Campi profughi
La diaspora dell’Esilio giuliano e dalmata: una memoria storica nel segno dell’etica e della giustizia

Il grande Esodo da Venezia Giulia e Dalmazia ebbe origine durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra mondiale, si protrasse a lungo negli anni successivi con una punta massima in concomitanza col trattato di pace del 1947 che trasferiva alla Jugoslavia la sovranità su due intere Regioni (pari all’8% del territorio nazionale) e fece registrare un forte colpo di coda nel 1954, quando la Zona «B» del cosiddetto Territorio Libero di Trieste venne trasferita alla Jugoslavia (poi definita formalmente coi nefasti Accordi di Osimo del 1975).

La fuga di un intero popolo che non ebbe esitazioni nell’abbandonare ricordi, affetti, beni materiali e persino le tombe avite per affermare la propria scelta cristiana e civile, nell’ossequio al tradizionale patriottismo e nel rifiuto dell’ateismo di Stato e del collettivismo forzoso, diede luogo a conseguenze spesso irreversibili, in primo luogo sul piano individuale e familiare. Una delle maggiori fu la lunga permanenza di molti nuclei nei campi di raccolta, alcuni dei quali vennero smantellati soltanto alla fine degli anni Sessanta, quando erano trascorsi oltre due decenni dall’Esodo.

In materia, esistono cifre non sempre concordi, anche per quanto riguarda il numero effettivo dei campi. Le tesi più accreditate e ormai accettate dalla storiografia, fra cui quella di Padre Flaminio Rocchi, si riferiscono a circa 110 unità dislocate in tutte le Regioni italiane: secondo la più recente testimonianza di Maria Antonietta Marocchi, che ne ha curato il catalogo, le sole eccezioni riguardano Trentino-Alto Adige, Molise e Basilicata. Lo scaglionamento dell’esilio, protrattosi a lungo secondo le diverse vicende delle terre d’origine, dapprima militari e poi politiche – Zara fu la prima a essere abbandonata mentre il comprensorio Nord-Occidentale dell’Istria fu l’ultimo dopo quasi un decennio – costituì un ulteriore motivo della lunga durata, aggravando quello prioritario, costituito dall’irresponsabile disimpegno governativo.

Esistono parecchie opere monografiche sui campi di maggiore rilevanza o notorietà, predisposte a cura di Organizzazioni locali o di ospiti che hanno avvertito il diritto-dovere di tramandarne la memoria: è il caso, per citare qualche esempio significativo, di Fertilia, Gorizia, La Spezia, Latina, Servigliano, Tortona, Udine, Trieste. In genere, si tratta di contributi rilevanti sia sul piano della documentazione analitica, sia su quello dell’approfondimento di un’esperienza veramente traumatica anche sul piano psicologico.

È difficile stabilire con precisione quanti siano stati gli Esuli chiamati a confrontarsi con l’amara esperienza di questi campi, fatta di promiscuità diffusa e di condizioni igieniche al limite della sopportazione, se non anche della sopravvivenza: certamente, una quota molto significativa dei 350.000 Italiani costretti alla diaspora. Tali condizioni prescindevano dalle dimensioni del campo, sebbene quelli di maggiore ampiezza comportassero ulteriori disagi di natura organizzativa perché richiedevano la consumazione dei pasti in strutture esterne.

In qualche caso, i campi vennero addirittura presidiati dalla forza pubblica, come se avessero ospitato prigionieri delinquenti o rivoluzionari, per non parlare dell’allucinante decisione assunta dal Governo Scelba quando impose alle Prefetture di assumere le impronte digitali di ciascun profugo (poi rientrata per la vibrante protesta del Vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin).

Le fonti sono univoche nel descrivere le condizioni ambientali dei campi, che il più delle volte vennero ricavati da vecchie caserme, edifici scolastici e persino da industrie abbandonate (a Firenze fu utilizzato un cadente edificio della vecchia Manifattura Tabacchi) per non dire dei luoghi di prigionia utilizzati durante il periodo bellico, come a Fossoli (Modena). In genere mancavano i servizi fondamentali, fatta eccezione per qualche rubinetto di acqua fredda, e le divisioni tra spazi familiari, sempre ristretti e precari, venivano realizzate tramite le tristemente note coperte sorrette da spaghi di canapa, o nei pochi casi più fortunati, per mezzo di strutture in legno compensato.

