Fatti e conseguenze della conquista greca
«Graecia capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio» («La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore e introdusse le arti nell’agreste Lazio»), Orazio

La sconfitta di Perseo nella battaglia di Pidna aveva convinto il Senato di Roma che la Macedonia doveva essere punita con quella severità ch’era tipica degli antichi Romani: l’antico Regno di Alessandro Magno venne diviso in quattro Stati che, seppur formalmente indipendenti, erano obbligati a versare a Roma la metà dei tributi riscossi; molte famiglie aristocratiche macedoni, oltre allo stesso Perseo, furono condotte prigioniere in Italia. Ancor più dura fu la repressione in Epiro: 70 città di quella regione vennero distrutte!

Alla Grecia, invece, i Romani non tolsero la libertà: si limitarono a condannare a morte numerosi aristocratici a loro ostili e a deportare in Italia un gran numero di cittadini achei. La città di Rodi, che aveva preso parte attiva alla guerra come alleata di Perseo, fu privata dei suoi possedimenti sulla costa asiatica e i suoi commerci furono ostacolati con la creazione di un porto rivale a Delo. Il territorio della Lega Achea venne ristretto e le città di Sparta e Argo escluse dalla Lega. Così i Romani potevano controllare meglio le province greche, le città rivali, i partiti e le classi che continuavano ad appellarsi al Senato di Roma per averne l’appoggio, le une contro le altre: per diversi anni, questo permise loro di mantenere la pace. Ma i sentimenti delle popolazioni elleniche nei loro confronti erano destinati a mutare in modo profondo: coloro che erano stati salutati come liberatori dopo la vittoria su Filippo V, finirono per essere odiati. Le città greche erano disposte a molte cose, ma non a mettere da parte la loro rissosità e a cercare di prevalere l’una sull’altra: la possibilità di una coesistenza pacifica non era contemplata! Così, tanto la Macedonia quanto la Grecia cominciarono ad aspettare il momento opportuno per ribellarsi.

L’occasione si presentò dapprima in Macedonia: circa nell’anno 150 avanti Cristo, un avventuriero greco asiatico di nome Andrisco si presentò ai Macedoni come Filippo, figlio di Perseo ed erede al trono di Macedonia, e li esortò a unirsi a lui per ricostruire l’antico Regno. Era stato arrestato in Siria da Demetrio Soter e mandato a Roma, ma da qui era riuscito a fuggire. Stupendo i contemporanei, raccolse numerosi soldati e si fece proclamare Re, cogliendo poi una vittoria contro un esercito romano agli ordini di Publio Iuvenzio Talna. Il Console Quinto Metello Macedonico accorse con le sue legioni dall’Illiria: un uomo dall’espressione serena, sbarbato, una persona che s’indovinava raffinata; rigoroso moralista nella vita privata, era reazionario in politica. Travolse l’esercito di Andrisco (148 avanti Cristo) in quella stessa località di Pidna in cui vent’anni prima era stato battuto Perseo e domò la rivolta con rapidità.

La ribellione, però, si riaccese nella «polveriera» greca. Ad appiccare il fuoco alle polveri fu il ritorno in patria, dopo 16 anni di esilio italiano, dei superstiti della deportazione avvenuta dopo la vittoria su Perseo: di 1.000 ch’erano partiti, ne tornarono solo 300; gli altri erano quasi tutti morti. Giunti nelle loro città, questi esuli iniziarono un’intensa propaganda contro i Romani. Le città già ostili a Roma, unite nella Lega Achea, presero allora ad aggredire le città fedeli all’alleanza coi Romani. In tutta la Grecia si tennero manifestazioni anti romane.

Nel 146 avanti Cristo, la Lega cominciò a raccogliere oro e a preparare la guerra. I capi del proletariato presero il controllo del movimento, reclutarono uomini in ogni regione, liberarono e armarono gli schiavi, decretarono la moratoria dei debiti, promisero una distribuzione di terre e aggiunsero alla guerra la rivoluzione. Roma, preoccupata dall’atteggiamento minaccioso dei Greci, mandò degli ambasciatori per chiedere alla città di Corinto di uscire dalla Lega Achea; gli ambasciatori furono accolti con ostilità, le donne di Corinto rovesciarono su di loro recipienti colmi di rifiuti mentre il popolo urlava ai rappresentanti di Roma di andarsene definitivamente dalla Grecia.

Sapendo che i Romani erano duramente impegnati nella terza guerra contro Cartagine e in Spagna, dove alcune tribù celtibere si erano ribellate, i capi della Lega Achea avevano la speranza di poter indurre il nemico ad abbandonare ogni pretesa sulla Grecia. Esaltati da questo auspicio, favorirono le manifestazioni popolari e si risolsero a votare la guerra contro Roma. Alla Lega si unirono la Beozia, la Locride e l’Eubea, oltre ai superstiti dell’esercito di Andrisco: in tutto, 14.000 fanti e 600 cavalieri.

