Bhopal
Il disastro secondo solo a Chernobyl

L’uomo e tutto il mondo che lo circonda, denso di animali e vegetali, è alla mercé della natura, cioè di tutto quanto questa può offrirgli sia in bene, sia in male, senza la possibilità di difendersi, qualora ciò sia dannoso e pericoloso; difatti, mentre può trovarsi sotto un cielo sereno, in un ambiente tranquillo e piacevole, può pure verificarsi che sia colpito da violente bufere di neve, da rovinosi torrenti di acqua o da disastrosi terremoti o da altre disgrazie apocalittiche senza scampo. In questi casi, non si può far altro che maledire la natura matrigna, non essendo gli esseri viventi altro che vittime sacrificali, soggette alla volontà maligna del destino. È così, purtroppo!

Ma quando, al contrario, i disastri sono dovuti alla troppa faciloneria, alla voglia di fare quattrini sulla pelle degli altri o, perché no, per ignoranza da parte dell’uomo, beh, allora non c’è da meravigliarsi se l’opinione pubblica scoppia in rimostranze, uscendo dai gangheri.

In questa nota si intende ritornare su un disastro, quello qualificato per gravità come il secondo, immediatamente dietro a quello avvenuto a Chernobyl il 26 aprile 1986, provocato da un’esplosione nella locale centrale nucleare, che ha causato la morte immediata di 64 persone e la necessità di allontanare dalla zona contaminata, con estrema sollecitudine, l’enorme massa di diverse centinaia di migliaia di individui.

Ciò che capitò a Bhopal, in India, è stato considerato, si ribadisce, il secondo come gravità dietro a Chernobyl.

Per la cronaca, non è male ricordare che la società responsabile di quanto è accaduto, era già incappata in un disastro, dando un esempio della leggerezza con la quale affrontava i suoi lavori: infatti, nel 1930, la società doveva scavare una galleria, che fu chiamata «Hawk’s Nest Tunnel», per il passaggio dell’acqua dal fiume New River a una centrale idroelettrica situata più a valle, perforando le rocce silicee della Gauley Mountain, nella Virginia Occidentale. Ma non mise in atto le norme di sicurezza e tutte le più comuni precauzioni del caso, per cui dei 2.000 uomini che vi hanno lavorato all’interno 764 sono morti di silicosi e gli altri hanno avuto gravi problemi respiratori.

Il fattaccio peggiore avvenne il 3 dicembre 1984, in una fabbrica di pesticidi della società multinazionale statunitense Union Carbide Corporation (UCC), con sede nei pressi della città indiana di Bhopal, nello Stato di Madhya Pradesh, nata nel 1917 dalla fusione di due grandi compagnie chimiche. Era specializzata nella produzione di svariati tipi di sostanze chimiche. Interessante, soprattutto dal punto di vista economico, il suo brevetto del 1919 relativo alla produzione di etilene partendo dalla elaborazione di gas naturali, che l’aveva inserita nell’industria petrolchimica. Comunque, i prodotti erano tanti e diversificati: per esempio, era sua la produzione delle batterie Energizer.

La società aveva deciso di aprire uno stabilimento in India, Paese che aveva una grande necessità di pesticidi, per natura estremamente tossici, che servivano per difendere i suoi prodotti agricoli dall’attacco di parassiti, evitandone in tal modo il lungo e pericoloso trasporto dagli USA. Pertanto a questo scopo, nel 1934, fu fondata la Union Carbide India Limited (UCIL), società per azioni, di cui la parte minoritaria era di azionisti privati, soprattutto indiani, e di banche. La società possedeva 14 impianti di produzione, di cui faceva parte quello di Bhopal costruito nel 1969, su un terreno preso in affitto dalle autorità locali, situato nelle immediate vicinanze dell’abitato; tutto ciò contrariamente a quanto si dovrebbe fare quando si manipolano sostanze pericolose, che dovrebbero essere tenute il più possibile alla larga, in località isolate, per evitare possibili guai agli estranei. Era specializzata nella produzione di un pesticida commercialmente noto come Sevin, che è il frutto della lavorazione dell’isocianato di metile (MIC), sostanza tossica al massimo, ottenibile con una reazione fra fosgene e metilammina; questo composto è altamente dannoso per la salute, poiché danneggia in modo irreversibile gli organi degli esseri viventi.

