente un comportamento ostile. Il Partito ha utilizzato le categorie sociali assegnate e costituite della società turca come strumenti per la strategia di potere; infatti, l’AKP ha sviluppato un’identità polarizzata e uno stile combattivo strumentalizzando l’Islam. Di conseguenza, sono stati vilipesi e declassati i settori laici filo-occidentali della società, attraverso un linguaggio aggressivo, moralista e populista che ne ha respinto la rappresentatività politica. La nuova narrazione della storia nazionale come una lotta di democrazia tra la società musulmana turca e l’élite laica autoritaria ha aiutato l’AKP a rappresentarsi come intrinsecamente democratico, e ad associarsi alla restaurazione di una presunta e sottomessa con la violenza identità musulmana del Paese. La «prospettiva di civilizzazione» dell’AKP consisteva nella restaurazione islamista che doveva correggere gli errori di centinaia di anni di secolarizzazione. Di conseguenza, la seconda strategia dell’AKP è stata quella di dividere la società tra cittadini/nativi e non cittadini/non indigeni, e squalificare questo secondo gruppo definendolo eurocentrico e islamofobo, aperto alla collaborazione con le «forze del male» al solo scopo di danneggiare il potere dell’AKP. Tale pratica politica ha approfondito non solo le divisioni nella lacerata società turca, ma ha anche mostrato che la costruzione di una società pluralista di individui eguali non è la regola politica dell’AKP.

In terzo luogo, l’AKP ha intrapreso un percorso per ridisegnare le istituzioni politiche della Turchia in conformità con una democrazia maggioritaria, che considera il mandato popolare come una licenza per governare sciolti da vincoli; la conseguenza di questa strategia è stata la concentrazione del potere nelle mani del Partito al Governo e contemporaneamente l’aumento del costo dell’opposizione e della critica politiche. In molte occasioni, i leader dell’AKP hanno chiarito che ritengono l’elezione di un Governo da parte della popolazione un fattore sufficiente per poterlo definire democratico in sé e che la formula del «servizio per la nazione» era la norma per tutti gli apparati dello Stato, compresa la magistratura. Una tale concezione della democrazia ha consentito all’AKP di difendere la soglia elettorale di sbarramento del 10%, la ricerca di una supremazia dell’Esecutivo a spese della divisione dei poteri, la limitazione delle libertà civili, la delegittimazione dell’opposizione, ed ancora la pretesa di essere una forza democratica e di democratizzazione.

La nuova leadership politica e istituzionale apriva una nuova fase anche nella politica estera del Paese.

Nel corso dell’ultimo decennio la Turchia si è rivelata un attore importante del Medio Oriente, intraprendendo una serie di missioni di mediazione e avendo voce su questioni come il conflitto israelo-palestinese e il programma nucleare iracheno. Questa nuova presenza in Medio Oriente è stata vagamente definita neo-ottomana o un abbandono dell’Occidente in favore dell’Oriente. Altri l’hanno interpretata come il risultato della disillusione dopo il blocco del processo di adesione all’Unione Europea o il desiderio di intraprendere una politica estera indipendente dagli Stati Uniti.

Infatti, il nuovo attivismo della Turchia in Medio Oriente, e nel mondo in generale, è guidato da due fattori importanti. Il primo è il profondo cambiamento strutturale che ha trasformato l’economia turca, prima rivolta al suo interno poi verso una robusta esportazione, impegnata dunque nella continua ricerca di nuovi mercati. Il secondo fattore riguarda il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, AKP Adalet ve Kalkinma Partisi, la cui leadership ambisce a trasformare la Turchia in un attore basilare del contesto geopolitico globale. Altri sviluppi, come l’invasione dell’Iraq nel 2003 e il declino dell’influenza dei militari, hanno aiutato l’AKP a deviare con successo la politica estera turca dalle sue ossessioni precedenti, la questione curda e l’Islam.

Alcune delle modifiche apportate alla politica estera erano in corso prima della vittoria alle elezioni nel 2002 dell’AKP, tuttavia, il Partito del Presidente Erdoğan ha fornito alla politica estera turca una parvenza di coerenza e di fiducia in se stessa. Negli anni successivi, l’AKP ha articolato la politica «zero problemi con i vicini» che annunciava l’apertura di rapporti con Paesi che fino ad allora erano stati considerati come rivali, se non ostili. Le relazioni sono migliorate con la Siria, l’Iran e altri Stati orientali. In Iraq, nel 2008, il Governo turco ha operato un cambiamento di 180° per stabilire delle relazioni con il Governo Regionale Curdo, KRG. La Turchia si è impegnata negli sforzi di mediazione tra Israeliani e Siriani, nonché tra le fazioni palestinesi.

Paradossalmente, la Turchia è emersa dalla trasformazione della sua politica estera come una potenza di status quo, profondamente radicata nella struttura del Medio Oriente. Questo nonostante le difficoltà sperimentate con Israele. La primavera araba è comunque servita per ricordare che la complessità del Medio Oriente può talvolta sopraffare l’agenda politica dei suoi attori primari. I costi delle rivolte tunisine ed egiziane sono stati limitati soprattutto a causa delle ridotte dimensioni delle relazioni economiche reciproche. Al contrario, le rivolte libiche e siriane hanno rappresentato uno shock per l’establishment turco; la Libia era un partner economico importante mentre la Siria era propagandata come un «caso» di successo della nuova politica estera. Entrambe hanno dimostrato, non con sorpresa, l’importanza che la nuova politica conferiva ai regimi autoritari della regione.

Quando l’AKP ha vinto le elezioni del 2002 con circa il 34% dei voti, ma con una maggioranza schiacciante in Parlamento, Erdoğan è stato molto attento nell’articolare una politica che dovesse diminuire le paure dell’establishment laico e degli osservatori esteri. Dopo tutto, Erdoğan e l’AKP erano gli eredi della linea dura islamista e il padre del movimento islamico turco, Necmettin Erbakan, era stato a capo della coalizione di Governo che aveva avuto una brusca fine nel 1997, attraverso un rovesciamento che i Turchi hanno sempre definito un colpo di Stato post-moderno. Il discorso di insediamento di Erdoğan verteva totalmente sull’indirizzo europeo della Turchia e sulla promessa di accelerare le riforme per ottenere lo status di candidato nell’Unione Europea.

Erdoğan e il Ministro degli Esteri Abdullah Gül erano stati stretti collaboratori di Erbakan, che aveva immaginato la creazione di un mercato islamico comune, una NATO islamica e così via. Mentre evidentemente non ebbe successo in questi tentativi, Erbakan riuscì a creare un’organizzazione chiamata D-8 o Developing 8, un gruppo di otto grandi Paesi musulmani. Il D-8 continua ad esistere ancora sebbene la sua influenza sia molto limitata.

Erdoğan e l’AKP, sotto lo sguardo molto vigile dei militari turchi, hanno intrapreso una politica estera orientata verso l’Europa. Entro due anni dalla vittoria elettorale, l’Unione Europea ha aperto i negoziati per l’adesione della Turchia. Questo è stato un grande risultato che era sfuggito ai Governi precedenti. L’interesse dell’AKP alle riforme dell’Unione Europea era connesso al desiderio di rimuovere la tutela militare sulla politica turca, che era stata usata come impedimento per i Partiti islamisti; infatti, l’establishment militare aveva bandito per due volte i predecessori dell’AKP.

La guerra in Iraq del 2003 è stato il primo test per il nuovo Governo; nuovo al potere, è stato sottoposto ad una tremenda pressione da parte degli Stati Uniti per l’apertura del fronte Nord contro Saddam Hussein, permettendo il passaggio delle truppe americane attraverso il territorio turco. Quando il Parlamento ha votato il 1° marzo 2003 contro lo schieramento delle truppe straniere, a quanto pare per un errore «aritmetico», la fortuna ha impedito al Governo dell’AKP di commettere un errore che avrebbe potuto essere nefasto per il suo futuro.

L’AKP ha approfittato del vuoto creato dalla guerra promossa dall’amministrazione Bush in Iraq per emergere nella diplomazia mediorientale. La Turchia, avendo da tempo relazioni anche con Israele, poteva vantarsi di essere in rapporti cordiali con tutti i Paesi dell’area; infatti, è interessante notare come sia gli Israeliani sia i Siriani abbiano utilizzato i buoni uffici della Turchia per avviare una serie di negoziati in un momento in cui la diplomazia regionale sembrava in una fase di stasi. Questi colloqui portarono a dei passi in avanti, nonostante tutti i partecipanti fossero consapevoli che qualsiasi accordo definitivo avrebbe richiesto la partecipazione e l’approvazione degli Stati Uniti.

I colloqui israelo-siriani non furono l’unico esempio del nuovo approccio turco. La Turchia fu coinvolta anche nei negoziati durante il conflitto georgiano-russo, nel ritiro delle truppe siriane dal Libano e nei negoziati tra Israeliani e Palestinesi. L’impegno nella mediazione denotava lo sforzo dell’AKP per aumentare la visibilità e lo status diplomatico della Turchia. Ciò era essenzialmente in contrasto con le pratiche passate della politica estera turca; infatti, raramente si era spinta al di là di quello che era percepito come interesse nazionale. Un altro elemento di distinzione dai Governi precedenti è stata la volontà dell’AKP di detenere dei posti e delle posizioni nelle organizzazioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, da dove non era più presente dal 1960. Il Governo turco ha ottenuto posizioni di leadership nell’Organizzazione della Conferenza Islamica; lo stesso Erdoğan ha lavorato intensamente per acquisire un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La Turchia ha anche iniziato ad aprire nuove ambasciate e consolati in Paesi dove in precedenza non aveva alcuna sede diplomatica. Contemporaneamente, la Turkish Airlines si è impegnata nell’espansione delle destinazioni di volo per inserire l’aeroporto di Istanbul in un hub internazionale.

È stato durante il primo periodo del Governo dell’AKP che la nuova politica «zero problemi con i vicini» è stata articolata. La Turchia ha tentato di migliorare le sue relazioni con tutti i Paesi della regione, in particolare con i vicini più immediati come la Siria, l’Iraq, l’Iran e la Russia. Tuttavia, l’AKP era vincolata dall’establishment turco e soprattutto dall’apparato militare. Questo era maggiormente evidente in Iraq. La presenza permanente del gruppo di insorti turco, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK, nell’Iraq Settentrionale, permise all’apparato di sicurezza e al Presidente laico Ahmet Necdet Sezer il miglioramento dei rapporti con il Governo Regionale del Kurdistan.