La letteratura del genocidio perpetrato a danno del popolo giuliano e dalmata si è giustamente soffermata sui campi di detenzione in territorio jugoslavo, dove i prigionieri italiani subirono persecuzioni spesso mortali, assieme a deportati civili che non avevano neppure la «colpa» di avere combattuto contro l’Armata Popolare: è il caso di Borovnica, Isola Calva, Mitrovica, Prestrane, Skofia Loka, Stara Gradiska, dove si consumarono autentici delitti contro l’umanità, come da lucida interpretazione di Italo Gabrielli. Naturalmente, ciò non significa che si debbano trascurare i campi di raccolta dei profughi in territorio italiano, dove le sofferenze si protrassero per lungo tempo: non sono poche le famiglie che vi hanno languito per oltre un decennio, nell’attesa sempre più angosciosa e frustrante di un’abitazione e di un posto di lavoro.

Il maggior numero di questi campi fu dislocato nel Lazio e in Toscana con 11 unità per ciascuna Regione, mentre altre otto furono sistemate in Campania e Lombardia, sette nelle Puglie, sei nel Friuli-Venezia Giulia e in Veneto, cinque in Emilia-Romagna, Marche e Piemonte, tre negli Abruzzi e in Liguria, senza trascurare le Regioni più lontane: cinque campi vennero attrezzati in Sicilia, quattro in Sardegna e tre in Calabria. Questa diaspora, per taluni aspetti non casuale perché si voleva impedire la concentrazione dei profughi in pochi contesti dove avrebbero potuto costituire un aggregato politicamente significativo, non precluse la rapida maturazione dello spirito associativo, conforme a una spontanea esigenza umana: le prime Organizzazioni degli Esuli, sorte con finalità prioritarie di carattere assistenziale, videro la luce sin dall’immediato dopoguerra.

La mappatura geografica conferma che la distribuzione a ventaglio era stata sostanzialmente programmata tanto da scartare, a esempio, l’ipotesi di una «Nuova Pola» da realizzare nel Gargano, dove il Comune di Vieste aveva messo a disposizione l’area, o in Sardegna, dove i pescatori dalmati furono l’avanguardia della «colonia» esule di Fertilia. Spesso, anche le destinazioni erano casuali: dai campi di transito della Venezia Giulia passavano migliaia di profughi che venivano indirizzati a quelli di ricovero definitivo in base a criteri contingenti, tanto che in qualche caso non si tenne conto delle esigenze familiari prioritarie, con disumane divisioni dei nuclei (come da struggente testimonianza di Francesco Tromba, affidato ai Francescani di Venezia mentre la mamma e le sorelle furono destinate in Puglia). Per completare il panorama dei disagi, si deve aggiungere che, soprattutto nel primo biennio del dopoguerra, i viaggi si effettuavano in tempi biblici e con mezzi di fortuna, quali camion militari e treni merci costituiti da vagoni dotati di qualche panca, e talvolta, persino da carri a cielo aperto.

Nei campi, la struttura di prima accoglienza era meno che spartana. A esempio, nel caso di Latina, gli Esuli ricordano tuttora che ogni nucleo familiare veniva dotato di mezza balla di paglia a persona, da trasformare in improbabili giacigli. Eppure, il numero di coloro che rifiutarono la scelta plebiscitaria dei 350.000 e tornarono indietro fu infinitesimo, tanto da potersi contare sulle dita delle mani: nella storia italiana non esiste una maggioranza altrettanto schiacciante.

