Le imprese militari di Gabriele d’Annunzio
Un uomo fuori dal comune, durante la Prima Guerra Mondiale immortalò il suo nome con imprese che sembrano leggende. Ma oggi molti lo ignorano

Forse non sono pochi i grandi Italiani del secolo appena trascorso di cui la maggior parte della gente ignora molte vicende di cui furono indubbi protagonisti. Prendiamo Gabriele d’Annunzio, di cui si è da poco celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita. Praticamente tutti sanno che fu definito il Poeta-Soldato. Magari ricordano vagamente di aver letto La pioggia nel pineto o qualche altro componimento poetico. Ma provate a chieder loro perché fu chiamato «Soldato» – nella maggior parte dei casi, si ottiene un sorriso imbarazzato.

Difficile dire perché di d’Annunzio, di cui si riconosce l’indubbio valore letterario (le sue opere sono ormai dei «classici» della letteratura), si parli poco in quanto alla vita. Anzi, a volte si incorre in errori grossolani, per esempio quando lo si etichetta come «fascista» sebbene non si sia mai iscritto al Partito Nazionale Fascista e i suoi rapporti con Mussolini fossero meno idilliaci di quanto la vulgata vorrebbe far intendere (erano entrambi uomini dal carattere troppo fiero, per non avere un rapporto quasi conflittuale).

Ma torniamo al secondo termine del binomio: «Soldato». Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale coglie Gabriele d’Annunzio in un momento cupo della sua vita: l’impoverirsi dell’ispirazione creativa (è già un famoso poeta), l’aridità di una vita piena di avvilenti preoccupazioni economiche, l’amore svuotato sempre più d’ogni attrattiva, l’acuirsi d’una segreta irrequietezza lo spingono a trasfondere ogni energia interiore dall’attività intellettuale a quella pratica ed eroica. Pronuncia frequenti discorsi per incitare gli Italiani a prendere le armi a fianco di Francia ed Inghilterra contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Il 17 marzo 1915, dall’alto del Campidoglio, sopra una folla in delirio, la sua voce si eleva in un urlo: «Sonate la campana a stormo!... Oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la campana!».

Quando, il 24 maggio, l’Esercito Italiano varca il confine con l’Impero Austro-Ungarico, Gabriele d’Annunzio chiede subito di essere arruolato tra i volontari. Dapprima si cerca d’impedirglielo, adducendo limiti d’età (ha ormai cinquantadue anni), ma in realtà perché se ne paventano le iniziative; poi della sua richiesta se ne interessa Antonio Salandra, ed egli può rivestire la sua vecchia divisa di tenente di cavalleria, ed essere assegnato al Quartier Generale del Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, con amplissime facoltà in quanto a decidere le imprese in cui cimentarsi.


Le prime imprese

Volare su Trieste con uno dei primi aerei di legno e tela diviene presto il suo pensiero dominante. Unitosi al tenente pilota Giuseppe Miraglia, a bordo di un apparecchio contrassegnato dal motto «Iterum leo rugit», il 7 agosto lancia sulla città manifestini tricolori rincuoranti le popolazioni in attesa: «Coraggio, fratelli! Coraggio e fede! Vi state avvicinando alla fine del vostro martirio». E il 20 settembre è la volta di Trento, alla cui popolazione i volantini lanciati dal poeta proclamano: «Oggi il pugno bronzeo di Dante si stringe sul tuo capo chino, o popolo di Trento. Sorgi e leva lo sguardo… Il nostro amore, armato di tutto punto, avanza contro la compattezza delle tue rocce e dei tuoi ghiacciai…». E in seguito vola ripetutamente sul Trentino, sul Carso, sulla costa istriana, su Pola, insieme con piloti a cui non fa certo difetto il coraggio, e a cui ordina di lanciare un grido di sua invenzione, «Eja, eja, alalà», destinato a diventare – di lì a non molti anni – famoso in tutto il Paese.