Con la Siria e l’Iran, Paesi identificati come ostili alla Turchia, l’AKP si è impegnato molto per cambiare i rapporti, ottenendo maggior successo proprio con la Siria. Nel 1998, i Turchi avevano minacciato il Presidente siriano Hafez al-Assad con un’azione militare se avesse continuato a sostenere il leader del PKK, Abdullah Öcalan, a lungo protetto in Siria. Anche se il dispiegamento delle truppe al confine era stato un bluff, il regime di Assad non aveva molte possibilità ed espulse Öcalan. Nel 1999 Turchia e Siria hanno firmato l’Accordo di Adana che ha posto le basi per una maggiore cooperazione. Erdoğan ha intessuto dei rapporti molto stretti con Bashar al-Assad, sia personali sia politici. Per la Siria, che si trovava in un crescente isolamento internazionale dopo l’assassinio del Primo Ministro libanese Hariri, il riavvicinamento con la Turchia rappresentava una prospettiva di salvezza.

Sottostante all’apertura turca verso il Medio Oriente e il resto del mondo vi era la trasformazione fondamentale dell’economia turca. A partire dagli anni Ottanta sotto la leadership di Turgut Özal, la Turchia ha iniziato una vera metamorfosi del suo modello economico, abbandonando la strategia di sviluppo basata sull’importazione a favore di un’economia indirizzata verso l’esportazione, modificando anche la struttura socioeconomica del Paese. La conseguenza più importante delle riforme di Özal è stato l’emergere di una nuova classe di imprenditori che non basavano più le loro attività sugli appalti statali. Questi imprenditori erano lontani dai centri tradizionali del commercio e dell’industria come Istanbul e Izmir, provenendo soprattutto dall’interno dell’Anatolia. E proprio le nuove élite imprenditoriali, conosciute anche come le tigri dell’Anatolia, hanno rappresentato la spina dorsale dell’AKP, avendo un background culturale conservatore e religioso.

La ricerca di nuovi mercati di esportazione è divenuta dunque vitale per l’industria turca. Pertanto, per l’AKP il compito più importante per mantenere il sostegno di questo nuovo gruppo economico è stato non solo gestire efficacemente l’economia, ma anche aiutare a trovare nuovi mercati di esportazione. Per la Turchia ciò ha significato guardare oltre i mercati tradizionali. Anche se una percentuale importante delle esportazioni turche ha continuato a riguardare l’Unione Europea, questi mercati erano maturi, saturi e la loro crescita in fase di stallo; di conseguenza, la quota dell’esportazioni turche in Unione Europea è scesa dal 56% al 46% tra il 2006 e il 2010, soprattutto in quei mercati che avevano risentito maggiormente della crisi finanziaria del 2008, per esempio, le esportazioni in Germania e in Gran Bretagna sono diminuite rispettivamente del 26% e del 27%. È avvenuto quindi uno spostamento dell’economia turca verso le economie emergenti. Gli imprenditori turchi volevano sviluppare nuovi mercati e naturalmente la quota relativa delle esportazioni nell’Unione Europea è diminuita.

L’apertura verso il Medio Oriente deve essere dunque contestualizzata all’interno di questo nuovo scenario economico e politico. La Turchia ha firmato diversi accordi commerciali, tra cui alcuni di libero scambio, con Stati del Medio Oriente. Nel 2010, le esportazioni turche verso i Paesi della regione rappresentavano il 21,5% del totale. La crescita delle esportazioni turche verso l’area mediorientale non è avvenuta a discapito di altri mercati, infatti, questi nuovi mercati sono cresciuti in parallelo con l’espansione dell’economia turca, soprattutto durante gli anni di Governo dell’AKP. L’evoluzione del commercio turco-siriano era indicativa di questa tendenza. Il commercio siriano non era di primaria rilevanza per la Turchia, ma era indicativo quale parte di una strategia più ampia che riguardava l’incremento di tutte le esportazioni nel loro complesso. Nel 2000 la Turchia ha esportato soltanto 184 milioni di dollari in Siria; entro il 2010 era salita a 1,6 miliardi di dollari. L’AKP ha aiutato questo processo non solo con un sostegno attivo sotto forma di diplomazia economica ma anche con il proprio impegno verso il libero mercato. Il rapporto con l’Iraq era ancora più significativo; infatti, le esportazioni turche passarono da 829 milioni di dollari del 2003 agli oltre 6 miliardi di dollari nel 2010.

Il 2007 è stato un anno spartiacque per la Turchia. Erdoğan e l’AKP hanno adottato da allora una politica estera ancora più assertiva. In generale, si può affermare che questo era l’acme del consolidamento del Governo dell’AKP in Turchia, con una crescita economica che avrebbe portato il Paese tra i G20.

La politica estera emergente si basava su cinque caratteristiche: 1) la forte volontà dell’AKP e della sua leadership di elevare la Turchia a quello che definivano «uno Stato centrale» nella gerarchia globale, in pratica ad un ruolo geopolitico di primo piano; 2) la posizione strategica della Turchia per esercitare un’influenza sulle regioni adiacenti; 3) lo sviluppo significativo dell’economia turca; 4) l’esistenza di affinità storiche e culturali per costruire legami che finora erano stati ignorati nell’area mediorientale; 5) supporto dell’opinione pubblica interna.

Due sviluppi, tuttavia, hanno contribuito alla assertività della leadership politica dell’AKP: l’errata strategia dei militari che ha aiutato l’AKP a vincere le elezioni del 2007 e la frattura con Israele, molto condivisa dall’opinione pubblica interna.

Nel 2007, era giunta a scadenza la Presidenza di Sezer e il Ministro degli Esteri Abdullah Gül era il candidato più favorito per sostituirlo. I militari, che avevano sperato che chi avesse assunto questo alto incarico non fosse così strettamente affiliato all’AKP e la cui moglie non indossasse il velo, decisero di bloccarlo. Il Capo di Stato Maggiore rilasciò un memorandum sul sito web della sua istituzione avvertendo delle terribili conseguenze. Gli ufficiali parteciparono alla progettazione di dimostrazioni contro il Governo a livello nazionale. Non solo l’AKP non indietreggiò, ma indisse elezioni generali anticipate, che vinse ottenendo il 47% dei voti rispetto al 34% del 2002. L’opinione pubblica aveva effettivamente rifiutato di appoggiare i militari.

La nuova vittoria e l’umiliazione dei militari e dei loro alleati posero l’AKP nella condizione di poter attuare quelle riforme politiche che prima non aveva osato concretizzare. Il caso più emblematico è stato l’Iraq dove il Governo dell’AKP compì un capovolgimento di 180° nei suoi rapporti con il Governo Regionale del Kurdistan. Le relazioni commerciali tra la Turchia e il Governo Regionale del Kurdistan erano in espansione nonostante la freddezza delle relazioni diplomatiche; i leader curdi avevano deciso che i rapporti con Ankara, malgrado il problema curdo in Turchia, avrebbero offerto anche delle opportunità. La Turchia, tra i vicini dei Curdi Iracheni, aveva la politica più dinamica e l’economia più prospera. Inoltre, geograficamente, la Turchia, come candidato all’Unione Europea, forniva i collegamenti più diretti con l’Occidente.

Per l’AKP relazioni migliori con il Governo Regionale del Kurdistan offrivano la possibilità di migliorare i rapporti con la minoranza curda al suo interno; infatti, il Governo Regionale del Kurdistan era un’istituzione ampiamente rispettata dai Curdi Turchi ed aveva una notevole influenza su di loro. Il Presidente curdo Talabani e la leadership del KRG avevano consigliato ai Curdi Turchi di abbandonare la lotta armata in favore di un accordo negoziale con l’AKP, argomentando che la leadership attuale offriva le migliori chances per una soluzione pacifica.

L’establishment militare si era trovato intrappolato dall’accusa di aver dato vita ad una grande cospirazione multilivello. I procuratori hanno affermato che questa cospirazione, o cospirazioni, nota come Ergenekon, aveva coinvolto funzionari attivi, in pensione e civili che avevano pianificato un rovesciamento dell’ordine costituzionale. Con molti militari arrestati e messi sotto custodia, l’establishment militare era stato deprivato della sua grande capacità di avere un’influenza sulle questioni politiche nazionali ed estere. In effetti, con i militari che avevano perso la posizione posseduta in precedenza, l’AKP ha potuto usare la nuova libertà di azione per ridefinire le priorità della politica estera.

Dopo aver consolidato la propria posizione all’interno, l’AKP ha sfruttato le occasioni offertegli dal contesto geopolitico regionale. La prima di queste circostanze fu l’incursione di Israele a Gaza alla fine del 2008. Erdoğan reagì molto negativamente di fronte all’operazione «Piombo fuso» per due ragioni: in primo luogo, si sentiva personalmente tradito dal Primo Ministro israeliano Ehud Olmert che aveva visitato Ankara due giorni prima dell’inizio delle ostilità. La rabbia che imperversò nella regione per l’operazione israeliana condannò al fallimento anche i negoziati israelo-palestinesi proprio quando la Turchia pensava fossero sul punto di una svolta. Di conseguenza, la posizione ufficiale della Turchia verso lo Stato ebraico divenne negativa e Erdoğan fu considerato un supporter dei Palestinesi; il contrasto con Israele, partendo dallo scontro tra Erdoğan e Shimon Peres a Davos, era giudicato molto favorevolmente dall’opinione pubblica turca, inoltre, era attentamente utilizzato con grande effetto nella regione nel suo complesso. È interessante notare come la Turchia abbia sfruttato recentemente anche la dichiarazione del Presidente americano Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico, e il conseguente futuro spostamento da Tel Aviv alla Città Santa dell’ambasciata statunitense, per presentarsi di fronte al mondo arabo come supporter dei diritti del popolo palestinese.

La seconda opportunità fu offerta dalle crescenti tensioni derivanti dal programma nucleare iraniano. La Turchia non solo sostenne retoricamente la tesi iraniana che il programma nucleare era per uso civile e pacifico, ma che il vero problema erano le armi nucleari possedute da Israele.

