Irredentismo giuliano e dalmata: momenti della storia e della vita etico-politica
Riflessioni attuali a 160 anni dall’Unità, oltre un secolo dalla vittoria italiana nella Grande Guerra (1915-1918) e dall’impresa fiumana dei Legionari dannunziani (1919-1920)

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando i patrioti dell’ultimo Risorgimento – per cui Giovanni Spadolini aveva coniato la definizione di «bardi della democrazia» – si erano proposti di agire in favore dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata quale «ragione della propria vita» come nel caso esemplare ma non certo unico di Matteo Renato Imbriani e di altri esponenti della sinistra repubblicana e radicale, fra cui Agostino Bertani, Giovanni Bovio e Felice Cavallotti. La destra, al contrario, guardava alle colonie con generale preferenza, e non era stata aliena dal promuovere la nuova Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali [1] cui l’Italia aveva appena aderito rinunciando alle vecchie pregiudiziali, anche in seguito all’occupazione francese di Tunisi, a danno precipuo della sua presenza culturale e commerciale sulla «quarta sponda», assai più rilevante.

L’adesione alla Triplice, in effetti, si era resa necessaria per evitare l’isolamento della giovane compagine statale italiana, cui non potevano bastare vaghe simpatie britanniche per la tutela dei propri interessi, e prima ancora, delle sue esigenze di un consolidamento unitario ancora imperfetto per la mancanza, se non altro, del Trentino e della Venezia Giulia. Ciò significa che il confronto tra il moderatismo e gli aneliti rivoluzionari, già attuato nel Risorgimento, doveva necessariamente evolvere a favore del primo senza che le suggestioni coloniali si ponessero in contrasto con tale scelta, perché addolcite da un diffuso umanitarismo, in cui si distinse prioritariamente il Ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini. In buona sostanza, la decisione di aderire alla Triplice fu un atto necessario, ancorché assunto in antitesi ai valori risorgimentali; o se si preferisce, in adesione ai canoni sempre attuali della Ragione di Stato.

L’alleanza con Austria e Germania, naturalmente, parve precludere ogni possibilità di successo ai paladini dell’irredentismo, che avevano tratto nuove motivazioni, già nel 1866, dal fatto che Trento e Trieste, unitamente alle loro regioni, erano rimaste saldamente in possesso di Francesco Giuseppe, e del suo sistema pervicacemente assolutista. Un fattore, quest’ultimo, che non mancava di alimentare rinnovate proteste da parte dei patrioti, diventate a maggior ragione di forza inderogabile quando Guglielmo Oberdan fu tristemente consegnato al boia venuto da Vienna, sebbene il martire fosse stato riconosciuto colpevole di un’intenzione, e nulla più. D’altro canto, l’irredentismo, oltre a essere avversato dalla destra e dal centro moderato, trovava un’altra opposizione importante nell’estrema sinistra socialista, nemica naturale dell’assolutismo asburgico ma non meno contraria a qualsiasi posizione di forza, come quelle che sarebbero state necessarie per sostenere la tesi dell’affrancamento giuliano e trentino dalle unghie del vecchio regime restaurato già dal 1815.

Agli albori del nuovo secolo, nonostante la tremenda sconfitta di Adua che nel 1896 parve avere liquidato senza appello le suggestioni coloniali care alla destra, cominciando dal suo massimo vessillifero nella persona di Francesco Crispi, le cose non andarono meglio per i propugnatori dell’irredentismo. Nella realtà, i sogni del «posto al sole» continuavano a proporsi sia pure in forma meno accentuata, ma sempre assistita dalla necessità di assicurare uno sbocco conveniente alla troppa manodopera italiana eccedentaria, «in primis» per la mancanza di adeguati investimenti.

