Foibe istriane ed esodo giuliano-dalmata 80 anni dopo
Riflessioni in memoria dei caduti e valutazioni attuali

Esistono epoche storiche in cui l’antica «pietas» nei confronti dei caduti lascia spazi altrimenti imprevedibili alla violenza cieca e perversa, tanto più traumatica quando si compie in tempi come quelli contemporanei, e in momenti come quelli europei, che a torto o ragione si ritengono civili per distinguerli dalle epoche ferine in cui, secondo la pertinente immagine di Giambattista Vico[1], gli uomini somigliavano davvero a «bestioni tutta ferocia». La tragica vicenda delle Foibe istriane, insieme al dramma del grande Esodo, costituisce un esempio molto importante di quei momenti strazianti.

Dopo il disastro dell’8 settembre 1943, con l’armistizio e la cosiddetta «morte della patria» di cui la storiografia contemporanea parla non senza ragione come nella pertinente definizione di Ernesto Galli della Loggia[2], nelle regioni del nostro confine orientale le forze comuniste jugoslave agli ordini del Maresciallo Tito, diventate dominatrici improvvise del campo, si resero protagoniste di un truce delitto collettivo: la pulizia etnica, o meglio la caccia agli Italiani, protratta senza apprezzabili soluzioni di continuità fino al 1947, data dell’infausto trattato di pace, se non anche oltre, in un lungo stillicidio di parecchi anni.

La cosiddetta «prima ondata» ebbe spazio bimestrale avendo trovato un ostacolo decisivo nel ritorno italo-tedesco e nel controllo di tutti i centri maggiori da parte dell’Asse, pur continuando anche nei tempi successivi in una rilevante serie di agguati e di attentati, ed esplodendo nel 1945, a guerra finita. Appartiene a quell’epoca iniziale l’estremo sacrificio di tanti Italiani del tutto incolpevoli: tra gli altri, a titolo di esempi tanto valorosi quanto celebri, la Medaglia d’Oro Norma Cossetto, infoibata a Villa Surani il 5 ottobre 1943, assurta a simbolo del martirio giuliano, istriano e dalmata per il nobile comportamento manifestato davanti ai suoi massacratori; e il Fiorentino Alberto Picchiani, che era stato trasferito in Istria, dalla direzione di un’importante azienda marmifera della Versilia a quella del grande complesso minerario di Arsia, con parecchie migliaia di lavoratori.

La storia di Norma è diventata un punto di riferimento imprescindibile nella storia di quella stagione tremendamente cupa, sia per le innominabili sevizie di cui fu vittima prima della morte «liberatrice» sia per la lunga opera di comunicazione e documentazione storiografica mirabilmente svolta dalla sorella Licia, e poi dall’associazionismo giuliano-dalmata, in collaborazione col momento pubblico nazionale e locale. Non a caso, la massima onorificenza conferita alla memoria di Norma è dovuta al «motu proprio» di un Capo dello Stato particolarmente attento ai Valori «non negoziabili» e quindi, ai loro alti significati etici e simbolici, come Carlo Azeglio Ciampi.

Dal canto suo, l’Ingegnere Picchiani, esente da ogni responsabilità politica, aveva trasferito nel suo nuovo incarico la competenza e la passione già acquisite in campo tecnico, oltre che in quello della formazione a vantaggio paritetico delle maestranze, sia italiane sia slave. Nondimeno, fu sequestrato dai partigiani, torturato e brutalmente infoibato nell’orrido di Vines, presso Albona, trovando la forza di lanciare in faccia ai suoi assassini il nobile grido patriottico dei martiri irredenti, da Guglielmo Oberdan a Nazario Sauro: «Viva l’Italia»!

Grazie alla meritoria e difficile opera dei Vigili del Fuoco di Pola, le spoglie di questo caduto sono fra le poche – non più di un migliaio – che fu possibile recuperare a fronte di almeno 16.500 vittime infoibate o diversamente massacrate, come da precisa testimonianza storiografica di Luigi Papo. Nella fattispecie, il feretro fu trasferito a Forte dei Marmi (Lucca), affidandolo al comune ricordo, assieme a quello di tutti gli altri martiri, nel monumento innalzato a monito perenne, e celebrazione dei Valori «non negoziabili» per cui quei caduti fecero sacrificio della vita.

Assieme a loro, è doveroso rendere omaggio ai 350.000 esuli[3] che pur di restare Italiani e liberi si videro costretti ad abbandonare quanto avevano di più caro, dagli affetti ai beni materiali, per non dire dei sepolcri degli avi presenti in circa 300 cimiteri dei territori giuridicamente non più italiani, iniziando una nuova e difficile vita nei 114 campi di raccolta[4], alcuni dei quali sarebbero rimasti in essere sino alla fine degli anni Sessanta. In un quarto dei casi (circa 80.000) gli esuli, stanti le difficoltà occupazionali e gli ostacoli ambientali, affrontarono coraggiosamente la diaspora dell’emigrazione, per la maggior parte in Paesi oltremare, con particolare riguardo a quelli del continente americano, dove non pochi avrebbero affermato capacità e dignità del proprio lavoro.