La morte diviene spettacolo comune, ma non certo spettacolo a cui ci si possa abituare. Particolarmente dolorosa per lui è quella che ghermisce proprio Giuseppe Miraglia: «Sopra un lettuccio a ruote», scrive (siamo all’ospedale della Marina, a Venezia), «è disteso il cadavere. La testa fasciata. La bocca serrata. L’occhio destro offeso, livido. La mascella destra spezzata… Il viso olivastro; una serenità insolita nell’espressione». La serenità, vorremmo credere, di chi ha raggiunto la pace.

La morte arriva anche a sfiorare lo stesso Gabriele, il gennaio del 1916. Con Luigi Bologna si prepara ad un ennesimo volo su Trieste, nonostante il tempo cattivo ed il motore dell’apparecchio non in perfetta efficienza. Ad un certo momento, abbassatosi troppo, l’aereo cozza contro un banco di sabbia, nei pressi di Grado. Il poeta è sbalzato dal sedile, nella caduta va a battere l’occhio e la tempia destra contro la mitragliatrice di prua. Sviene. Ricoverato, vorrebbe riprendere parte all’azione, subito, senza sottoporsi alle cure opportune. Ma la vista peggiora, l’occhio destro è perduto: per non perdere anche quello sinistro, deve stare in assoluto riposo. Comincia allora un tormentoso colloquio con se stesso, nell’immobilità del corpo fremente e dolorante e nell’oscurità a cui lo costringono le bende che gli avvolgono gli occhi; sarà un altro capolavoro letterario, il Notturno, il «Commentario delle tenebre»: «Ho gli occhi bendati» scrive con mano malferma; «sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi… Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole… Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egiziano scolpito nel basalto… Sotto la benda il fondo del mio occhio ferito fiammeggia come il meriggio estivo di Bocca d’Arno… Non ho difesa di palpebre né altro schermo. Il tremendo ardore è sotto la mia fronte, inevitabile… Il sudore salso mi cola fin nella bocca misto alle lacrime delle ciglia compresse. Ho sete. Domando un sorso d’acqua. L’infermiera me lo nega, perché m’è vietato di bevere. “Tu ti disseterai nel tuo sudore e nel tuo pianto”. Il lenzuolo aderisce al mio corpo come quello che involge l’annegato stillante di sale, tratto alla riva e deposto su la sabbia sinché non venga qualcuno a riconoscerlo, a chiudergli le palpebre schiumose e a ululare sul suo silenzio…».

Il processo di guarigione è lento; ma, non appena il poeta è in grado di uscire, chiede subito di ritornare all’azione, proprio nei giorni in cui l’Italia viene scossa dalla notizia della cattura e dell’impiccagione di Cesare Battisti e Fabio Filzi. Pur con l’occhio destro ormai perduto per sempre, Gabriele d’Annunzio il 13 settembre si getta al bombardamento aereo di Parenzo insieme al pilota Luigi Bologna, il quale con rara perizia manovra in mezzo alla foschia. Quando giungono a tiro, «tolsi» narra il poeta «le spine dalle mie bombe da gamba, e cercai di ridurre al silenzio il nemico e la mia sorte… Quando calammo nel canale di Sant’Andrea e rimontammo lo scivolo, mi parve che i miei giovani compagni aspettanti, nel sollevarmi sopra le loro spalle, mi esaltassero alla cima della loro gioventù e all’apice delle loro ali. Ero rinato». Quest’impresa gli vale la citazione dal Ministero della Marina.

Da allora, fino all’estate del 1917, il poeta condivide con i fanti la vita di trincea: gli piace mettersi a contatto con gli umili, sentirne l’anima rude e semplice, specialmente se gli accade di incontrarsi con qualcuno della sua terra. Racconta così che una volta «eravamo su per il Veliki, all’assalto. I fanti mordevano l’azzurro. Ma l’azzurro mi rosseggiava. Mi pareva che tutti avessero il mio cuore per insegna vermiglia. Ed ecco, odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi rifluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero tu paesano e romano. “E tu chi si’? E tu chi sei?”. “I’ so’ d’Annunzio”. “Tu si’ d’Annunzie? Gabbriele!”. Lo stupore spalancava la bocca al piccolo fante. “E chi st’ fa’ a ècche? Vàttene! Vàttene! Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te muore, chi t’arrefà?».