Dal punto di vista sanitario, la società, dichiarando di voler tutelare la salute del personale, fornì l’ospedale locale Hamidia delle attrezzature necessarie per la rianimazione, qualora si fossero verificati casi di contatti con i gas manipolati, e di un’infermeria interna per controllare la salute e per curare eventuali problemi di respirazione. Ma il tutto non fu accompagnato dalla necessaria informazione ai medici non solo sulle sostanze pericolose che erano utilizzate, ma pure su quelle che erano giacenti all’interno della struttura.

Intanto, che le cose non andassero nel giusto verso era dimostrato dalle lamentele sollevate nel 1969 dai sindacati locali, che avevano riscontrato che l’impianto era inquinante. Qualche anno più tardi, un operaio morì un paio di mesi dopo aver inalato fosgene. Il fatto, estremamente grave, richiamò l’attenzione della stampa locale e un giornalista, che aveva cercato di capire qualcosa di più, ne aveva avuto le prove; la sua reazione sfociò in un appello con cui invitava i cittadini di Bhopal di aprire gli occhi su quanto stava bollendo in pentola. Nel 1976, ci furono altre lamentele da parte di due sindacati, che denunciavano fughe di gas nei locali della fabbrica. E nei primi anni ’80, ci fu la dimostrazione di quanto si era temuto: 45 operai furono ricoverati in ospedale per il malessere riscontrato dopo essere stati esposti al fosgene e all’isocianato.

Ma le condizioni ambientali non migliorarono, forse perché non erano fatte le manutenzioni necessarie, o lo erano ma non in maniera adeguata, tanto che in quel periodo furono segnalate fughe di fosgene, al quale facevano compagnia il tetracloruro di carbonio, l’isocianato di metile e la monometilammina. Pertanto, si era formata una situazione ambientale che avrebbe potuto attivare sospetti a non finire e richiedere l’effettuazione dei controlli appropriati.

Dopo un buon inizio nella distribuzione del pesticida Sevin, ci fu un calo sensibile nelle vendite, non perché il prodotto avesse perduto la sua validità, bensì perché sul mercato dell’India erano giunti prodotti altrettanto efficaci, ma molto più economici, che si erano diffusi a macchia d’olio. La ditta cercò di riprendere le redini del mercato, abbassando i costi; naturalmente, per difendersi dal calo delle entrate, licenziò quasi la metà del suo personale, fra cui quello più preparato, e sostituì parte di quello rimasto con elementi meno formati, che costavano meno. Non c’è da meravigliarsi se il tutto si risolse in maniera riprovevole in merito alle condizioni di sicurezza, anche se l’azienda dichiarava che il suo motto era «Safety First» («La salute prima di tutto»).

Nel 1982, diversi lavoratori furono colpiti dal contatto con il fosgene. Abitanti del sobborgo Chola informarono la polizia che erano in atto fughe di gas; questa chiese chiarimenti alla società, dalla quale prima fu dichiarato che tutto era posto e poi che non sapevano che cosa fosse successo. Insomma, non essendoci collaborazione fra ditta e autorità, le cose continuarono tranquillamente il loro corso.

E così, nel 1983, considerato il calo delle vendite di Sevin, la UCIL ne aveva interrotto la produzione, decidendo di trasferirla in altri paesi; ma non cercò di eliminare la scorta di ben 63 tonnellate di isocianato di metile, raccolti in tre serbatoi, tenuti raffreddati a 4°C dall’azoto, al fine di evitarne l’ebollizione che avviene a 38°C. Ma fu grave la disattivazione dei sistemi di sicurezza, mentre imperdonabile fu lo spegnimento di quello che regolamentava il raffreddamento dell’isocianato di metile, seguito della sospensione del pompaggio di azoto che ne causò la depressurizzazione; per completare l’opera, fu interrotto pure il funzionamento della torcia a fiamma che eliminava eventuali fughe di gas. Tutto questo fu estremamente negativo. Poi, la società chiuse definitivamente la fabbrica il 26 ottobre 1984, abbandonandola praticamente a se stessa o quasi.