Nel 2010, Ankara ha fatto un ulteriore passo in avanti collaborando con il Brasile, un altro membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per elaborare un compromesso con l’Iran, denominato Accordo per il reattore di ricerca di Teheran, TRR. Questo accordo annunciato dagli Iraniani, i Brasiliani e i Turchi era in conflitto con gli sforzi occidentali per applicare delle sanzioni ancora più restrittive a Teheran. La Turchia e il Brasile votarono contro le sanzioni in sede di Consiglio di Sicurezza in un momento in cui anche Russia e Cina avevano scelto di seguire gli Stati europei e gli Stati Uniti.

Ankara aveva deciso di firmare l’accordo poiché temeva in primo luogo, come molti altri nella regione, che un’eventuale escalation della crisi avrebbe aperto la strada all’intervento militare, con un effetto destabilizzante maggiore di quello avvenuto con la guerra in Iraq del 2003. Il caos avrebbe compromesso certamente i benefici economici e la prosperità interna del Paese, i risultati più importanti della politica dell’AKP e base del sostegno interno.

In secondo luogo, Ankara credeva – in parte a causa di un fraintendimento con la Casa Bianca – che l’accordo elaborato con il Brasile fosse esattamente ciò che i Paesi occidentali volevano. Tuttavia, al termine dei negoziati finali, la Turchia ignorava le motivazioni americane per non procedere. Gli Stati Uniti avevano lavorato faticosamente per ottenere il parere favorevole di Russi e Cinesi sulle sanzioni ed erano ansiosi di non mettere in pericolo questa rara collaborazione tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ed era proprio per questo che gli Iraniani, a loro volta, erano disposti a firmare un accordo per evitare ulteriori sanzioni. Il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu credeva che l’accordo avrebbe ottenuto sufficiente approvazione internazionale per allontanare le obiezioni americane. Tuttavia, Ankara aveva sovrastimato la sua influenza e la sua capacità; a margine del vertice dei G20 a Toronto, Erdoğan e Davutoğlu ebbero un incontro con il Presidente americano Barack Obama che chiarì come le ambizioni nucleari iraniane non fossero una questione irrisoria e criticò Ankara per aver perseguito un accordo. La risoluzione delle sanzioni era già passata, con Russia e Cina che avevano votato con i Paesi occidentali e la Turchia, alleata della NATO, che votava contro.

L’accordo TRR costituì il punto più importante di divergenza tra Ankara e i suoi alleati occidentali e creò gravi ripercussioni soprattutto a Washington. Per molti osservatori in Turchia e in Medio Oriente, tuttavia, il voto sulle sanzioni all’Iran e la rottura con Israele – approfondita dall’incidente della Flottiglia nel maggio del 2010 con la morte di nove cittadini turchi – erano segnali dell’uscita della Turchia dalla sfera di dominio della politica estera americana. È interessante notare che, per tutta la durata del contrasto con l’Occidente, l’AKP è stato molto attento a non perdere il consenso acquisito; infatti, non vi è mai stata l’intenzione, nemmeno solamente ipotizzata, che Ankara lasciasse le istituzioni occidentali, anzi, la Turchia ha insistito per una maggiore e più visibile partecipazione ad esse, specialmente alla NATO. In effetti, la politica estera turca prevedeva un impegno simultaneo su tutti i fronti. Anche la demonizzazione di Israele non comprometteva le relazioni commerciali tra i due Stati.

È importante soffermarsi brevemente sulla figura del Ministro degli Esteri, poiché è stato l’accademico Ahmet Davutoğlu ad introdurre il concetto di «neo-ottomanesimo» nel vocabolario della politica estera turca. Davutoğlu ha svolto un ruolo chiave nella «shuttle diplomacy» durante il conflitto Israele-Gaza nel 2008, esattamente ciò che aveva sostenuto come studioso di relazioni internazionali: cercare di creare una «profondità strategica» giocando un ruolo di leadership nel Medio Oriente. Il neo-ottomanesimo poggia sulla divisione del mondo tra Paesi centrali e periferici, e lo Stato più centrale di tutti è la Turchia, centrale nel Medio Oriente e nell’Eurasia. Il progetto di Davutoğlu non era quello di condurre la Turchia da un sistema regionale ad un altro, bensì di formare una regione intorno alla Turchia. L’assunto principale è che la Turchia non doveva essere più considerata il ponte tra Occidente e Oriente, ma in base alla influente posizione geopolitica.

La Turchia, in sintesi, ha cercato di mantenere aperte tutte le possibilità offerte dal contesto geopolitico della regione, attuando una politica estera bidirezionale; da un lato, con il suo «soft power», i legami commerciali e l’impegno diplomatico, la politica estera turca si è caratterizzata, dopo la guerra in Iraq, per la ricerca della stabilità e dello status quo, nonostante alcune limitate modifiche come nel caso dei territori palestinesi. D’altra parte, nonostante il desiderio di stabilità, Ankara è parte di un gioco competitivo multi-sfaccettato nella regione mediorientale. La Turchia aveva sostenuto l’Iran sulla questione nucleare e, in cambio, si aspettava che Teheran fosse più accomodante sui suoi interessi economici. Nel passato, le guardie rivoluzionarie avevano allontanato le compagnie turche dal principale aeroporto di Teheran e in generale le aziende turche avevano attraversato un periodo difficile in Iran. Inoltre i due Paesi erano divenuti dei feroci concorrenti in Iraq, sostenendo ognuno diversi candidati alle elezioni del 2010. Se Teheran ha conseguito un successo importante con la vittoria del suo candidato, il Primo Ministro al-Maliki, i Turchi, soprattutto per merito delle loro relazioni con il Governo Regionale del Kurdistan, hanno incrementato gli scambi commerciali.

La competizione per l’influenza si è estesa oltre l’Iraq, infatti, sia la Turchia sia l’Iran hanno tentato di assumere una posizione di leadership nel Medio Oriente. Ma, soprattutto dopo l’inizio della primavera araba, con le discussioni sul «modello turco», Ankara ha eclissato Teheran. Alla base di questa competizione vi sono motivazioni economiche, politiche, religiose e anche pure ambizioni nazionaliste. Tuttavia sarebbe erroneo valutare ciò come una concorrenza duale, perché l’Arabia Saudita ha cercato di contenere l’Iran e ha guardato con molto sospetto il nuovo attivismo turco nella regione. Paradossalmente, la Turchia e l’Arabia Saudita condividevano la convinzione che il Medio Oriente sarebbe stato in migliori condizioni se lasciato libero dagli interessi delle grandi potenze, in particolare degli Stati Uniti.

Le rivolte iniziate in Tunisia all’inizio del 2011 si sono rivelate le più importanti sfide per la nuova politica turca in Medio Oriente. Da un lato, non c’erano dubbi che l’opinione turca simpatizzasse con le popolazioni arabe che tentavano di liberarsi dalle dittature. D’altra parte, queste rivolte minacciavano i regimi con cui la Turchia aveva stabilito delle eccellenti relazioni. Tradizionalmente la Turchia e la Tunisia avevano forti legami, ma gli eventi politici a Tunisi si erano sviluppati troppo in fretta perché arrivasse una risposta politica da Ankara. Per l’Egitto era diverso; Mubarak ed Erdoğan non avevano mai avuto la stessa opinione su molte questioni, a partire da Gaza. Inoltre, il regime egiziano sospettava che Ankara intendesse inserirsi in aree considerate tradizionalmente sfere di influenza dell’Egitto. Ciò che ha reso il caso egiziano diverso da quello tunisino è stato l’importanza dei fattori economici: l’Egitto nel 2010 assorbiva il 2% delle esportazioni turche rispetto allo 0,6% della Tunisia. Tuttavia Ankara poteva permettersi un temporaneo rallentamento delle relazioni economiche con l’Egitto in attesa del cambio di Governo. Si può affermare che quanto più fosse stata velocizzata la caduta del regime di Mubarak, tanto più la Turchia avrebbe evitato ulteriori conseguenze economiche negative.

Gli effetti più negativi delle primavere arabe per la Turchia sono derivati dalla Libia e dalla Siria. Entrambi gli Stati rappresentavano solamente l’1,7% e l’1,6% rispettivamente delle esportazioni turche, ma in Libia le imprese turche avevano effettuato enormi investimenti nel settore delle costruzioni e Ankara dovette procedere all’evacuazione di circa 15.000 dei suoi cittadini bloccati dai combattimenti. La Siria rappresentava l’esempio perfetto della realizzazione pratica della politica estera di «zero problemi con i vicini».

In Libia, Erdoğan ha inizialmente resistito alle richieste del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro Gheddafi, rifiutando altresì di approvare qualsiasi operazione militare della NATO. È stato solo dopo le manifestazioni anti-turche nella città di Bengasi che la leadership turca ha deviato rapidamente dalla precedente posizione di politica estera, partecipando alle operazioni della NATO, a condizione che le truppe turche non fossero costrette ad intraprendere delle azioni militari dirette. Dopo la caduta del regime, il Ministro degli Esteri Davutoğlu aveva promesso circa 300 milioni di dollari al Consiglio Nazionale di Transizione libico.

Il dilemma per Erdoğan e l’AKP in Siria e in Libia era emblematico dell’approccio alla base della politica estera di «zero problemi con i vicini». Per aprire quei mercati alle imprese e agli investimenti turchi, prima visti con molto sospetto, la leadership dell’AKP aveva stabilito stretti legami con regimi che avevano un controllo completo della popolazione e dei territori. Anche se Davutoğlu aveva sottolineato che la democrazia e l’integrazione erano gli obiettivi cardinali della nuova politica estera turca a tutti i livelli, Ankara non aveva mai posto la democrazia come elemento prioritario delle sue relazioni diplomatiche. Per esempio, a seguito delle controverse elezioni in Iran del giugno del 2009, Ankara fu il primo Paese a congratularsi con il Presidente Ahmedinejad per la vittoria.

È stato comunque in Siria che la linea politica di «zero problemi con i vicini» ha riscontrato più difficoltà in seguito alle primavere arabe. Oltre ai rapporti personali intrecciati da Erdoğan con Bashar Assad, i rispettivi Governi avevano tenuto riunioni congiunte mentre lavoravano per integrare le relative economie. La Turchia era naturalmente il partner predominante di questa relazione economico-politica e il riavvicinamento siriano rappresentava l’esempio migliore della nuova politica estera turca.