La sopravvivenza fisica era affidata alle mense, ai patronati e alla buona volontà dei singoli. Soltanto col passare degli anni e con la progressiva attenuazione dell’emergenza edilizia il problema cominciò a ridimensionarsi, sia pure con lentezza. Un contributo molto importante venne dall’emigrazione: si calcola che almeno un quarto dei profughi, vista l’estrema precarietà delle condizioni italiane, a cominciare dal difficile problema occupazionale, abbia optato per trasferirsi in altri Paesi generalmente lontani, con preferenza per America e Australia, dove molti affermarono con successo la dignità del proprio lavoro (cosa accaduta spesso anche nella madrepatria).

Al di là della tradizione orale e delle opere destinate ai ricordi, è congruo chiedersi che cosa resti di questa importante pagina della storia italiana.

In primis, una grande lezione di patriottismo, tanto importante da indurre straordinarie capacità di sopportare disagi allucinanti, aggravati nei profughi meno giovani dalla precarietà della salute e dallo sconforto per accoglienze che, come è stato ampiamente documentato, non furono sempre buone: molti concittadini vedevano nell’arcipelago esule una drammatica concorrenza in materia di case e lavoro, e si ostinavano a non comprendere le ragioni per cui quegli infelici avevano abbandonato il socialismo reale e il cosiddetto «paradiso» di Tito.

Per citare un esempio significativo, nella campagna elettorale del 1948, che il 18 aprile avrebbe visto la decisiva sconfitta del Fronte Popolare, non mancarono oratori di Sinistra come Eros de Franceschini, candidato in Liguria, che vollero paragonare i «banditi giuliani» al celebre «bandito Giuliano» da cui erano infestate ampie plaghe della Sicilia Occidentale. Ciò, senza dire di quelle madri che, per corroborare i rimproveri ai bambini, promettevano – come accadde a Novara – che in caso di recidiva li avrebbero fatti «mangiare da un profugo». E senza menzionare i turpi episodi occorsi alla stazione ferroviaria di Bologna o nel porto di Ancona, culminati in manifestazioni oltraggiose nei confronti degli Esuli, ampiamente documentate dalle testimonianze e dalla storiografia.

Furono necessari molti anni perché queste pregiudiziali venissero esorcizzate da una conoscenza meno episodica della realtà jugoslava e del progressivo avviamento della Repubblica Federativa verso il disastro, prima economico e poi politico.

Quello degli Istriani e dei Giuliani è stato un patriottismo paziente e tollerante, improntato alle grandi virtù cristiane della fede e della speranza, e ha costituito un esempio da perpetuare nella memoria collettiva: un contributo politicamente rilevante a questa esigenza di fondo è scaturito dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92 (per iniziativa dell’Onorevole Roberto Menia) che a un sessantennio dall’Esodo ha istituito il Giorno del Ricordo, con approvazione praticamente unanime, fissandolo nel 10 febbraio di ogni anno. Nondimeno, il più resta da fare, perché la conoscenza del dramma giuliano, istriano e dalmata è tuttora minoritaria ed episodica, mentre parecchie celebrazioni hanno assunto una valenza ripetitiva e rituale: a esempio, le Medaglie conferite dal Presidente della Repubblica, su istanza dei congiunti, in onore delle Vittime infoibate o diversamente massacrate, risultano appena un migliaio, a fronte dei 20.000 Caduti di cui alla meritoria ricerca nominativa compiuta da Luigi Papo. Non c’è dubbio: occorre fare di più e promuovere un salto di qualità.

Gli Esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia hanno pagato per tutti, moralmente e materialmente, facendosi carico loro malgrado dei debiti di guerra verso la Jugoslavia pagati coi loro beni, ma non hanno mai tradito. Anzi, l’Italia unita, indipendente e libera è stata sempre nelle loro menti e nei loro cuori, e continua a esserlo.

(dicembre 2018)

Tag: Laura Brussi, campi profughi, diaspora dell’Esilio giuliano e dalmata, Trattato di pace, Accordi di Osimo, Flaminio Rocchi, Maria Antonietta Marocchi, Mario Scelba, Antonio Santin, Italo Gabrielli, Francesco Tromba, Josip Broz detto Tito, Eros de Franceschini, Salvatore Giuliano, Roberto Menia, Legge 30 marzo 2004 numero 92, Luigi Papo de Montona, Giorno del Ricordo.