Stragi del dopoguerra: dall’eccidio nazista nelle Prealpi Vicentine (30 aprile 1945) al rifiuto della medaglia d’argento per Pedescala (1983)
Le ragioni di una non facile decisione

La cosiddetta storia minore mette spesso in luce episodi particolari su cui è congruo formulare qualche riflessione oggettiva, dovuta a più forte ragione quando lo scorrere del tempo consente, per quanto possibile, di farlo con «mente pura» onorando l’immaginifico assunto di Giambattista Vico. Un caso non molto noto, che appartiene alle vicende immediatamente successive alla fine della Seconda Guerra Mondiale, è quello dell’eccidio perpetrato a Pedescala (Vicenza) dagli ultimi reparti nazionalsocialisti in ritirata, fra il 30 aprile e l’inizio di maggio del 1945, e concluso con l’agghiacciante cifra di 63 caduti.

La rievocazione di tale episodio diventa a più forte ragione ragguardevole considerando che, accanto alla naturale «pietas» dovuta a tante vittime incolpevoli, molti anni più tardi, e più precisamente nel 1983, il predetto Comune veneto si rese protagonista di un fatto imprevedibile: il rifiuto della Medaglia d’Argento che gli era stata conferita ad altissimo livello istituzionale in memoria di quel truce avvenimento. Proprio per questo, la strage di Pedescala assume una rilevanza storica particolare su cui conviene attirare l’attenzione, sempre doverosa anche a circa un ottantennio dai fatti.

Vicenza, capoluogo della provincia berica, era stata raggiunta dalle forze alleate al mattino del 28 aprile, con qualche giorno di ritardo rispetto ad altre città del Veneto, mentre quelle tedesche di occupazione si erano già ritirate, con l’eccezione di una retroguardia di SS che lo aveva fatto poco prima che sopraggiungessero i primi contingenti anglo-americani. Era la tecnica ormai consolidata dello «sganciamento», tanto più congrua nel tentativo di prevenire inutili perdite quando l’evidenza della sconfitta aveva assunto un carattere assolutamente irreversibile. Nondimeno, proprio il 28 aprile quelle retroguardie si resero responsabili dell’eccidio di Campedello, in cui caddero 12 Italiani, tra cui due donne, a seguito dell’uccisione di un soldato tedesco avvenuta in circostanze non sufficientemente chiarite.

Due giorni dopo, ecco la strage ancora più terribile di Pedescala, se non altro per il numero delle vittime, che in tempi largamente successivi avrebbe suffragato il conferimento della Medaglia d’Argento al Valor Militare con questa motivazione: «L’attività partigiana si è opposta alle distruzioni del nemico culminate con l’assurdo e barbaro eccidio». Ed ecco quella del rifiuto: «Spararono e poi fuggirono sui monti dopo averci aizzato contro la rabbia dei Tedeschi, e ci lasciarono inermi a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione»; senza dire che «per tre giorni non si mossero, guardando le case e le persone bruciare». Infine, si chiedeva ironicamente «con quale coraggio, oggi proclamano di avere difeso i nostri cari» (confronta Camillo Pretto, Presidente dell’Associazione Famiglie delle Vittime, in «La Nuova Venezia», 13 agosto 2003).

In tutta sintesi, come avrebbe detto Giuseppe Giusti, il fatto «è lì che parla a chi lo vuol sentire» e trae maggiori motivi di attenzione da un gesto comunque sofferto come quello del rifiuto di un’onorificenza. In realtà, la «toccata e fuga» quale strategia partigiana non era un fatto nuovo, già accaduto più volte, come nella grande strage di Sant’Anna di Stazzema (Lucca) costata la vita di oltre 500 vittime, ma nel caso di Pedescala è di tutta evidenza che l’iniziativa era ormai priva di specifiche valenze militari perché i Tedeschi, caso mai, avevano il problema prioritario e opposto di accelerare la marcia verso Settentrione, nell’improbabile tentativo di rientrare in Germania, anziché quello di ingaggiare nuovi conflitti.

A prescindere da ogni dettaglio sia pure allucinante, come quelli concernenti età e ruoli di alcune vittime, la strage di Pedescala è riassumibile nel carattere assurdo dei fatti, anche dal punto di vista strettamente militare. Chiaramente, i Tedeschi non hanno attenuanti per un comportamento contrario alla legge dell’onore, non potendo ritenersi tale la «rabbia» per la sconfitta ormai consumata e per la perdita di tanti commilitoni, e dovendosi valutare l’aggravante di averla scatenata contro tante vittime innocenti. D’altro canto, i partigiani non furono da meno, avendo fatto sostanzialmente da spettatori, e continuato la prassi ormai consolidata di agire con lo scopo di incrementare l’odio contro un nemico che, almeno in quella fattispecie, quasi non esisteva più.

Il fatto nuovo che induce riflessioni più approfondite è il rifiuto della Medaglia al Valore da parte del Comune destinatario, sebbene maturato a distanza di tanto tempo dall’accaduto, analogamente al conferimento: cosa che la dice lunga, fra l’altro, sulla cosiddetta «astuzia della ragione» di hegeliana memoria che avrebbe consigliato un ampio differimento del medesimo, senza mettere nel conto l’avvento della predetta «mente pura» dopo più mature meditazioni. In realtà, nulla vieta di pensare che, qualora i tempi fossero stati più celeri, come in tanti altri casi, il ripensamento comunale avrebbe avuto minori probabilità di successo.

Il rifiuto di una Medaglia al Valore è una realtà indubbiamente rara, che afferma un dissenso categorico dai valori impliciti nella concessione dell’onorificenza, e come tali, destinati a condivisioni pressoché plebiscitarie. Eppure, il fatto che sia accaduto a fronte di eventi del 1945, occorsi proprio a guerra appena finita, dimostra che non esiste un «pensiero unico» idoneo a sconfessare quello torturato dal dubbio, di cui al grande dramma di Amleto.

Il 25 aprile è stato assunto ormai da gran tempo come data convenzionale di fine della guerra sul territorio italiano, e delle conseguenti celebrazioni, anche se la Repubblica Sociale si dissolse come neve al sole, senza alcun atto formale di resa, ma con quello certamente sostanziale delle fucilazioni di Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra, e dei suoi maggiori collaboratori sul lungolago di Dongo. Come avrebbe detto un fine giurista del Seicento, si sarebbe trattato di un «eccesso del giure comune per fine di pubblica utilità» da ravvisare nell’esigenza di chiudere una terribile storia pluriennale e di voltare pagina senza tenere conto dell’«ethos», anteponendogli la «ragione di Stato».

Alla luce di queste considerazioni, il rifiuto della Medaglia d’Argento per i fatti di Pedescala, avvenuti a guerra finita, deve essere interpretato secondo un valido criterio storiografico, per quello che fu realmente: il recupero, sia pure a distanza non breve, di un’oggettività del giudizio senza dubbio necessaria, in primo luogo al recupero dell’«ethos» in un quadro di priorità morale e civile.

(novembre 2023)

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