Caso mai, le critiche erano rivolte al dilettantismo con cui le imprese «africaniste» erano state gestite sin dall’inizio, e non soltanto dal punto di vista strettamente militare: basti pensare ai pesanti pastrani con cui i primi soldati italiani avevano posto piede a Massaua sin dalle prime esperienze coloniali, per non dire dell’incapacità di comprendere l’atteggiamento assunto dai popoli locali, non sempre «primitivi» ma fedeli ad antichi sentimenti religiosi e nazionali, sia pure in senso lato. Non a caso, dopo un decennio di preparazione che per alcuni aspetti parve iterare talune esperienze risorgimentali, l’Italia affrontò il nuovo conflitto con la Turchia per il possesso della Tripolitania e della Cirenaica, poi rinominate globalmente in Libia, che non fu privo di nuove difficoltà ma che alla fine si chiuse positivamente, anche a causa delle condizioni ormai molto difficili in cui versava la Sublime Porta. Se non altro, la guerra di Libia valse a esorcizzare il ricordo traumatico dello schiaffo tunisino, corroborando la fiducia dell’Italia in forze proprie che nel 1908 e nell’anno successivo ebbero un ruolo importante nel superare il nuovo trauma del terribile terremoto da cui Messina e Reggio Calabria erano state distrutte quasi integralmente.

Era il preludio della Grande Guerra combattuta a fianco dell’Intesa dopo un rovesciamento delle alleanze non certo indolore e non condiviso da tutte le forze politiche. La nuova scelta fu subitanea, e puntualmente subita dalle classi inferiori sin dall’inizio del nuovo conflitto, iniziato nel maggio 1915 dopo dieci mesi di attesa neutrale da parte italiana (sugli altri fronti si combatteva dall’estate dell’anno precedente). Tale attesa fu annullata dal Patto di Londra dell’aprile, inizialmente segreto al pari dei suoi contenuti strategici che in caso di vittoria prevedevano, tra l’altro, l’acquisizione di Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia, quest’ultima non avvenuta a guerra conclusa, se non in parte minima per la piccola «enclave» di Zara[2].

La svolta fu di grande importanza sul piano militare, mentre l’Italia prese coscienza più compiuta della propria nazionalità e dei suoi valori nonostante il dramma di Caporetto superato in modo palese sul Piave e sul Monte Grappa; ma prima ancora sul piano politico, in specie con il Governo unitario di Pietro Boselli, di cui fecero parte anche i democratici repubblicani e radicali, e per la prima volta, gli stessi cattolici, che nell’occasione rinunciarono al «non expedit» e posero le prime basi della definitiva Conciliazione fra Chiesa e Stato, sopravvenuta nel 1929.

Il «sole» di Vittorio Veneto – che parve somigliare a quello di Austerlitz in cui si era celebrata la maggior gloria di Napoleone – rifulse pienamente sull’Italia, anche se restava la triste ombra dei troppi caduti, degli invalidi, e di una grande cifra di ex combattenti che non videro realizzarsi le promesse della vigilia, a cominciare da quella della «terra ai contadini». Molti di loro andarono ad alimentare una protesta in cui s’innestarono conflitti interni di forte valenza fisica e morale, con particolare riguardo a quello fra il socialismo, da una parte, e il vecchio nazionalismo integrato dalle nuove forze fasciste, dall’altra. Il resto è storia nota: dopo lo «stato d’assedio» proclamato nell’ottobre 1922 durante il Governo di Luigi Facta, e la revoca del medesimo da parte della Monarchia, Vittorio Emanuele III affidò a Benito Mussolini l’incarico di formare un nuovo Ministero di coalizione, in cui entrarono anche gli esponenti dei partiti moderati ma non l’estrema sinistra. Circa due anni più tardi, con le cosiddette «leggi fascistissime», avrebbe avuto inizio il regime a partito unico ma pur sempre con la diarchia composta dal Capo del Governo e dal Sovrano.

Questa rapida sintesi trova completamento nell’Impresa dannunziana di Fiume, che aveva avuto inizio nel settembre 1919 quando il Comandante, pluridecorato della Grande Guerra, ruppe gli indugi imposti dalle vicende internazionali per la ricerca di una difficile pace, e prese possesso del capoluogo e del relativo circondario assieme ai «Giurati di Ronchi» e ai suoi Legionari, che nel giro di breve tempo diventarono parecchie migliaia, con significative adesioni nel mondo politico, culturale e civile della nuova Italia[3].