Tutto sembrava tranquillo, ma nelle prime ore del mattino del giorno 3 dicembre 1984, a meno di due mesi dalla chiusura dello stabilimento, nel settore adibito alla produzione del Sevin avvenne ciò che tutti si aspettavano che succedesse, ma che nessuno si era adoperato per prevenire.

Riandando alla notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, un operaio di turno nello stabilimento della UCIL stava facendo un’operazione usuale: forse per un suo errore, ma sicuramente per colpa di una valvola mal funzionante, successe l’irreparabile: acqua entrò in contatto con le tonnellate di isocianato di metile contenuto in una delle tre cisterne. Purtroppo, l’acqua e il MIC sono come cani e gatti: non di rado se le danno di santa ragione. Tanto è vero che fra le due sostanze si avviò una reazione esotermica, che innalzò la temperatura e, in un caso del genere, sarebbero dovuti scattare i sistemi di sicurezza a suo tempo allestiti per bloccare le fughe di gas: questi consistevano in un abbattimento a torre, la cui funzione avrebbe dovuto essere quella di distruggere chimicamente il gas in fuga, e la fiamma della torcia che l’avrebbe potuto bruciare. Ma, come ricordato più sopra, questi sistemi erano stati disattivati. Il gas, libero di muoversi a suo piacimento, trovò le valvole bloccate, ma la sua pressione era talmente elevata che si ruppero e pertanto poté sparpagliarsi nell’ambiente esterno.

Verso le ore 22:30 i tecnici di turno, che non si erano resi conto che il gas stava fuggendo, si accorsero che la pressione in quella cisterna era molto maggiore di quella prevista, però ritennero che tale anomalia non fosse nient’altro che un guasto alla strumentazione e non le diedero il giusto peso; ma quando, circa un’ora dopo, cominciò a diffondersi nei locali il caratteristico odore da «cavolo cotto» del MIC, cominciarono a preoccuparsi e a cercare di individuare dove ci fosse la sua fuoriuscita, che fu individuata un quarto d’ora prima di mezzanotte. Dispiace ribadire il concetto relativo alla gravità dell’ignoranza che aveva il personale a proposito della pericolosità di quel gas che stava invadendo i locali dello stabilimento e diffondendosi all’esterno. Constatato, poi, che i manometri segnavano pressioni ancora di almeno quattro volte superiori alla norma, compresero che il pericolo era grave e pertanto attivarono le sirene dello stabilimento, che fu immediatamente evacuato.

Intanto l’isocianato di metile fuoriuscito incontrò condizioni atmosferiche che ne favorirono la stratificazione, formando una nube più pesante dell’aria, che, spinta dal vento, si diresse ad altezza d’uomo verso le aree abitate dalle più povere popolazioni della zona, ammassate in baraccopoli o «bidonville» (così chiamano i Francesi il «bidone della spazzatura», tanto per chiarire di quale ambiente abitativo si trattasse), cioè in quegli insediamenti urbani dove le abitazioni sono fatiscenti e le condizioni di vita inenarrabili. Il gas si diffuse su un’estensione di almeno 40 chilometri quadrati di territorio.

Alla polizia cominciarono ad arrivare richieste di lumi su quanto stesse succedendo, anche perché non pochi avevano iniziato a sentire difficoltà respiratorie e stavano cercando precipitosamente di allontanarsi. Gli ospedali furono allertati. Intanto, dalla fabbrica non si avevano notizie soddisfacenti in merito a tutto quanto: fu comunicato che c’era stata una fuga di ammoniaca, prima, di fosgene, poi, di isocianato di metile, infine; ma ciò che fa specie, non fu detto quanto fosse pericoloso per la salute il gas che era in circolazione. E tale presa di posizione fu mantenuta anche per molto tempo dopo l’apocalisse, tanto che i medici, non sapendo con che cosa avevano a che fare, non erano in grado di dare le cure adeguate al caso, anche se – è corretto ricordarlo – qualora fosse stato loro comunicato, non avevano l’antidoto specifico.