Il Senato Romano non si lasciò intimorire: nonostante le altre guerre in corso, inviò in Grecia una flotta comandata da Quinto Metello Macedonico e un esercito di 23.000 fanti e 3.500 cavalieri sotto il comando del Console Lucio Mummio, un soldato – già famoso per le vittoriose spedizioni in Spagna – che non s’intendeva di politica né d’arte ma che sapeva far bene la guerra e che era consapevole che il suo dovere era obbedire agli ordini del Senato. I legionari romani sbarcarono nei pressi di Corinto, trovando una popolazione divisa; sopraffecero facilmente l’indisciplinato esercito della Lega Achea nella battaglia di Leucòpetra e pochi giorni dopo s’impadronirono della stessa Corinto. La direttiva che Mummio aveva avuto da Roma era di impartire ai Greci una lezione tale da non esser dimenticata facilmente, e il Console decise di applicare il comando in modo scrupoloso: non pensò all’importanza della città come porto e centro di commerci, né agli inestimabili capolavori d’arte che erano racchiusi nei suoi palazzi. La sottopose a un sacco senza quartiere, poi l’incendiò, passò a fil di spada tutti gli uomini atti alle armi, vendette schiavi i bambini e le donne, e portò a Roma quasi tutti i beni asportabili nonché le opere d’arte; dalla distruzione si salvarono solo alcuni templi e l’Acropoli. Il decreto senatoriale che gli era stato consegnato, d’altronde, non lasciava spazio a interpretazioni: la città doveva essere totalmente rasa al suolo. Quando gli fu consegnata la parte di bottino che gli spettava, Mummio fece dividere l’oro e le pietre preziose dal resto: non considerava statue e pitture cose adatte a un soldato, e decise di venderle a quel raffinato del Re di Pergamo, nel cui palazzo avrebbero fatto certo una buona figura.

Era l’anno 146 avanti Cristo: nello stesso anno della distruzione di Cartagine, i Romani posero fine all’indipendenza della Grecia, che divenne una provincia di Roma col nome di Acaia. La Lega Achea fu sciolta, e tutto il territorio venne annesso alla Macedonia; solo Atene e Sparta poterono mantenere i propri ordinamenti e le proprie leggi. La Macedonia, l’Epiro e la Grecia divennero praticamente un solo territorio sotto il controllo di Roma e seguirono le sorti del suo impero fino alla caduta. Per i successivi 2.000 anni, la Grecia non avrebbe più conosciuto la libertà; per la Macedonia, l’attesa sarebbe stata ancora più lunga.

Potrebbe stupire pensare che, solo pochi anni dopo la distruzione di Corinto, i rapporti tra Greci e Romani erano mutati di nuovo, in senso positivo. Lo stesso Lucio Mummio, che era rimasto in Acaia col titolo di proconsole, dopo aver avuto fama di uomo rozzo e incolto per la trascuratezza con cui aveva valutato le preziose opere artistiche contenute nel suo bottino, si era conquistato la confidenza e la stima dei Greci per la sua onestà e la sua giustizia: nel giro di dieci anni, il rude soldato di Roma si era trasformato in un governatore elegante e dai modi compiti, che non si dava pace al pensiero di aver venduto, per pochi denari, tanti tesori d’arte.

I Greci, ormai stanchi delle rivalità e delle sterili inimicizie che li avevano divisi per secoli, si convinsero dell’opportunità di accettare senza proteste la dominazione romana, che assicurava pace e ordine. Alcuni, anzi, divennero sinceri ammiratori di Roma: uno di questi era lo storico Polibio, uno di quei 1.000 notabili che erano stati deportati in Italia dopo la battaglia di Pidna; il contatto quotidiano con la vita e con le istituzioni romane e l’inevitabile confronto con le meschine rivalità che dividevano i partiti e le città greche, lo avevano trasformato in autentico sostenitore degli antichi nemici. Polibio ottenne di potersi stabilire a Roma; divenne amico personale di Scipione Emiliano, ne educò i figli e lo seguì in tutte le sue campagne di guerra in Spagna e in Africa. Nel frattempo raccoglieva documenti e testimonianze per la sua Storia, nella quale narrò mirabilmente le imprese che portarono Roma alla conquista del Mediterraneo, esaltando il valore dei Romani e la nobiltà delle loro istituzioni civili.

Anche i Romani, dopo la conquista, erano rimasti affascinati dalla civiltà greca, di cui riconoscevano la superiorità in campo culturale. Chiamarono nella capitale numerosi maestri e filosofi greci e si diedero a imitarli nei costumi e negli studi. La lingua greca non scomparve, ma divenne lingua «d’obbligo» per tutte le persone colte e, quasi, una sorta di lingua «universale» per tutto l’Impero di Roma, un po’ come la lingua inglese oggi; anche i Vangeli furono redatti in greco. L’arte e la cultura latina furono influenzate in modo profondo dalla cultura greca e non a torto un grande poeta latino, Orazio, affermò che la Grecia, conquistata dalle armi di Roma, aveva conquistato Roma con la sua cultura.

La conquista della Grecia non fu un beneficio solo per Roma, ma per l’intera civiltà umana: perché là dove i Romani estesero il loro dominio, assieme alle loro giuste leggi e alla loro lingua, portarono lo spirito e la cultura che avevano appreso dalla Grecia. Da tale mirabile fusione nacque la cultura classica, termine che vuole indicare la cultura perfetta, il vertice ideale, più alto, della cultura umana!

(maggio 2020)

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