Dopo l’inizio delle ribellioni in Siria, Ankara ha fatto notevoli pressioni sul regime siriano affinché attuasse rapidamente delle riforme per impedire che la rivolta prendesse ulteriore slancio, ma le aggressioni delle forze di sicurezza siriane nelle regioni confinanti con la Turchia si sono rivelate un errore strategico del regime baatista. L’assenza di significative riforme politiche in combinazione con un flusso di circa 12.000 rifugiati in Turchia ha reso impossibile per Ankara ignorare la crisi, anche se in precedenza Erdoğan aveva affermato che la crisi siriana era un problema interno. L’intensificarsi della violenza contro i manifestanti siriani durante il mese di Ramadan, un periodo di grande importanza religiosa e simbolica per il Primo Ministro turco, ha approfondito la diffidenza di Erdoğan verso Assad.

Le implicazioni degli sviluppi della crisi siriana erano molto preoccupanti per la Turchia; infatti, il flusso di rifugiati ha immediatamente ricordato le immagini dei primi anni Novanta, quando i Curdi Iracheni convergevano nelle regioni di confine turche e iraniane per sottrarsi agli attacchi del regime di Saddam Hussein.

Il regime di Damasco e il suo leader Assad apparivano molto indeboliti e rivelavano i limiti dell’influenza turca. Erdoğan aveva sollecitato Assad, sia nelle comunicazioni private sia pubbliche, ad introdurre delle significative riforme ed aveva inviato il suo capo dell’intelligence e, soprattutto, per due volte il Ministro degli Esteri Davutoğlu a Damasco per convincere il Governo siriano della necessità di un compromesso, ma senza alcun successo.

I flussi di rifugiati erano comunque soltanto la punta di un iceberg, infatti, Ankara era consapevole che la crisi siriana poteva deteriorarsi ulteriormente provocando una guerra civile ancora più settaria con una fuoriuscita di rifugiati più massiccia, evento che si sarebbe effettivamente realizzato. Inoltre l’imprevedibilità del regime di Damasco poteva scatenare una conflagrazione regionale, con il coinvolgimento dell’Iran, del Libano e di Israele.

Il periodo successivo alle elezioni parlamentari del giugno 2011, che hanno consolidato il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha visto il susseguirsi di eventi molto importanti nella storia della Turchia. Il 28 dicembre 2011, jet bombardieri turchi hanno colpito un gruppo di contrabbandieri curdi che attraversavano il confine del Kurdistan iracheno uccidendo 34 persone. Questo evento ha rappresentato il caso più grave dopo l’instaurazione del multipartitismo democratico nel 1950. Nessuno degli ufficiali è stato sottoposto ad un processo per il massacro. Alla fine del maggio 2013, una protesta localizzata contro la demolizione di un piccolo parco, il Gezi Park nel centro di Istanbul, si è trasformata in un movimento di massa nazionale contro il Governo dell’AKP, con una conseguente sproporzionata reazione della polizia. Milioni di persone hanno partecipato alle proteste, in gran parte non violente, e le manifestazioni sono divenute le più grandi dimostrazioni antigovernative nella storia della repubblica turca. Nel dicembre del 2013, le indagini contro la corruzione hanno coinvolto membri eminenti dell’Esecutivo, rivelando diffusi livelli di collusione tra politici e uomini d’affari. Questi tre episodi rappresentavano plasticamente la fine delle alleanze dell’AKP con i tre gruppi che erano stati centrali per la sua ascesa. L’impunità dopo il massacro di Roboski del 2011 ha disincantato grandi segmenti della società curda che aveva sostenuto l’AKP. Il brutale trattamento dei manifestanti di Gezi Park per mano della polizia ha compromesso l’intesa con l’intellighenzia socialdemocratica che aveva sostenuto fortemente il Partito durante la sua lotta di potere con i militari e la magistratura. Le indagini anticorruzione del dicembre del 2013 hanno trasformato il movimento di Gülen da alleato chiave dell’AKP nella sua nemesi. Nel 2016 il movimento di Gülen è stato accusato di aver fomentato un colpo di Stato, con il conseguente arresto di molti giornalisti, militari, magistrati e insegnanti.

Le mancanze della democrazia turca hanno continuato a persistere sfidando la visione ottimistica secondo la quale il consolidamento al potere dell’AKP avrebbe condotto ad un progresso democratico inequivocabile e lineare. Infatti, la «vittimizzazione dei musulmani sunniti», che era stato il principio trainante interno degli impulsi riformisti dell’AKP, si è trasformata in una posizione di trionfo che ha aggravato i vincoli settari ed etnici del potere politico. Inoltre, gli sviluppi geopolitici e la crisi economica del 2008 hanno avuto effetti dannosi per le lotte democratiche in Turchia. Prima del 2008, l’adesione all’Unione Europea era un tema centrale per la politica estera turca e aveva limitato le tendenze autoritarie del Governo. Mentre l’Unione Europea ha perso gradualmente rilevanza per le élite e l’opinione pubblica turche, l’AKP ha visto nelle primavere arabe del 2011 un’opportunità senza precedenti per ottenere un potere nell’area mediorientale. Le élite dell’AKP ritenevano che le rivolte arabe avrebbero portato al potere forze islamiche popolari similari al Partito al Governo in Turchia; questa aspettativa è divenuta un’amara disillusione, soprattutto dopo la caduta della Fratellanza Musulmana in Egitto e la degenerazione della rivolta siriana in una guerra civile.

Nel contesto regionale mediorientale in cui le affiliazioni politiche tendono a sovrapporsi alle differenze settarie, l’AKP ha adottato un linguaggio sempre più divisivo. Ciò rappresenta un’importante differenza tra l’AKP e i precedenti Partiti di centro-destra con meno evidenti inclinazioni pro-sunnite. È interessante notare come Erdoğan abbia esplicitamente sottolineato l’identità alauita di Kemal Kiliçdaroğlu, leader del Partito Repubblicano Popolare, CHP Cumhuriyet Halk Partisi, durante la campagna elettorale del 2011, nel tentativo di screditarlo agli occhi dell’elettorato sunnita. Nel contempo, l’AKP e l’intelligence turco hanno sviluppato una concezione della guerra civile siriana in cui il regime oppressivo della minoranza alauita massacrava la popolazione sunnita. Mentre l’intensità della violenza aumentava, i gruppi islamici erano cooptati dall’AKP e ottenevano una visibilità pubblica e un accesso alle risorse senza precedenti, divenendo sostenitori entusiasti della lotta armata contro il regime di Assad. In assenza di seri sforzi del Governo per frenarli, un numero rilevante di cittadini turchi si è unito ai gruppi jihadisti in Siria.

Questa politica ha avuto una conseguenza inaspettata e terribile: l’espandersi dell’ISIS con la sua ideologia di jihadismo salafita nel 2013. I gruppi salafiti-jihadisti in Turchia hanno trovato un terreno fertile data l’assenza di una sorveglianza statuale. Questi gruppi erano anche gli unici islamisti che avevano preso le distanze dal Governo dell’AKP, offrendo una versione integralista dell’Islam attraente per coloro che erano rimasti sconcertati dalla mancanza di un vero Governo islamico in Turchia. Il crescente richiamo di questa forma estrema di islamismo, quando un Partito islamico era al Governo, contraddiceva le aspettative degli studiosi secondo le quali la moderazione avrebbe debellato il radicalismo.

Nell’estate del 2013, l’esercito egiziano rovesciava il Presidente Mohammad Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana. Adottando un linguaggio vittimistico, Erdoğan e i suoi sostenitori hanno definito le proteste di Gezi Park come un tentativo di colpo di Stato che coincideva con l’esautoramento di Morsi. Erdoğan ha incolpato i manifestanti di Gezi di mancanza di rispetto per l’Islam, attraverso accuse infondate, per mobilitare la sua base elettorale.

Mentre l’AKP è diventato più settario rispetto ai precedenti Partiti di centro-destra, si è dimostrato anche più disinvolto per quanto concerneva l’identità etnica in politica. Le riforme sulla «questione curda» erano ispirate da una comune identità musulmana che trascendeva le differenze linguistiche, ed erano coerenti con l’identità musulmana sunnita negli affari pubblici. Inoltre, la sfida diretta dell’AKP al potere politico dei militari contribuiva alla sua attrattiva tra i cittadini curdi, in contrasto con la linea politica fatta propria dal PD, che si era appoggiato principalmente sui notabili curdi e sulle relazioni di patronato per mobilitarne il voto. Tuttavia il crescente dinamismo popolare e l’appello del nazionalismo curdo hanno reso la strategia dell’AKP, sotto il mantello culturale della fratellanza islamica, inadeguata e obsoleta. L’autogoverno curdo in Siria ha incoraggiato l’ala militare del movimento nazionalista curdo, che voleva replicarne il successo attraverso la lotta armata nelle città curde della Turchia. Dopo l’affermazione nelle elezioni del giugno del 2015, il sostegno curdo sembrava ormai superfluo per l’AKP. Le azioni militari e poliziesche contro i militanti del PKK in aree urbane densamente popolate hanno condotto a diffuse violazioni dei diritti umani e ad un numero crescente di vittime civili, significando un ritorno alle politiche dei primi anni Novanta. Il nazionalismo curdo, che si era sottratto al Partito della Madrepatria, ANAP Anavatan Partisi, e al Partito della Verità, DYP Doğru Yol Partisi, continuava ad essere la sfida più grande per l’AKP, che sembrava mancare di strategie politiche per gestirlo.