Ai primi di novembre, il poeta è coi «Lupi di Toscana», coi quali partecipa alla battaglia che gli vale la promozione a capitano.

Il 12 maggio 1917, il poeta partecipa alla decima battaglia dell’Isonzo, che deve portare i nostri soldati sulle vette del Monte Cucco e del Vodice e giungere, sfondando le linee nemiche, fino alle foci del Timavo. Qui viene impegnata, il 23 maggio, l’accanita battaglia che prende il nome dal fiume, e nella quale viene messa in atto un’idea nuova proposta dallo stesso d’Annunzio: sostenere coi bombardieri dal cielo l’assalto della fanteria. Gli aerei si levano in volo al momento dell’attacco, accrescendo impeto e coraggio ai fanti lanciati all’assalto: il 28 maggio la vittoria, pur con molte perdite, arride alle schiere italiane.

L’aviazione si è rivelata fattrice essenziale di vittoria. «Compagni, la Vittoria torna sul cielo e vi resta» dichiara il 22 luglio Gabriele d’Annunzio. «Io vi dico che l’arma nuovissima, l’ultima venuta, deciderà le sorti, dividerà il nodo tremendo. Il sospiro della vecchia canzone d’amore diventa oggi il nostro più ostinato grido di guerra: Ali, ali, ali!».

Nell’ardore del combattimento, deciso ad osare oltre ogni limite, in agosto, a capo di trentasei velivoli, bombarda a più riprese la base navale di Pola; pochi giorni dopo, si lancia sul cielo del Carso a protezione delle linee italiane che avanzano nella valle di Chiapovano: scende basso sulle linee nemiche e ne torna con l’apparecchio bucherellato e con una leggera ferita al polso – ma la morte, dice, sfugge colui che la cerca. L’atto eroico gli vale la promozione a maggiore.

Bisogna eliminare la minaccia che per le coste italiane costituisce di continuo la base navale di Cattaro, difesa da formidabili postazioni antiaeree: e d’Annunzio, a capo di una formazione di quindici biplani, il 5 ottobre 1917 vola su Cattaro e ne ritorna incolume.

Al rientro da ogni impresa, Gabriele d’Annunzio ne dà regolare celebrazione col linguaggio immaginoso ed enfatico della saga, tanto che il suo nome è presto sulla bocca di tutti. C’è chi vede in tutte queste azioni, piuttosto che il puro e disinteressato eroismo, la bramosia di innalzare la propria personalità attraverso una nuova forma super-umana. È autocelebrazione, certo, su una base di egocentrismo indistruttibile; ma d’Annunzio non è un profittatore della gloria: se la conquista a rischio della vita, perché coraggio ne ha da vendere – la sfida lanciata molte volte al pericolo e alla morte non è retorica. Ma il poeta vuole che la gloria sia clamorosa e abbagliante, per ricavarne il massimo profitto d’immagine.

Dopo le oscure giornate di Caporetto, tocca a lui infondere coraggio nei giovani della classe 1899, ragazzi diciottenni chiamati a vestire la divisa per fermare il nemico dilagante nel Veneto. Bisogna tener duro, «non piegare d’un’ugna»; non basta versare il sangue, non basta offrirsi, non basta morire: bisogna «vivere e combattere, vivere e resistere, vivere e vincere».


La «Beffa di Buccari»

Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, Gabriele d’Annunzio pone in atto quella che sarà ricordata come la sua impresa più eroica, e che passerà alla Storia col nome di «Beffa di Buccari». Scopo dell’impresa è quello di infliggere un grave colpo alla Marina Austriaca, che dal principio della guerra se ne sta annidata nei porti, affondando qualche sua nave da guerra all’ancora.

A notte fonda, su tre piccole motosiluranti (i MAS 94, 95 e 96), gli ideatori dell’impresa, Gabriele d’Annunzio, Costanzo Ciano (padre di Galeazzo Ciano), Luigi Rizzo ed Andrea Ferrarini, si avventurano nelle acque nemiche penetrando nella piccola baia di Buccari, presso Pola. Lì è stata segnalata la presenza di navi da guerra nemiche. È un rifugio che sembra inattaccabile, difeso com’è da potenti artiglierie costiere e sbarrato da catene e reti subacquee: solo un’azione di sorpresa, compiuta da uomini audaci, può raggiungere il successo.