Dapprima, Gabriele d’Annunzio lo fece nel nome dell’Italia, e durante l’anno successivo, perdurando l’atteggiamento attendista di Roma, costituendovi la cosiddetta «Reggenza del Carnaro» e dotandola di un Governo socialmente molto aperto, improntato a valori di forte modernità, quali l’uguaglianza, il suffragio universale, l’etica del lavoro, la difesa dello Stato, la diffusione della cultura. Non ebbe il conforto dell’adesione, e tanto meno della collaborazione da parte dei Governi Italiani dell’epoca guidati da Francesco Saverio Nitti, e poi da Giovanni Giolitti (questi, col suo quinto e ultimo Gabinetto). Proprio il vecchio liberale piemontese volle chiudere l’esperienza fiumana del Comandante col celebre Natale di Sangue (24-31 dicembre 1920) scatenando un breve confronto fra Italiani chiuso col cannoneggiamento della Reggenza, proveniente dalle navi governative presenti in rada[4]. Ciò, con alcune decine di caduti dell’una e dell’altra parte, e con la non meno celebre allocuzione dannunziana del 3 gennaio nel Camposanto di Cosala, in un solo abbraccio a coloro che, su entrambi i fronti, avevano fatto olocausto della vita. Ecco un esempio davvero prescrittivo di valore e di onore, a fronte di un atto governativo che era sembrato indulgere alla triste scorciatoia della guerra civile.

I sedici mesi di governo dannunziano a Fiume non furono un episodio fine a se stesso, ma valsero a richiamare l’attenzione comune su quanto diventava importante la scelta dell’azione, in specie qualora fosse suffragata, come nel caso di specie, da un’ampia volontà popolare, non estranea alle conclusioni che almeno nel medio termine ebbero esito positivo.

D’Annunzio si ritirò nel Vittoriale di Gardone (Brescia) dove avrebbe vissuto nel ricordo e nell’impegno letterario fino al 1938, quando le sue spoglie furono deposte nella grande arca marmorea circondata da quelle dei fedelissimi, ma il dado era stato tratto. Infatti, dopo la breve esperienza autonomista e dopo l’amministrazione provvisoria del Generale Gaetano Giardino, Fiume – a seguito dei nuovi accordi internazionali tra Roma e Belgrado – divenne pienamente italiana nel 1924, rimanendo tale fino al 1945, quando fu occupata dalle truppe comuniste del Maresciallo Tito al termine della Seconda Guerra Mondiale[5] per diventare ufficialmente jugoslava con il trattato di pace del 10 febbraio 1947.

L’irredentismo, sia pure nei valori culturali e cristiani della nuova tradizione etica, civile e religiosa, improntati alla cooperazione e alla tutela dei valori nazionali italiani, assumeva caratteri di rinnovata attualità.


Note

1 La firma del trattato ebbe luogo il 20 maggio 1882 a Vienna, e per l’Italia fu apposta dal conte Carlo Felice Nicolis di Robilant. Nonostante il vincolo di segretezza, la sua esistenza fu conosciuta in tempi molto brevi, anche per quanto riguarda il carattere esclusivamente difensivo assunto dal trattato in questione, che contribuì a orientare la politica italiana in senso conservatore, a fronte dell’implicito riconoscimento di Roma capitale anche da parte della «cattolicissima» Austria. Un inquadramento generale, anche con riguardo specifico alla genesi del principio di nazionalità, all’irredentismo, all’Impresa di Fiume, e agli esiti della Seconda Guerra Mondiale, è quello di Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia – Pensiero e Vita morale – Tremila anni di storia, Aviani & Aviani, Udine 2021, 410 pagine. Un’utile sintesi di storia locale è reperibile anche in Pierluigi Romeo di Colloredo, Confine orientale: Italiani e Slavi sull’Amarissimo dal Risorgimento all’Esodo, Eclettica Edizioni, Massa 2020, 212 pagine.

2 Il Patto, anch’esso segreto, fu firmato con i nuovi Alleati Occidentali il 26 aprile, sette giorni prima della denuncia della Triplice, che ebbe luogo con una nota indirizzata agli altri contraenti da parte del Ministro Sidney Sonnino. Le nuove intese, oltre a Trentino, Venezia Giulia e gran parte della Dalmazia, garantivano all’Italia, nel caso di una sua entrata in guerra e di vittoria dell’Intesa, anche l’Alto Adige, il protettorato sull’Albania, le isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero turco di Adalia, e alcuni possedimenti africani della Germania (alcune di queste intese, com’è noto, furono totalmente disattese nel dopoguerra: quelle riguardanti la Dalmazia, anche a fronte della nuova realtà nazionale jugoslava che non era stata prevista negli accordi del 1915).