Nonostante queste sfide, l’AKP ha raggiunto dei notevoli risultati nelle elezioni locali del 2014. Il peggior disastro industriale nella storia del Paese, con la morte di oltre 301 minatori nell’Anatolia Centrale, è avvenuto subito dopo queste votazioni. Ancora Recep Tayyip Erdoğan ha vinto le prime elezioni popolari per la Presidenza pochi mesi dopo. I disordini di Kobanî nell’ottobre del 2014, costati la vita a più di 50 persone, hanno coinvolto inizialmente le città curde, facendo presagire la violenza che avrebbe sconvolto la Turchia nella seconda metà del 2015. A seguito di questi eventi e dopo un indebolimento dell’economia, l’AKP ha perso la maggioranza parlamentare nelle elezioni del giugno 2015. Poco dopo, vi fu un attacco bomba suicida verso attivisti di sinistra che visitavano la città di Suruç, a Nord di Kobanî, dove i militanti curdi avevano combattuto con successo contro lo Stato Islamico con l’aiuto di attacchi aerei statunitensi nell’autunno del 2014. Questo attentato sponsorizzato dallo Stato Islamico ha portato alla fine della fragile tregua tra la Turchia e l’insurrezione curda che era in vigore dal 2013. La violenza ha raggiunto rapidamente livelli senza precedenti e il rilancio del conflitto armato ha condotto alla morte di almeno 600 persone in cinque mesi. Un altro attentato suicida dell’ISIS uccideva 102 persone nel centro di Ankara nell’ottobre dello stesso anno.

Dal punto di vista delle elezioni, è importante ricordare i risultati ottenuti dall’AKP. Dopo la vittoria alle elezioni del 2002 con il 35% dei voti, l’AKP ha costantemente dominato la scena politica della Turchia, incrementando la propria quota di voti raggiungendo il 47% nel 2007 e il 49% nel 2011, ottenendo maggioranze parlamentari così ampie da formare dei Governi mono-partitici. Questa tendenza ha subito una battuta d’arresto nelle elezioni del 7 giugno del 2015, quando l’AKP non è riuscito a guadagnare seggi sufficienti per formare un Governo di un solo Partito, nonostante avesse ottenuto il 40% dei suffragi e superato il rivale del 15%. Il leader «de facto» dell’AKP, il Presidente Erdoğan, ha usato i poteri conferitigli dalla Costituzione e la leva politica della sua formazione politica per impedire la formazione di un Governo di coalizione in modo da tornare alle urne nel novembre dello stesso anno; in queste votazioni, l’AKP ha aumentato i suoi voti del 9% e ripristinato la sua posizione predominante.

Tenuto conto del contesto interno, la spettacolare performance dell’AKP nelle elezioni di novembre, che gli hanno permesso di riconquistare una maggioranza parlamentare, ha stupito molti osservatori. I risultati delle elezioni hanno rivelato che molti elettori in Turchia non ritenevano Erdoğan e il Partito responsabili di questi problemi. È interessante notare come Erdoğan abbia iniziato a personificare sempre più il potere politico e ad erodere l’autonomia delle istituzioni economiche e politiche, ma nel contempo egli è apparso anche come l’unico politico capace di assicurare la stabilità e la crescita del Paese. Mentre la sua ascesa ha rappresentato l’evoluzione storica dei Partiti di destra turchi e della loro missione di integrare i fedeli musulmani nel sistema politico, essa ha comportato anche delle implicazioni negative per un sistema politico democratico.

Nel contempo, il mutare del contesto geopolitico mediorientale, aggravato dalla guerra civile siriana, riproponeva all’attenzione della politica estera turca questioni che coinvolgevano direttamente il Paese, come il conflitto con i Curdi Turchi e il massiccio afflusso di profughi siriani.

Nel febbraio del 2015, rappresentanti dell’AKP al Governo e politici curdi si incontravano nel palazzo di Dolmabahçe per un meeting che il Primo Ministro Davutoğlu descrisse come una nuova fase del processo di pace. Dopo la riunione a porte chiuse, le due controparti annunciarono al pubblico un piano in dieci punti redatto da Abdullah Öcalan, leader imprigionato del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Tuttavia, pochi mesi dopo questo incontro storico, nel giugno del 2015, gli scontri tra le forze turche e il PKK sono ripresi, causando il collasso del processo di pace. Centinaia di civili sono morti in seguito a questi scontri, inoltre è stato imposto il coprifuoco e negato ogni accesso al mondo esterno per molti giorni in svariate province del Sud-Est della Turchia. La questione curda tornava ad essere un problema di sicurezza interna e non di democrazia e di democratizzazione.

Tra la negoziazione e la repressione, come spiegato precedentemente, la Turchia aveva tenuto le elezioni generali; in queste votazioni, il Partito Democratico dei Popoli, HDP Halkin Demokrasi Partisi, una formazione politica pro-curda, ha ottenuto il 13,1% dei voti, emergendo non solo come un interlocutore legittimo e moderato per il processo di pace curdo ma come il maggior impedimento per l’AKP per la formazione di un Esecutivo monopartitico. Mentre in altri contesti caratterizzati da un conflitto interno l’emergere di interlocutori moderati è considerato un pre-requisito per processi di pace coronati da successo, l’esistenza di un Partito politico curdo autonomo quale alternativa credibile al Governo dell’AKP è divenuto il motivo principale per il fallimento dei colloqui di pace.

La comunicazione politica populista dell’AKP considera la società turca divisa in due campi omogeni e antagonisti: il popolo puro e le élite corrotte. La politica è quindi solo l’espressione di un «popolo puro» in contrapposizione ai privilegi consolidati delle élite corrotte. Durante il Governo dell’AKP, il passaggio tra negoziazione e repressione nei confronti delle richieste curde era un riflesso di questa cultura populista di destra. Le élite dell’AKP accoglievano le richieste curde quando queste non erano rappresentate da altri attori istituzionali – un Partito legale come l’HDP o un’organizzazione armata, come il PKK – e quando tali attori istituzionali non sfidavano l’egemonia dell’AKP nel «risolvere» il problema curdo. Per questa ragione, ogni volta che è emerso uno sfidante forte, le élite dell’AKP hanno immediatamente fatto marcia indietro, reprimendo l’opposizione fino a quando non si sono sentite sicure di aver riguadagnato il controllo del «problema».

Dopo la cattura di Abdullah Öcalan e la dichiarazione del PKK di un cessate il fuoco unilaterale nel febbraio del 2000, l’intensità del conflitto nel Sud-Est era diminuita. L’AKP vinse le elezioni del 2002 con un sostegno significativo degli elettori turchi, assicurandosi il 65% dei seggi in Parlamento. I fondatori dell’AKP e i leader del nuovo Governo vedevano se stessi come «vittime» dell’establishment militare del 1990, proprio come i Curdi. Fin dall’inizio, era chiaro alle élite dell’AKP che il consolidamento del loro potere politico era direttamente correlato alla resistenza delle élite militari e che il contenimento del potere politico dei militari era connesso alla de-securitizzazione della sfera politica, soprattutto della «questione curda».

Inoltre, le élite dell’AKP avevano una diversa concezione di ciò che costituiva la nazione turca se confrontata con la rappresentazione delle élite kemaliste dell’epoca precedente. Secondo le nuove élite, l’accento sull’identità turca evidenziava l’elemento etnico e amplificava le differenze tra Curdi e Turchi. Invece, l’accento sull’identità religiosa dei Curdi era ritenuto un elemento unificante tra individui che erano posti in contrapposizione dai principi etnici e secolari. Utilizzando il principio dell’unità religiosa e dando voce agli elettori curdi, le élite dell’AKP credevano di poter convincere il «puro popolo curdo» conservatore a rivoltarsi contro le élite secolari, nazionaliste e corrotte del PKK, minandone l’influenza.

La de-securitizzazione della «questione curda» e il dare voce alle richieste curde facevano parte di una strategia win-win, che ha aiutato l’AKP a limitare il potere dei militari in politica e ad estendere l’elettorato popolare nell’area Sud-Est della Turchia. Allo stesso tempo, diminuendo la percezione della minaccia interna, è scemata la necessità percepita per i militari di sovraintendere alla sfera politica. L’integrazione nell’Unione Europea è stata anch’essa strategicamente importante, non solo per limitare l’autorità militare, ma anche per inserire la «questione curda» nel quadro di una democratizzazione su vasta scala.

Entrambe le linee politiche hanno fatto sì che l’AKP fosse rappresentato come una grande forza politica e un attore importante nelle regioni curde, un fatto rinforzato dalla soglia del 10% che ha bloccato i Partiti politici curdi dal correre in modo indipendente. Nel corso degli anni Duemila, l’AKP ha gradualmente espanso la sua base di potere ottenendo il 50% dei voti curdi e proponendosi come l’unica forza politica capace di risolvere la questione in esame, pur essendo molto riluttante a riconoscere la legittimità delle forze politiche curde.

Entro il 2009, il Governo turco aveva fatto progressi significativi per quanto concerneva la de-militarizzazione ed era finalmente libero di seguire una nuova strategia politica per risolvere il «problema curdo». Nel 2009, l’AKP annunciò la sua apertura. L’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca avviò trattative con il PKK, i colloqui di Oslo. L’ottimismo presto si scontrò con il nazionalismo dilagante, infatti, l’AKP mise in atto una brusca frenata, temendo di perdere i voti dei nazionalisti nelle successive elezioni. La «questione curda» divenne ancora una volta un problema di sicurezza interna. Una causa fu depositata dallo Stato nei confronti delle Comunità curde, e 10.000 attivisti politici curdi furono arrestati, creando così un nuovo regime di oppressione attraverso la via giudiziaria.

Prima delle elezioni del giugno del 2011, la «questione curda» è ridivenuta un problema di terrore, non di democrazia; di violenza, non di diritti. Il Primo Ministro Erdoğan dichiarò che si sarebbe incontrato solo con i rappresentanti legali e legittimi curdi, suggerendo che il Partito pro-curdo della Pace e della Democrazia, Bariş ve Demokrasi Partisi, non sarebbe stato un interlocutore idoneo finché non avesse agito in modo indipendente e autonomo. Sfruttando questa posizione più dura nei confronti della «questione curda», l’AKP aumentò in modo significativo i suoi voti ottenendo il 49,9% nelle elezioni del 2011.

La dura presa di posizione verso la «questione curda» si sarebbe presto ammorbidita dopo la schiacciante vittoria elettorale dell’AKP nel 2011. È importante ricordare che, rispetto al periodo precedente, erano cambiate anche le dinamiche regionali. Questa fase è stata caratterizzata da manifestazioni e proteste, rivolte e guerre civili in quasi tutti i Paesi della regione. Il Governo turco si è trovato quasi subito in competizione con le altre potenze regionali nel tentativo di influenzare il destino e il futuro dell’area mediorientale, intervenendo direttamente e indirettamente nelle politiche nazionali degli Stati mediorientali.