È passata da poco la mezzanotte. Superata Pola, le tre piccole imbarcazioni penetrano nel profondo vallone di Buccari, in casa del nemico. Si distinguono le sagome delle navi all’ancora. Non trovano navi da guerra, ma decidono di lanciare comunque la loro sfida scagliando i siluri contro quattro navi mercantili; le reti di protezione riducono i danni, un piroscafo rimane danneggiato. A completamento dell’impresa, gli incursori hanno con loro tre bottiglie preparate in precedenza, avvolte in nastri tricolori, «pronte alla beffa»: «forti bottiglie nerastre, di vetro spesso, panciute, col cartello dentro avvolto in rotolo» (il cartello della beffa, scritto dallo stesso poeta con inchiostro indelebile). Sul rotolo è scritto: «In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia».

Racconta d’Annunzio: «Poso la prima bottiglia nell’acqua, con le sue belle fiamme spiegate. Ha l’aria giuliva di una piccola balia brianzola acconciata coi suoi pettini e i suoi nastri, che galleggi e s’allontani ballonzolando. Luigi Rizzo si china a guardarla, la segue con gli occhi burlevoli, e non può tenersi dall’imitarla… Poso la seconda bottiglia nella rotta del ritorno… Vedo la terza agitarsi nella nostra scia insolente, mentre usciamo dalla stretta e ci dirigiamo come padroni verso l’imboccatura della baia».

La batteria di Porto Re s’illumina al loro passaggio, ma tace. Il nemico è disorientato: non crede possibile tanta temerarietà – le armi di d’Annunzio e dei suoi compagni non sono che due mitragliatrici a prua ed una a poppa. D’improvviso, quando sono all’altezza di Prestenizze, da qualche posto di vedetta scoppia un tiro di fucileria. Non piegano il capo, rispondono agli spari solo con facezie: e per maggior spregio, invece d’accelerare l’andatura, la rallentano. Accendono per giunta il fanaletto di poppa, perché possa esser visto da una delle tre siluranti, rimasta indietro. Non sanno dove sia, non ne vedono alcuna traccia nella grande oscurità: allora decidono d’invertire la rotta, tornare indietro a cercarla. Con ostentato sprezzo del pericolo passano nuovamente davanti a Prestenizze, si ricacciano nella morsa del nemico; e questo tace, ancora, nel dubbio che si tratti di naviglio amico. Poi, quando la ricerca si rivela inutile, che forse la terza silurante è fuggita per altra via, riattraversano per la quarta volta gli sbarramenti, «ridendo delle sentinelle sbalordite», lasciandosi finalmente dietro, narra il poeta, «le soglie del Quarnaro posseduto. La nostra piccola bandiera quadrata si muove come una mano che faccia un cenno continuo. Ha il rosso rivolto verso l’Italia, che mi par di rivedere in sogno, simile a un grappolo premuto o a un cuore pesto. Ho l’amaro del sale in bocca, come quando nel buio la lacrimazione dell’occhio infiammato mi scendeva fino alla connessura delle labbra arse. L’alba non è eguale per tutti. Dall’Italia navighiamo verso l’Italia».

I danni procurati al nemico sono risibili, ma l’impresa di Buccari ha una grande risonanza in Italia, in una fase della guerra in cui gli aspetti psicologici stanno acquistando sempre maggiore importanza: per il Paese che si sta riorganizzando dopo il disastro di Caporetto, l’eco della riuscita nell’impresa rinvigorisce lo spirito della popolazione e dei soldati impegnati sul Piave.


Il volo su Vienna

Non passa l’estate, che Gabriele d’Annunzio compie una nuova impresa prodigiosa, per la quale gli viene conferita la medaglia d’oro.