3 La bibliografia circa l’Impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio si avvale di un numero davvero straordinario di opere, da quelle coeve alle più recenti. Qui, tra le più esaustive riguardanti gli eventi, nelle loro matrici, evoluzioni e conclusioni, basti ricordare: Edoardo Susmel, La Marcia di Ronchi, Editore Ulrico Hoepli, Milano 1941, 480 pagine; e Ferdinando Gerra, L’Impresa di Fiume – Nelle parole e nell’azione di Gabriele d’Annunzio, Longanesi, Milano 1966, 728 pagine.

4 La Reggenza non aveva accettato le intese siglate col Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, al termine di una conferenza bilaterale iniziata cinque giorni prima, quando l’Italia aveva ottenuto le isole di Cherso e Lussino nel Golfo del Carnaro, e un piccolo allargamento territoriale intorno al Monte Nevoso; alla Jugoslavia, invece, fu riconosciuta tutta la Dalmazia con le sole eccezioni marginali di Zara e di Lagosta che furono assegnate all’Italia, mentre Fiume venne dichiarata «Città libera».

5 Le truppe titoiste presero possesso del capoluogo il 2 maggio, a brevissima distanza dalla «conquista» di Trieste, cui avevano dato preferenza nella cosiddetta «corsa» in cui ebbero la meglio, sempre per poche ore, su quelle neozelandesi volutamente fermate alle porte della città di San Giusto. In pari data sarebbero iniziati, sempre a Trieste, i terribili «quaranta giorni» dell’occupazione slava, caratterizzata come altrove da un ampio numero di sequestri e di uccisioni a danno di tanti Italiani, colpevoli soltanto della propria nazionalità. Al contrario, a Fiume, come nelle altre città istriane e dalmate, il dramma non ebbe più fine. Sull’argomento specifico del capoluogo quarnerino, una sintesi esauriente, anche alla luce della bibliografia e dei documenti in appendice, è quella di Amleto Ballarini, L’Olocausta sconosciuta – Vita e morte di una città italiana, Edizioni Occidentale, Roma 1986, 248 pagine.

(dicembre 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, irredentismo giuliano, Gabriele d’Annunzio, Giovanni Spadolini, Matteo Renato Imbriani, Agostino Bertani, Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Pasquale Stanislao Mancini, Francesco Giuseppe, Guglielmo Oberdan, Francesco Crispi, Pietro Boselli, Napoleone Bonaparte, Luigi Facta, Vittorio Emanuele III di Savoia, Benito Mussolini, Francesco Saverio Nitti, Giovanni Giolitti, Gaetano Giardino, Maresciallo Tito, Carlo Felice Nicolis di Robilant, Sidney Sonnino, Pierluigi Romeo di Colloredo, Edoardo Susmel, irredentismo dalmata, Ferdinando Gerra, Amleto Ballarini, Italia, Tunisi, Roma, Trentino, Venezia Giulia, Austria, Germania, Trento, Trieste, Vienna, Adua, Massaua, Turchia, Tripolitania, Cirenaica, Libia, Messina, Reggio Calabria, Dalmazia, Zara, Caporetto, Piave, Monte Grappa, Vittorio Veneto, Austerlitz, Fiume, Cosala, Vittoriale, Gardone, Belgrado, Alto Adige, Albania, Dodecaneso, Adalia, Rapallo, Cherso, Lussino, Monte Nevoso, Lagosta, Grande Guerra, Impresa di Fiume, Legionari dannunziani, Triplice Alleanza, Imperi Centrali, Risorgimento, Ragione di Stato, Estrema Sinistra, Sublime Porta, Patto di Londra, Conciliazione di Chiesa e Stato, Reggenza Italiana del Carnaro, Natale di Sangue, Seconda Guerra Mondiale, Corsa per Trieste, irredentismo giuliano e dalmata.