Mentre la regione è diventata più conflittuale, il Governo dell’AKP ha rilanciato il negoziato con il PKK, all’inizio del 2013, con l’obiettivo di disarmare le regioni curde della Turchia. Il 21 marzo del 2013, una lettera di Abdullah Öcalan fu letta al pubblico sia in turco sia in curdo durante le celebrazioni storiche a Diyarbakir. Nella lettera si chiedeva un cessate il fuoco, ed includeva il disarmo e il ritiro dal suolo turco, nonché la fine della lotta armata. Il 25 aprile del 2013, il PKK annunciò che avrebbe ritirato tutte le sue forze dalla Turchia.

Tuttavia la riluttanza del Governo turco a sostenere la città curda di Kobanê, sotto attacco da parte dello Stato Islamico, creò una protesta su vasta scala dei Curdi Turchi, in particolare nel Sud-Est, portando alla morte di 42 persone. Il Governo stabilì un coprifuoco in sei città curde al fine di controllare le crescenti proteste.

Le manifestazioni chiarivano come il movimento politico curdo avesse collegamenti transnazionali che andavano oltre lo Stato turco e si fosse trasformato nella principale alternativa politica ai movimenti salafiti in Medio Oriente. Con grandi potenze come gli Stati Uniti e la Russia alleati dei Curdi contro la crescente influenza salafita nella regione, la politica in Medio Oriente si sarebbe rimodellata in un modo che i responsabili politici dell’AKP mai avrebbero immaginato. Inizialmente, l’AKP vide nei negoziati una modalità per fermare la progressiva influenza del movimento politico curdo, sperando di unire i Curdi Turchi ai Fratelli Musulmani; le proteste per la città di Kobanê avevano dimostrato alle élite dell’AKP che questa linea politica non era attuabile e che era difficile limitare l’influenza del PKK nella regione e in Turchia.

Come previsto, nelle elezioni generali del 2015 l’AKP ha nuovamente conseguito la maggioranza dei voti, ottenendo il 40,9% dei suffragi. Ma tale percentuale – che in circostanze normali sarebbe stata celebrata come un trionfo – divenne per il Partito una sconfitta, perché non era in grado di formare un Governo mono-partitico. Questa prima sconfitta dell’AKP fu percepita come un successo dell’HDP.

È ipotizzabile che uno dei motivi dietro il successo dell’HDP sia stato il fatto che molti Curdi, che in precedenza avevano votato per l’AKP, avessero ritirato il loro supporto. Come affermato in precedenza, per quasi un decennio l’AKP e i Partiti pro-curdi avevano condiviso quasi equamente l’elettorato curdo; nelle provincie curde l’HDP aveva ottenuto la maggioranza dei voti, scardinando il precedente equilibrio. Uno dei principali obiettivi del processo di soluzione della «questione curda» era stato marginalizzare le formazioni politiche pro-curde, ma l’AKP aveva compreso di aver ottenuto il risultato opposto, ovvero l’autonomia degli attori politici curdi, un duro colpo per la linea politica populista dell’AKP che intendeva incorporare nel Partito anche i Curdi.

Nelle regioni curde, la campagna elettorale dell’HDP si era basata su tre pilastri: l’autonomia della cultura curda; la solidarietà tra i Curdi – che includeva anche la solidarietà regionale –; la pace nella regione. L’HDP aveva anche incorporato con successo i conservatori religiosi, i musulmani curdi della regione e le tribù di destra e conservatrici. Poco prima delle elezioni del giugno 2015, il Partito aveva istituito delle commissioni per la riconciliazione sociale e il dialogo, note anche come «commissioni di persuasione». La politica di negoziazione con le tribù era stata spesso usata dallo Stato come strategia di inclusione dei Curdi; infatti, attraverso la collaborazione e l’influenza di queste tribù, i Governi turchi erano stati storicamente in grado di controllare le periferie in conflitto. Questa volta, però, l’HDP si era rivolta alle tribù conservatrici e aveva ricevuto il sostegno dei mullah locali e di influenti conservatori curdi. Conseguentemente, molte tribù favorevoli all’AKP, a livello formale, avevano cambiato le loro alleanze prima delle elezioni. Questa trasformazione era molto allarmante, non solo per l’AKP in quanto Partito, ma anche per la tradizionale presenza dello Stato nell’area.

Dopo le elezioni del 7 giugno, prima ancora che avessero inizio i colloqui per la coalizione, il Governo annunciò che il processo di pace era finito. Analogamente al periodo dopo le elezioni del 2011, il nuovo Governo dell’AKP aveva dichiarato che non esisteva più una «questione curda» in Turchia e che tutti i diritti possibili erano stati concessi. Mentre il processo di pace era stato dichiarato chiuso, l’intero Paese era travolto da un nuovo conflitto; fu imposto un coprifuoco in centinaia di distretti prevalentemente curdi, il PKK attaccò e uccise soldati e agenti di polizia, e come rivalsa gruppi di nazionalisti turchi attaccarono molti edifici dell’HDP. Due attentati bomba suicidi a Suruç e Ankara uccisero 104 persone.

Dato il fallimento delle trattative per formare un Governo di coalizione, furono indette nuove elezioni per il novembre dello stesso anno; gli elettori risposero alla violenza crescente, al conflitto e al caos come nel 2011. Sfruttando la dura presa di posizione verso la «questione curda», l’AKP riuscì ad ottenere abbastanza seggi in Parlamento per formare un Governo a Partito unico.

Subito dopo questa vittoria, le élite dell’AKP hanno iniziato ad usare la stessa retorica per il processo di pace, che si basava su una posizione conflittuale con il Partito dell’Unione Democratica, PYD Partiya Yekîtiya Demokrat, una lotta costante contro il PKK, e la non accettazione come partner negoziale legittimo dell’HDP. Ciò che rimaneva del processo di pace era la concessione da parte del Governo dei diritti ordinari ai Curdi. Un portavoce dell’Esecutivo aveva dichiarato che finalmente l’AKP era rimasto solo nel confronto con i Curdi.

Un altro tema cardine della politica interna turca fu la questione dei rifugiati siriani, che avevano iniziato ad arrivare al confine del Paese nel 2011. Per l’allora Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan l’accoglienza dei rifugiati siriani era coerente con la politica estera di contrapposizione ad Assad e con le inclinazioni dell’elettorato sunnita dell’AKP. Dopo sette anni dall’inizio della guerra civile siriana, con un conflitto resosi ancora più complicato, il numero dei profughi è salito ad oltre due milioni, senza alcuna possibilità che possano rientrare in Siria entro breve tempo, superando di gran lunga la capacità dei campi di accoglienza.

I primi profughi siriani sono arrivati ai confini della Turchia il 29 aprile 2011. Il Governo di Erdoğan ha proclamato una politica delle porte aperte per i Siriani, promettendo assistenza in termini di servizi e campi di accoglienza vicino al confine, respingendo le offerte di aiuto delle agenzie internazionali. Nell’ottobre del 2011, il Governo ha esteso la «protezione temporanea» ai rifugiati siriani – uno status ufficiale, a differenza della denominazione di ospite usata dalla maggior parte dei Paesi della regione –. Tale posizione era coerente con l’opposizione di Erdoğan al regime di Assad e si basava sul calcolo politico che tale regime sarebbe caduto in fretta, un assunto non irragionevole in quel periodo data la velocità di cambiamento dei Governi durante la primavera araba. Parallelamente, sul lato militare, si è avuto un sostegno all’Esercito Libero Siriano. Le generose politiche della Turchia verso i profughi erano in sintonia anche con l’emergere del Paese come leader del mondo umanitario; infatti, nel decennio 2003-2013, la Turchia era diventato il sesto donatore. Il crescente ruolo umanitario derivava anche dall’accento posto dall’AKP sulla ummah – la comunità di tutti i musulmani –.

Nel 2012, quando il numero dei profughi è aumentato, il Governo ha annunciato l’istituzione di una linea rossa per quanto concerneva il numero massimo di rifugiati ammissibili; Erdoğan aveva affermato che sarebbe stata necessaria la creazione di una zona cuscinetto se il numero dei rifugiati avesse superato i 100.000 ingressi. L’idea di una zona di sicurezza all’interno della Siria, ripetuta spesso negli anni successivi, aveva trovato rispondenza anche nelle intenzioni del Governo turco di prevenire che i Curdi ottenessero il controllo su più territori in Siria e al confine con la Turchia.

Nel 2013, ci sono stati segnali che le politiche di accoglienza erano al limite. Nel febbraio dello stesso anno, un’esplosione in un posto di frontiera e un’altra a Reyhanli hanno ucciso più di 50 persone. Nel momento in cui i campi hanno raggiunto la loro capacità massima e un numero crescente di Siriani ha iniziato a viverci con le famiglie, le pressioni economiche sono aumentate, in particolare nelle zone di confine. Il prezzo degli affitti è salito e si segnalavano cambiamenti culturali come la poligamia e i matrimoni precoci. L’impatto dei rifugiati è stato enorme – per esempio, Reyhanli con una popolazione di 63.000 persone ospitava 100.000 profughi –.

La Turchia ha anche iniziato ad attuare una massiccia assistenza transfrontaliera all’interno della Siria, attraverso un sistema di «erogazione punto zero», in cui l’Autorità per l’Emergenza e il Disastro, AFAD Afet ve Acil Durum Yönetimi Başkanliği, con il sostegno della Mezzaluna Rossa Turca, della Fondazione per i diritti dell’uomo e per la libertà e della Fondazione per gli aiuti umanitari, operava all’interno dei territori siriani. Tale assistenza ha certamente mantenuto in vita molte migliaia di Siriani, ma data la sua natura opaca, ha dato origine anche a molte speculazioni sul fatto che le intenzioni della Turchia non fossero prettamente umanitarie.