Poi, più tardi, notato che la pressione era rientrata nella normalità (ma con la cisterna vuota non poteva essere diversamente), dallo stabilimento fu comunicato che il problema era risolto (sic!).

Furono fortunati coloro che scelsero di fuggire salendo sulla vicina collina, perché la sua quota aveva impedito al gas di raggiungerne la vetta.

La nube di gas avvolse tutto in una morsa mortale, che causò il decesso pressoché immediato di più di 2.000 persone, mentre stavano tentando di allontanarsi dal luogo del pericolo oppure immediatamente dopo il ricovero in ospedale.

Alla fine, furono diversi i resoconti della disastrosa faccenda: per il Centro Ricerca Medica Indiana, le persone morte sono state tra le 8.000 e le 10.000, mentre secondo Amnesty International le vittime sono state oltre 25.000; comunque, si ritiene che i numeri più probabili siano 21.000 per le morti e circa mezzo milione per i contaminati, con patologie più o meno gravi. Per quanto riguarda i danni fisici provocati dal gas, causando la morte o il malessere dei colpiti, si incontrano soffocamento, vomito, contrazioni muscolari, difficoltà respiratoria, lacrimazione, edema polmonare, cancro, diabete e altri ancora e, inoltre, diversi disturbi che portarono a variazioni genetiche, che si ritorsero nelle nuove generazioni, con nascite di bambini con gravi malformazioni e grossi problemi di salute.

Non ci sono dubbi in merito al triste primato del disastro di Bophal quale il peggiore della storia dovuto a fuga di sostanze chimiche.

L’isocianato di metile è stato eliminato dalla produzione, per cui, essendo utile per la preparazione di pesticidi, chi ne necessita, ricorre all’unica scorta esistente al mondo, che si trova presso l’impianto della Bayer in West Virginia (Stati Uniti).

La dottoressa svedese Ingrid Eckrman fece una seria ricerca e un approfondito studio sulla catastrofe che colpì Bhopal e lo descrisse nell’opera The Bhopal Saga: Causes and Consequences of the World’s Largest Industrial Disaster (L’Epopea di Bhopal: Cause e Conseguenze del più Grande Disastro Industriale del Mondo), nella quale, pur affermando che non era da escludere un atto di sabotaggio, ribadisce che comunque già da tempo gli impianti di sicurezza non erano a norma e ciò per incuria sia della UCIL, sia del Governo Indiano che, per questo, la definì «persona non gradita». Purtroppo, spesso la verità fa male, ma resta sempre verità! A proposito dell’ipotesi di sabotaggio c’è stato pure il parere del consulente Arthur D. Little, secondo il quale l’incuria dell’azienda non era tale da combinare un guaio tale, e – guarda caso – l’azienda si trovò pienamente d’accordo.

La commissione governativa, incaricata nel 2006 di stabilire quali fossero le conseguenze sulle persone, concluse i suoi lavori comunicando che di quelle coinvolte nella devastante tragedia 558.125 hanno subìto danni fisici curabili, mentre circa 7.900 divennero permanentemente invalidi. E, a rincarare la dose, nelle zone colpite si riscontrò una mortilità di 2,4 volte superiore a quella delle zone più vicine.

Per stabilire a chi attribuire la colpa di tutto quanto era successo, si istruirono vari procedimenti sia civili sia penali, nei confronti della UCIL, della società madre Union Carbide, di lavoratori in attività e in pensione e dell’amministratore delegato americano Warren Anderson, il quale, nel mese di giugno 2010, fu condannato a dieci anni di carcere per omicidio colposo; furono pure condannati otto dirigenti indiani (di cui uno già deceduto), non più in attività, fra i quali era l’allora Presidente Keshub Mahindra.