Sia nel caso di esilio in territorio italiano, sia in quello della soluzione estera, la scelta ebbe carattere definitivo, e come tale, sostanzialmente irreversibile. Lo dimostra il fatto oggettivo che, trascorsi 80 anni da quegli avvenimenti allucinanti, i rientri nelle terre d’origine si siano contati sulle dita delle mani anche dopo la divisione della ex Jugoslavia in sette Stati indipendenti e l’avviamento dei non facili processi del loro avvicinamento al mondo occidentale, e di avanzamenti in senso democratico, piuttosto diversi, se non anche molto limitati a seconda dei casi. In buona sostanza, la quasi totalità dei profughi e dei loro eredi ha finito per evolvere alla condizione di esuli senza ritorno anche nei casi, peraltro minoritari, in cui si era confidato in soluzioni diverse, come per la Zona «B» del cosiddetto «Territorio Libero di Trieste», trasferita alla Jugoslavia in via di fatto, e formalizzata alcuni decenni più tardi con l’infelice trattato di Osimo (1975).

Una delle conseguenze più importanti, specialmente sul piano etico, è stata quella che ha visto la pregiudiziale irredentista abbandonare in modo progressivo il suo obiettivo, dichiarato soprattutto nel biennio che aveva preceduto la firma del trattato di pace (1947) e confermato anche in tempi successivi a cura precipua delle prime generazioni esuli, ma nello stesso tempo, non rinunziando mai al suo permanente e imprescindibile valore morale, comunque non privo di rilevanza politica, sia pure in tempi indefiniti.

Del resto, la storiografia ha dovuto prendere atto delle modificazioni rivoluzionarie avvenute nella struttura delle nuove realtà ex jugoslave dopo la morte di Tito (1980), che in precedenza erano sembrate talmente impolitiche da non essere prese in considerazione nemmeno come ipotesi. Al contrario, la fede aveva già intrapreso percorsi diversi, al pari di quella da cui era stato animato tutto il lungo Risorgimento Italiano, e di quelle che avevano presieduto ai tanti movimenti di riscatto diffusi nell’Europa delle nazionalità e dei valori di una nuova «religione della libertà» come quella espressa nel pensiero di Benedetto Croce.

A più forte ragione, l’Italia – anche alla luce della Legge 30 marzo 2004 numero 92 – ricorda[5] con frequenti partecipazioni diffuse dalle Alpi alla Sicilia, e s’impegna a farsi garante dei valori affermati tangibilmente dal popolo giuliano, istriano e dalmata, e da tanti connazionali di buona volontà, nell’auspicio che il loro patrimonio civile, umano e soprattutto etico, possa diventare il buon seme destinato a germogliare in un ambito sempre più ampio e condiviso di speranze, di solidale attesa e di ordinato progresso.


Note

1 Per una presentazione sistematica della vita e delle opere del grande pensatore meridionale, della sua visione cristiana e della sua straordinaria anticipazione di temi cari all’idealismo se non anche al romanticismo, confronta Giambattista Vico, La Scienza Nuova, Biblioteca Universale Rizzoli, settima edizione, Milano 1998, 764 pagine.

2 Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria – La crisi dell’idea di Nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza Editori, Bari 1998, 152 pagine. Muovendo dall’assunto secondo cui la Resistenza non sarebbe riuscita a fondare un’identità nazionale dell’Italia democratica, l’Autore ipotizza, in conclusione, essere questa «la più pesante eredità, che la guerra perduta ha trasmesso».

3 La cifra effettiva degli esuli – al pari di quella delle vittime – è oggetto di valutazioni talvolta discordi da parte della storiografia di riferimento. A prescindere da quelle minoritarie, riconducibili al numero naturalmente riduttivo di quanti avrebbero chiesto il riconoscimento formale della qualifica di profugo, pari a poco più di 200.000, è congruo rammentare le stime maggiori, con riguardo prioritario all’analisi di Guido Deconi in Slovenia 1941-1952: Anche noi siamo morti per la Patria, Associazione per la sistemazione dei Sepolcri tenuti nascosti, Lubiana 2000, pagine XLIV-XLVII, dove si afferma che quello di 350.000 è un «falso numero» motivato dall’opportunità di un compromesso accettato tanto a Roma quanto a Belgrado, o per meglio dire, da una «risposta politica per non scontentare nessuno». In un’ottica analoga si colloca Flavio Fiorentin, L’Eredità del Leone, Aviani & Aviani Editori, Udine 2018, laddove, avuto riguardo anche agli Italiani che erano «residenti nelle città e nei territori della Dalmazia che mai fecero parte del Regno d’Italia» ritiene ragionevole «rivedere più realisticamente le cifre semi-ufficiali avvicinandole maggiormente a 45.000 uccisi e 500.000 esuli» (pagina 360).

4 Per una sintesi sull’argomento confronta Carlo Cesare Montani, «Campi profughi: la diaspora dell’esilio giuliano, istriano e dalmata», in Venezia Giulia Istria Dalmazia – Pensiero e vita morale, Aviani & Aviani Editori, Udine 2021, pagine 199-206.

5 All’atto della sua promulgazione, la Legge istitutiva del Ricordo, ora pervenuta al ventennio di operatività, fu definita da alcuni patrioti come «pietra tombale» sulle residue speranze del popolo giuliano, istriano e dalmata. Alla luce delle tante iniquità del trattato di pace e del suo seguito, la definizione non era infondata; nondimeno, il provvedimento, alla luce dell’esperienza acquisita, ha finito per assumere un ruolo di rilevanza morale anche per il contributo offerto in tema di riconoscimenti postumi ai caduti, tramite le onorificenze ivi statuite.

(marzo 2024)

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