Un volo su Vienna l’ha ideato sin dal 1915, ma non ha mai potuto effettuarlo per impedimenti di vario genere, soprattutto perché i Comandi reputano impossibile un volo di mille chilometri di cui ottocento su territorio nemico, con apparecchi dotati di scarsa autonomia. Superato ogni ostacolo (il 4 settembre del 1917 d’Annunzio compie un volo di dieci ore senza particolari problemi), il poeta può intraprendere il volo il 9 agosto 1918, dopo una minuziosa revisione degli apparecchi assegnatigli, otto ricognitori SVA (Savoia – Verduzio – Ansaldo) della squadriglia «La Serenissima»; si tratta di aerei veloci e con grande autonomia. La partenza avviene alle 5,50 del mattino.

Non è cosa facile, i velivoli si trovano a dover affrontare notevoli difficoltà atmosferiche; vicino a Vienna si abbassano a meno di ottocento metri, e cominciano a lanciare non bombe, ma manifestini tricolori, a centinaia di migliaia. Sui manifestini è scritto, in tedesco:

«VIENNESI!

Imparate a conoscere gli Italiani.

Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.

Noi Italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.

Noi facciamo la guerra al vostro Governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele Governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.

VIENNESI!

Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi.

Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai Generali Prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.

POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!

VIVA LA LIBERTÀ!

VIVA L’ITALIA!

VIVA L’INTESA!».

Sono le 9,20 del mattino. Dalla carlinga, gli aviatori vedono con chiarezza la popolazione che si agglomera nelle strade, il suo fermento; ma nessun colpo viene sparato dalla contraerea (solo due caccia austriaci che hanno avvistato la formazione si affrettano ad atterrare per avvertire il Comando, ma non sono creduti). I manifestini lanciati sulla città vengono gelosamente conservati dai Viennesi, in un momento in cui c’è forte penuria di alimenti e tanta sfiducia nelle sorti della guerra.

Dopo aver sorvolato il cielo plumbeo della città, gli aerei prendono la via del ritorno volando su Wiener-Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste. La pattuglia parte compatta, si mantiene in ordine serrato lungo tutto il percorso e rientra al campo di aviazione alle 12,40; manca solo un velivolo, costretto ad atterrare nelle vicinanze di Wiener-Neustadt per un guasto al motore.

È un volo che subito viene ammantato da un’aura di leggenda e che fa un’enorme impressione sugli stessi nemici, sia per l’audacia dell’azione in se stessa, sia per lo spirito cavalleresco degli Italiani che hanno lanciato manifestini, anziché bombe, sulla popolazione inerme (in precedenza, invece, gli Austriaci hanno più volte bombardato città italiane, uccidendo dei civili). Contro l’inerzia della contraerea austriaca che non ha aperto il fuoco, la «Frankfurter Zeitung» raccoglie le aspre critiche che giungono da ogni parte «non contro gl’Italiani» (precisa il giornale) «ma contro le autorità, a cui i Viennesi devono gratitudine per la visita degli aviatori. La popolazione non fu avvisata prima, e non fu dato allarme quando gli aviatori arrivarono. Non occorre dire quale catastrofe poteva accadere se, invece di proclami, avessero gettato bombe. Non si comprende come abbiano varcato centinaia di chilometri senza essere avvistati dalle stazioni di osservazione austriache».

Il volo su Vienna – militarmente irrilevante, ma che produce un’enorme impressione in Italia e nel mondo – chiude in gloria le imprese militari di Gabriele d’Annunzio nella Prima Guerra Mondiale. Il 3 novembre, le truppe italiane entrano in Trento e in Trieste; il giorno dopo, l’Austria firma l’armistizio. Nell’esultanza del trionfo, il poeta eleva un encomio altissimo al «Re Vittorioso», e poco dopo invia alla «Gazzetta del Popolo» di Torino un telegramma, in cui fra l’altro si legge: «Non ho mai sentito tanto profondo l’orgoglio di essere italiano. Fra tutte le nostre ore storiche, questa è veramente la più alta… Solo oggi l’Italia è grande, perché solo oggi l’Italia è pura fra tante bassezze di odii, di baratti, di menzogne…».

(marzo 2014)

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