Per quanto attiene ad Anderson, questi si era ritirato in patria nel 1886, e nel 1992, non essendosi presentato alla corte per rispondere all’accusa di omicidio, fu dichiarato contumace; per questo, il Governatore dell’India inviò la richiesta di estradizione agli Stati Uniti, dove si era riparato, senza che questa fosse rispettata. Ma pare che tutto sia finito lì, perché l’India temeva che, insistendo, molti operatori economici avrebbero indirizzato gli scambi commerciali verso altri Paesi, mentre il Governo Statunitense si disinteressò della faccenda, scatenando le ire di Greenpeace. Comunque, Anderson morì presto.

Il 4 febbraio 1989 si raggiunse un accordo per i risarcimenti dei danni causati dalla fuga del gas, che ammontarono a 470 milioni di dollari contro la richiesta di 3,3 miliardi. Ma quelli che andarono male furono i sopravvissuti, con risarcimenti ritenuti ridicoli, che si sentirono maltrattati dall’Union Carbide con in testa l’amministratore delegato Warren Anderson (da cui tutto sommato c’era da aspettarselo), ma particolarmente dalle autorità politiche indiane, che spalleggiarono più gli stranieri che i propri connazionali. E questo comportamento anomalo è ricordato a ogni anniversario del disastro con le immagini dei politici e di Anderson date pubblicamente alle fiamme.

La società Dow Chemical, che nel 2001 acquistò la Union Carbide per 10,3 miliardi di dollari, dichiarò che il risarcimento dato era più che sufficiente per coprire i danni procurati dall’incidente.

Si attese sino al 2004 per vedere finalmente risarciti le vittime e i loro familiari con la cifra di 300 miliardi di dollari.

Per quanto riguarda il risanamento del territorio contaminato e sommerso da centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici, dopo un cauto inizio da parte dell’azienda, il tutto si fermò e la situazione rimase allo «status quo». Il 4 novembre 2004, la BBC rese pubblici i risultati di un’inchiesta da lei fatta, confermando quanto sopra, specificando che si trattava di sostanze chimiche tossiche, fra le quali erano presenti esaclorobenzene, piombo e mercurio, stipate in contenitori aperti, abbandonati a se stessi. Interessante fu il commento riportante che in certe zone, sostando più di una decina di minuti, si correva il rischio di perdere conoscenza. Sempre la BBC fece fare analisi sulla potabilità dell’acqua dei pozzi e delle sorgenti, che confermarono che era inquinata almeno 500 volte di più della norma.

Stando a quanto è dato sapere, l’area interessata dal disastro non è stata completamente risanata e la popolazione mostra ancora problemi di salute, mentre bambini nascono con malformazioni e patologie gravi: la colpa è attribuita all’acqua che, stando ad analisi condotte «ad hoc», contiene diverse sostanze, soprattutto clorurate, nocive, e ai fanghi tossici che giacciono sparsi in giro. Sarebbe bello se gli abitanti di quelle zone potessero trasferirsi altrove: giusto, però disgraziatamente non sono in grado di permetterselo.

Intanto, è stato presentato il progetto di un architetto, approvato dal Governo, che prevede la trasformazione del sito, una volta completamente disinquinato, in memoriale, cioè in un luogo di attrazione per il turismo, organizzato con elementi strutturali che ricordino quanto è malauguratamente accaduto, le vittime e i tanti disagi provocati, per ricordare che gli errori devono essere previsti e non corretti; secondo il parere di Sathinath Sarangi dovrebbe essere qualcosa di analogo al recupero dei campi di concentramento tedeschi, i «lager» di triste memoria.

(ottobre 2023)

Tag: Mario Zaniboni, disastro, Chernobyl, torrenti d’acqua, terremoti, faciloneria, rimostranze, Bhopal, Madhya Pradesh, Gauley Mountain, UCC, UCIL, brevetto, isocianato di metile, MIC), fosgene, metilammina, sindacati, manutenzione, Safety First, Sevin, fughe di gas, temperatura, pressione, baraccopoli, cavolo cotto, resoconti, Warren Anderson, Bayr, morti e danni fisici, Ingrid Eckman, Arthur D. Little, Dow Chemical, risarcimenti, risanamenti, memoriale.