Me ne frego
Origini di un celebre aforisma

È passato un secolo dal mattino di quel 12 settembre 1919, quando la barra confinaria di Cantrida, nei pressi di Fiume, fu protagonista di un episodio destinato a passare alla storia. La colonna dei Legionari di Gabriele d’Annunzio, che era partita da Ronchi nel corso della notte, giunse in vista della linea di demarcazione, presieduta dalle forze «regolari» agli ordini del Generale Vittorio Emanuele Pittaluga, e suo tramite, dal Governo del Regno d’Italia presieduto da Francesco Saverio Nitti. Nell’occasione, ebbe luogo il celebre colloquio fra i due maggiori protagonisti della vicenda, quando il Comandante d’Annunzio, imitando il gesto di Napoleone dopo la fuga dall’Elba e lo sbarco in Costa Azzurra, si rivolse al suo interlocutore, invitandolo a dar l’ordine di sparare sul suo distintivo di Mutilato e sul nastrino azzurro della Medaglia d’Oro al Valore che teneva orgogliosamente sul petto.

Come narrano le cronache, Pittaluga tentò di tergiversare e di prendere tempo, ma rimase «impietrito» quando d’Annunzio, col suo proverbiale decisionismo, diede un altro ordine prontamente eseguito: quello di riprendere la marcia verso Fiume. Sulla linea di confine (in effetti si trattava – come detto – di una semplice linea di demarcazione perché non era stato firmato alcun documento definitivo sul nuovo assetto di diritto internazionale) il Generale Giuseppe Ferrari, che aveva già disposto perché i suoi uomini usassero le armi contro i «sediziosi» e minacciato la fucilazione degli Arditi che avessero ignorato il divieto di procedere, cercò nuovamente di fermare la marcia dei Legionari, ma il tenente dei Bersaglieri Costanzo Ranci, alla guida di un autoblindo, si gettò contro lo sbarramento mandandolo in frantumi[1] e pronunciando un’esclamazione che sarebbe diventata celeberrima: «Me ne frego»!

Il resto è storia nota: non mancarono immediate defezioni tra le file dei «regolari» e dello stesso VIII Reparto d’Assalto che aveva il compito di presiedere la barra, a cominciare dal suo Comandante, Maggiore Giuseppe Nunziante. In particolare, nella sola giornata del 12 settembre si sarebbero verificate almeno 630 «diserzioni» che andarono a potenziare la colonna dannunziana già prima di mezzogiorno, l’ora della «Santa Entrata»[2]. Il dado era stato tratto, e l’occupazione di Fiume in nome dell’Italia diventava un fatto compiuto, che il nuovo Governo di Giovanni Giolitti avrebbe potuto risolvere a viva forza soltanto 16 mesi più tardi con quella vera e propria prova di guerra civile, oltre che militare, passata agli annali con l’emblematica definizione di «Natale di Sangue».

Qui, vale la pena di spendere qualche parola sul comportamento di Costanzo Ranci: un Legionario capace di trarre spunto dalla forza carismatica del Comandante d’Annunzio per assumere una decisione che in altri tempi e in altre circostanze lo avrebbe portato certamente davanti alla Corte marziale, con quali conseguenze è facile immaginare. Nondimeno, ciò significa che, grazie a quel carisma, tanti personaggi altrimenti condannati all’anonimato ebbero l’occasione per diventare soggetti attivi di storia, in deroga a un noto assunto elitario: a Fiume furono parecchi, a cominciare dallo stesso Ranci per continuare coi Legionari, che scalarono la torre civica per tagliare una testa dell’invisa aquila asburgica, per non dire del raid aereo di Guido Keller da Fiume a Roma, con lo scopo di lanciare su Montecitorio un pitale pieno di rape.

Come tutti sanno, il «me ne frego»[3] è diventato un aforisma di grande notorietà per il successo che ebbe durante il Ventennio fascista, ma nello stesso tempo, per la frequenza assunta nel linguaggio comune, con particolare riferimento a quello familiare e popolare. Il referente specifico dell’espressione semantica deve essere individuato nella volontà di «infischiarsi» di una determinata realtà, non senza qualche componente ludica, ma nella fattispecie fiumana sembra potersi integrare con la volontà di negare i possibili effetti del danno apportato a se stesso «per propria colpa o trascuratezza» che diventano, peraltro, motivo di merito specifico se non anche di valore legato all’azione[4].

Al giorno d’oggi, le vulgate prevalenti insistono nel condannare il «me ne frego» come affermazione di stile fascista. In questo senso, nulla di nuovo si vede sotto il sole: in ogni caso, è cosa buona e giusta sottolineare che l’origine della celebre espressione deve collocarsi in tempi certamente precedenti, e che la sua genesi etico-politica si pone in una sintesi di nobile sentire e forte agire appartenente da sempre al mondo dei valori non negoziabili, senza distinzioni di spazio e di tempo.


Note

1 Una versione esaustiva del fatto, alla luce di puntuali ricerche sui documenti e sulle testimonianze dell’epoca, è reperibile nella monumentale opera di Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia: La questione adriatica dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista (1918-1922), Herald Editore, Roma 2018, 682 pagine (con amplissima bibliografia ed elenchi dei Caduti).

2 Confronta Luigi Emilio Longo, L’esercito Italiano e la questione fiumana (1918-1921), Edizioni dello Stato Maggiore dell’Esercito, 2 volumi, Roma 1996, 832 pagine. Si tratta di una ricostruzione ufficiale, assai analitica, dell’Impresa di Ronchi e del relativo seguito sino alla catarsi della Reggenza.

3 Secondo una tradizione orale, il motto in questione sarebbe stato pronunciato una prima volta durante la Grande Guerra, in occasione della seconda battaglia del Piave (16 giugno 1918) quando gli Arditi guidati da Giovanni Messe si lanciarono all’assalto di Col Moschin catturando 25 mitragliatrici e oltre 300 militari delle forze nemiche, al grido: «Me ne frego». Non si può escludere che la memoria del fatto fosse ben presente nel mondo dei Legionari fiumani, tanto più che era passato soltanto un anno dalla battaglia del Solstizio (come quella del 16 giugno sarebbe stata rinominata proprio dal Comandante d’Annunzio).

4 Per queste definizioni e interpretazioni, confronta il Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Milano 2003, pagine 669-670. In realtà, laddove il «fregarsi» corrisponde a un’azione di nocumento per il soggetto che la compie, il «me ne frego» diventa consapevole accettazione di quel possibile danno per uno scopo superiore. A ben vedere, è una sintesi estrema del pensiero di Nicolò Machiavelli secondo cui la salvezza dello Stato (e non altro) è fine idoneo all’utilizzo di ogni possibile strumento: come la distruzione della barra di Cantrida avvenuta il 12 settembre 1919 a iniziativa di Costanzo Ranci.

(maggio 2019)

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