La politica delle «porte aperte» della Turchia verso i rifugiati non è mai stata veramente «aperta» come raffigurato. La politica di protezione temporanea stabiliva che i Siriani entrati attraverso i confini ufficiali, e molti accedevano attraverso quelli non ufficiali, in possesso di un passaporto, che molti non avevano, potevano richiedere un permesso di lavoro; nella pratica questo processo era così farraginoso che raramente si verificava. I profughi erano autorizzati a rimanere nel Paese, ma tranne che nei campi, non ricevevano alcuna assistenza finanziaria da parte del Governo o dalle agenzie internazionali, e non avevano il permesso per lavorare. Esauriti i risparmi personali, hanno trovato impiego nell’economia informale, con tutto lo sfruttamento che ciò comporta.

La Turchia ha adottato la prima legge sull’immigrazione nell’aprile del 2013, entrata in vigore l’anno dopo. Questo cambiamento, parte del processo di adesione all’Unione Europea, è stato un segnale positivo; Ahmet İçduygu ha osservato come la legge avesse introdotto delle riforme che potevano essere un punto di riferimento per un moderno, equo ed efficiente sistema di gestione dei profughi, in linea con gli standard basilari internazionali ed europei.

Entro la fine del 2013, l’accoglienza turca stava cominciando a logorarsi, soprattutto a causa del peso economico. Mentre inizialmente la Turchia sembrava essere orgogliosa di potersi prendere cura dei rifugiati senza il sostegno internazionale, durante il 2015 le lamentele circa la mancanza di aiuti internazionali sono divenute più frequenti. Nel corso del biennio 2013-2015 era cresciuta anche la consapevolezza che il regime di Assad non sarebbe stato rovesciato rapidamente e che i rifugiati non sarebbero stati rimpatriati entro breve tempo. Contemporaneamente, la dinamica del conflitto è divenuta più complessa e il ruolo della Turchia a sostegno delle forze di opposizione ancora meno trasparente.

Le vittorie militari e la brutalità dello Stato Islamico si sono intensificate dalla metà del 2014, cambiando la natura dei flussi dei rifugiati. Per la prima volta dal 2011, un gran numero di Iracheni è arrivato in fuga da Mosul a metà del 2014. Entro il giugno del 2015, si sono aggiunti altri 240.000-250.000 profughi iracheni. Inoltre, circa 190.000 Curdi sono fuggiti in Turchia mentre imperversavano i combattimenti dentro e nei dintorni di Kobanê. Quasi tutti i flussi iniziali erano composti da profughi siriani e musulmani sunniti, la presenza di Cristiani dell’Iraq, degli Yazidi e dei Curdi dal Nord dell’Iraq rendevano il contesto più diversificato. La Turchia stava ricevendo anche un numero importante di richiedenti asilo da altri Paesi, come l’Afghanistan e l’Iran.

Sul fronte interno, vi era una crescente preoccupazione per l’impatto economico, sociale e settario dei profughi. Gli alauiti erano preoccupati per l’afflusso sunnita, mentre i Turchi accoglievano favorevolmente l’etnia turcomanna.

Sia a livello nazionale che internazionale il fattore curdo era fondamentale nella politica governativa verso i profughi. I Curdi si erano allarmati dopo aver visto la riluttanza del Governo turco a sostenerli durante i combattimenti a Kobanê contro l’ISIS nel giugno del 2015, mentre l’Esecutivo dell’AKP paventava un influsso su larga scala dei profughi curdi nel Paese. I voti ottenuti dall’HDP nelle elezioni del giugno 2015 erano stati interpretati da alcuni osservatori come l’espressione del malcontento dell’elettorato curdo verso la linea di politica estera del Governo. Nel contempo, la polarizzazione derivante dalle politiche di Erdoğan, le segnalazioni delle violazioni dei diritti umani, la sfida di un’insurrezione curda di ampio raggio e la violenza tra le fazioni pro e anti AKP creavano un contesto interno altamente instabile.

Le elezioni del novembre 2015 in cui l’AKP ha ottenuto la maggioranza dei voti sono state un evento abbastanza positivo per i rifugiati, poiché l’AKP, con la sua forte base tra i conservatori religiosi, è più favorevole ad una politica di accoglienza rispetto ai Partiti laici turchi, alauiti e curdi, che temono una alterazione demografica della società locale e della sfera politica.

Per quanto concerne le politiche verso gli oltre due milioni di profughi, la Turchia ha adottato una serie di decisioni nel biennio 2014-2015, tra cui il coinvolgimento di attori internazionali e il permesso per le ONG di registrarsi e iniziare programmi di aiuto per i rifugiati. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha chiuso le scuole siriane informali per introdurre i profughi nel sistema educativo turco, anche se due terzi dei bambini siriani sono rimasti fuori dalle istituzioni scolastiche. Inoltre, prima delle elezioni, è stata introdotta una legislazione che permetteva ai Siriani di entrare nel mercato del lavoro turco. Vi è stato un riconoscimento del fatto che i rifugiati non stavano tornando in patria e che erano necessari dei provvedimenti per garantire la loro integrazione nella società turca.

Nell’agosto del 2015, la crisi dei profughi ha assunto una nuova dimensione con la migrazione di centinaia di migliaia di rifugiati attraverso la Turchia verso la Germania e i Paesi del Nord Europa. La Turchia si è trovata dunque in una posizione negoziale molto forte rispetto alle controparti europee, i cui Governi dovevano fronteggiare opinioni pubbliche sempre più attratte dai movimenti populisti e xenofobi contrari all’immigrazione; l’Unione Europea aveva bisogno della Turchia e Erdoğan è stato molto abile nel cogliere questa opportunità. Il 15 ottobre del 2015, il vertice dell’Unione Europea non verteva sulle modalità di ricollocazione dei profughi tra i diversi Stati europei, ma sulle trattative con la Turchia. È interessante ricordare che Merkel, Cancelliere tedesco in carica che in precedenza aveva bloccato i negoziati di adesione all’Unione Europea della Turchia a causa delle preoccupazioni per i diritti umani, si è recata in quei giorni ad Ankara per parlare con le autorità turche, aprendo un dialogo sulla possibilità per i cittadini turchi di viaggiare in Europa senza passaporto, inoltre, l’Unione Europea era pronta ad aumentare gli aiuti economici per sostenere i profughi. La Turchia era ormai in una posizione di forza ed è stato raggiunto un accordo che comprendeva anche un contributo finanziario molto rilevante.

La Turchia può controllare il flusso dei rifugiati verso l’Europa attraverso il suo territorio; se la Turchia utilizza le risorse aggiuntive per migliorare le condizioni di vita dei rifugiati siriani all’interno dei suoi confini e permette loro l’accesso al mercato del lavoro turco, ciò potrebbe portare alcuni Siriani a decidere di rimanere in Turchia. Ma se l’aspettativa è che il Governo turco attui dei deterrenti coercitivi per impedire ai Siriani di passare in Grecia, allora questo pone un serio problema di diritti umani. I Governi europei sono ansiosi di avere un Paese in cui far tornare i Siriani, in particolare coloro la cui richiesta di asilo è stata respinta, senza doverli inviare direttamente in Siria. Ma, come Amnesty International ha sottolineato, la Turchia non è un «Paese sicuro» per tutti e in effetti soltanto a un richiedente su quattro è stato concesso asilo in Europa.

Le decisioni che la Turchia, l’Unione Europea e gli Stati membri dovranno prendere nei prossimi anni avranno conseguenze a lungo termine per i rifugiati, per le relazioni Turchia-Unione Europea e anche per la stessa Unione Europea.

Il contesto mediorientale ha visto il graduale rafforzamento di un’alleanza tra Turchia, Russia e Iran, già visibile durante i negoziati di Astana del marzo del 2017 per la tregua in Siria. Dopo i mesi di freddezza e ostilità successivi all’abbattimento di un jet militare russo da parte turca e le prime fasi della guerra civile siriana, la Russia e la Turchia hanno ritrovato una forte intesa, motivata da interessi convergenti; infatti, la Russia intende diminuire il peso geopolitico degli Stati Uniti, pur in un contesto multipolare, acquisendo un ruolo di leadership, nel contempo, la Turchia vuole allentare i vincoli che la legano alla NATO e all’Unione Europea. Da non sottovalutare i rilevanti scambi commerciali tra i due Paesi. Dal punto di vista economico, la Turchia potrebbe anche utilizzare lo spostamento del suo asse strategico verso Oriente per attrarre gli investimenti cinesi della «nuova via della seta», progetto avversato dagli Stati Uniti, che consiste in investimenti molto cospicui e in infrastrutture. Anche nei Balcani, una politica più filorussa potrebbe aiutare la Turchia a stabilire dei forti legami con la popolazione musulmana della regione.

Per quanto concerne l’Iran, esso ha assistito ad un mutamento delle organizzazioni militanti del Kurdistan iraniano, con il progressivo aumento di formazioni jihadiste salafite collegate allo Stato Islamico; la conseguente ostilità di Teheran verso i Curdi, in questo convergente con la Turchia, unita ad una nuova alleanza strategica con la Russia, che ha incluso il consolidamento delle relazioni strategiche sulla Siria, la concessione delle basi militari iraniane per le missioni nell’area mediorientale, un accordo di cooperazione sul gas e l’estensione a Teheran della zona di libero scambio dell’Unione Economica euroasiatica, ne confermano il nuovo attivismo in Medio Oriente. L’Iran è stato capace di sfruttare gli errori nella guerra civile siriana del Presidente Erdoğan, che aveva creduto possibile una caduta repentina del regime di Assad, per far sì che la Turchia modificasse la sua linea politica nell’area, dato il crescente timore verso l’indipendentismo curdo.

L’adesione della Turchia, sotto la leadership dell’AKP, ai paradigmi del neo-ottomanesimo complica il contesto geopolitico mediorientale, nel quale Iran e Arabia Saudita competono già da tempo per la supremazia regionale e da cui è totalmente mancante l’Unione Europea, incapace di sviluppare una politica estera unitaria e rilevante.


Bibliografia

Altunişik, Meliha Benli (2006), Turkey’s Iraq Policy: The War and Beyond, «Journal of European Studies» 14(2): 183-196

Aras, Bülent (2001), The Turks and Jerusalem, «Contemporary Review» 279 (1629): 201-207

Bahadir Dinçer Osman, Vittoria Federici, Elizabeth Ferris, Sema Karaca, Kemal Kirişci, and Elif Özmenek Çarmikli, Turkey and Syrian Refugees: The Limits of Hospitality, «Brookings Institution», November 2013 http://www.brookings.edu/~/media/research/files/ reports/2013/11/18-syria-turkey-refugees/turkey- and-syrian-refugees_the-limits-of-hospitality-(2014).pdf

Balta Paker Evren and İ. Akça, Beyond Military Tutelage: Analyzing Civil-Military Relations under the Justice and Development Party, in Ebru Canan Sokullu (2012), «Debating Security in Turkey: Challenges and Changes in the Twenty-First Century», Lanham: Lexington Books, pagine 77-93

Balta, Evren, How Turkish Elections Changed the Foreign Policy of Turkey, «Open Democracy», 27 July 2015 https://www.opendemocracy.net/evren-balta/how-turkish-elections-changed-foreign-policy-of-turkey

Biagini, Antonello (2002), Storia della Turchia contemporanea, Milano: Bompiani

Bilgin, Mustafa Sitki (2008), Britain and Turkey in the Middle East: Politics and Influence in the Early Cold War Era, London & New York: IB Tauris

Bilgin, Pinar (2005), Turkey’s Changing Security Discourses: The Challenge of Globalisation, «European Journal of Political Research» 44: 175-201

Bozarslan, Hamit (2006), La Turchia contemporanea, Bologna: Il Mulino

Çağaptay, Soner (2008), The Most Anti-American Nation, «Newsweek», 24. November 2008, http://www.newsweek.com/id/169267

Çağatay, Soner, Kurdish Opening Closed Shut, «Foreign Policy» 28 (2009) http://www.foreignpolicy.com/articles/2009/10/28/kurdish_opening_closed_shut?page=0,1

Çağatay, Soner, Turkey is in Serious Trouble, «The Atlantic», 5 October 2015 http://www.theatlantic.com/international/archive/2015/10/turkey-isis-russia-pkk/408988

Cizre Ümit (2008), Secular and Islamic Politics in Turkey: The Making of the Justice and Development Party, London and New York: Routledge

Costanza, Maurizio (2010), La Mezzaluna sul filo – La riforma ottomana di Mahmûd II, Venezia: Marcianum Press

Dann, Uriel (1988), The Great Powers in the Middle East 1919-1939, London: Holmes & Meier

Davutoğlu, Ahmet (2008), Turkey’s Foreign Policy Vision: An Assessment of 2007, «Insight Turkey», volume 10, numero 1

Dombey, Daniel, Turkish government and Kurds in bit to revitalise talks, «The Financial Times», 28 February 2015 http://www.ft.com/cms/s/0/5d305c18-bf67-11e4-99f8-00144feab7de.html#axzz3qocjf228

Fiorani Piacentini, Valeria (2006), Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie, Milano: Angeli

Fuller, Graham (2007), The New Turkish Republic: Turkey as a Pivotal State in the Muslim World, Washington, D.C.: United States Institute of Peace

Hale, William (2000), Turkish Foreign policy 1774-2000, BCSIA Studies in International Security, London & Portland, OR: Frank Cass

Hale, William (2002), Turkish Foreign Policy. 1774-2000, London-Portland: Frank Cass

Hale, William (2007), Turkey, the US and Iraq, SOAS Middle East Series, London: SAQI

Hale, William (2009), Turkey and the Middle East in the «New Era», «Insight Turkey» 11(3): 143-159

İbrahimoğlu, Lale (2007), Will Turkish Military and Russian Flirtation End in Marriage?, «Today’s Zaman», 21 June 2007 http://www.todayszaman.com/tz-web/yazarDetay.do?haberno=114626

Icduygu, Ahment, Syrian Refugees in Turkey: The Long Road Ahead, «Transatlantic Council on Migration and Migration Policy Institute», April 2015 http://www.migrationpolicy.org/research/syrian-refugees-turkey-long-road-ahead

Kirisci, Kemal and Elizabeth Ferris, Not Likely to go Home: Syrian Refugees and the Challenges to Turkey – and the International Community, «Brookings Institution: Turkey Project Policy» Paper 7, September 2015 http://www.brookings.edu/research/papers/2015/09/syrian-refugee-international-challenges-ferris-kirisci

Klein, Janet (2011), The Margins of Empire: Kurdish militias in the Ottoman tribal zone, Stanford: Stanford University Press

Lambeck, M. S. (2006), Minister trug Mohammed-T-shirt «Bild am Sonntag», 21 February 2006 http://www.bild.de/BTO/news/aktuell/2006/02/19/mohammed-karikaturen-tshirt/mohammed-karikaturen-tshirt.html

Lapidus, Ira M. (1988), A History of Islamic Societies, Cambridge: Cambridge University Press

Lesser, Ian (2009), Russia, Europe, Iran: Three Grand Strategies in U.S.-Turkish Relations «On Turkey», German Marshall Fund, http://www.gmfus.org//doc/Lesser_OnTurkey_0609.pdf

Lewis, Bernard (2000), The Middle East, London: Phoenix Press

Mango, Andrew (1999), Atatürk, London: John Murray

Mango, Andrew (2000), Atatürk and the Kurds, in Sylvia Kedouri (ed.), Seventy-five Years of the Turkish Republic, London: Frank Cass

Marcus, Aliza, Troubles in Turkey’s Backyard, «Foreign Policy» 29 (2010) http://www.foreignpolicy.com/articles/2010/07/09/troubles_in_turkey_s_backyard?obref=obinsite

Michaud-Emin, Linda, The Restructuring of the Military High Command in the Seventh Harmonization Package and its Ramifications for Civil-Military Relations in Turkey, «Turkish Studies» 8 (2007), pagine 25-42

Morris, Chris (2005), The New Turkey, Granta Books

Nazemroaya, Mahdi Darius (2006), Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a «New Middle East», «Global Research», 18 November 2006 http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=NAZ20061116&articleId=3882

Oğuzlu, Tarik (2001), The Turkomans as a Factor in Turkish Foreign Policy: Socio-Political and Demographic Perspectives, Ankara: Diş Politika Enstitüsü – Foreign Policy Institute

Oğuzlu, Tarık (2008), Middle Easternization of Turkey’s Foreign Policy: Does Turkey Dissociate from the West?, «Turkish Studies» 9(1): 3-20

Ozel, Soli (2009), The Back and Forth of Turkey’s «Westernness», «On Turkey», The German Marshall Fund of the United States http://www.gmfus.org//doc/Soli_Analysis_Turkey_0209_Final.pdf

Pew Global Attitudes Project (2008), Global Public Opinion in the Bush Years (2001-2008), Pew Research Center http://pewglobal.org/reports/pdf/263.pdf

Şahin, Bahar (2005), Türkiye’nin AB Uyum Süreci Bağlaminda Kürt Sorunu: Açilimlar ve Sinirlar, in Ayhan Kaya ve Turgut Tarhanli (eds.), Türkiye’de Çoğunluk ve Azinlk Politikalari: AB Sürecinde Yurttaşlik Tartişmalari Istanbul: TESEV Yayinlari, pagine 101-126

Tank, Pinar (2005), Analysis: The Effects of the Iraq War on the Kurdish Issue in Turkey, «Conflict, Security and Development» 5(1): 69-86

Today’s Zaman (2009a), Gül to urge Syria to contribute to Palestinian unity in visit, 12 May 2009 http://www.todayszaman.com/tz-web/detaylar.do?load=detay&link=175035&bolum=100

Today’s Zaman (2009b), Turkey urges Israel to accept Syria’s overtures, 17 May 2009 http://www.todayszaman.com/tz-web/detaylar.do?load=detay&link=175522

Today’s Zaman (2009c), Assad: Syria has total confidence in Turkish mediation, 18 May 2009 http://www.todayszaman.com/tz-web/news-175613-assad-chartreusesyria-has-total-aqua-aquaconfidence-in-turkishmediation.html

Today’s Zaman (2009d), Peres urges Syria to join direct peace talks, 19 May 2009 http://www.todayszaman.com/tz-web/news-175713-limelimeperes-aqua-aquaurges-green-greensyria-to-magenta-magentajoindirect-chartreuse-chartreusepeace-gold-goldtalks.html

Tugend, Tom (2006), The Nefarious Parts We Play, «Jerusalem Post», 15 February 2006 http://www.jpost.com/servlet/Satellite?cid=1139395417918&pagename=JPost%2FJPArticle%2FPrinter

Yanık, Lerna K. (2008), Those Crazy Turks’ That Got Caught in the «Metal Storm»: Nationalism in Turkey’s Best Seller Lists, EUI Working Papers, RSCAS 2008/4, Mediterranean Programme Series

Yeğen, Mesut (1999), Devlet Söyleminde Kürt Sorunu, Istanbul: İletişim Yayinlari

Yetkin, Murat (2005), Bush Kuran’i Arapça okursa, «Radikal», 21 January 2005 http://www.radikal.com.tr/haber.php?haberno=14094

Yilmaz, Serpil (2007), Turks Are Reconstructing Northern Iraq – 3, «Turkish Daily News», 14 April 2007

Zürcher, Erik J. (2005), Turkey. A Modern History, London-N.Y.: I. B. Tauris.

(marzo 2018)

Tag: Daniela Franceschi, la politica estera turca in Medio Oriente, l’AKP e la politica estera turca in Medio Oriente, politica nazionale e politica estera della Turchia, storia della Turchia, storia del ruolo della Turchia in Medio Oriente, Medio Oriente, Siria, Iraq, Iran, Israele, Unione Europea, Stati Uniti, curdi, sunniti, siiti, alauiti, Europa, R.T. Erdoğan, Ahmet Davutoğlu, Fethullah Gülen, politica neo-ottomana, impero neo-ottomano, neo-ottomanesimo, Kemalismo, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, AKP Adalet ve Kalkinma Partisi, Governo Regionale del Kurdistan, Bashar Assad, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK, Abdullah Öcalan, Partito Repubblicano Popolare, CHP Cumhuriyet Halk Partisi, Partito della Madrepatria, ANAP Anavatan Partisi, Partito della Verità, DYP Doğru Yol Partisi, Partito Democratico dei popoli, HDP Halkin Demokrasi Partisi, Partito della Pace e della Democrazia, Barış ve Demokrasi Partisi, Partito dell’Unione Democratica, PYD Partiya Yekîtiya Demokrat, Partito della Giustizia, AP Adalet Partisi, accordo per il reattore di ricerca di Teheran, TRR.